L'angolo della poesia

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  • Sean
    Csar
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    • In piedi tra le rovine
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    #31
    Originariamente Scritto da odisseo Visualizza Messaggio
    La pioggia nel pineto


    qualcosa di straordinario...
    Straordinaria, è vero, ma pure old
    E' la prima postata.
    ...ma di noi
    sopra una sola teca di cristallo
    popoli studiosi scriveranno
    forse, tra mille inverni
    «nessun vincolo univa questi morti
    nella necropoli deserta»

    C. Campo - Moriremo Lontani


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    • odisseo
      Bodyweb Senior
      • Oct 2008
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      #32
      Alla sera

      Forse perché della fatal quiete
      tu sei l'immago a me sì cara vieni
      o Sera! E quando ti corteggian liete
      le nubi estive e i zeffiri sereni,

      e quando dal nevoso aere inquiete
      tenebre e lunghe all'universo meni
      sempre scendi invocata, e le secrete
      vie del mio cor soavemente tieni.

      Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
      che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
      questo reo tempo, e van con lui le torme

      delle cure onde meco egli si strugge;
      e mentre io guardo la tua pace, dorme
      quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.

      FOSCOLO
      "
      Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"

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      • odisseo
        Bodyweb Senior
        • Oct 2008
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        #33
        Originariamente Scritto da Sean Visualizza Messaggio
        Straordinaria, è vero, ma pure old
        E' la prima postata.
        eh lo so ma lo dovevo ribadire
        "
        Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"

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        • gorgone
          for a while
          • May 2008
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          • nel cuore di chi è nel mio cuore
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          #34
          NERUDA (che secondo me non è neanche un poeta, ma un pittore che dipinge con le parole, l'immagine della pazienza ardente è straordinaria)

          Lentamente muore

          Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
          giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
          rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

          Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
          bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
          proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
          sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
          all'errore e ai sentimenti.

          Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
          lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
          sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
          consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
          non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
          chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
          giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

          Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
          fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
          chiedono qualcosa che conosce.

          Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
          richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
          respirare.
          Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
          felicità.



          Muere lentamente quien se transforma en esclavo del hábito, repitiendo todos los días los mismos trayectos, quien no cambia de marca, no arriesga vestir un color nuevo y no le habla a quien no conoce.

          Muere lentamente quien hace de la televisión su gurú.

          Muere lentamente quien evita una pasión, quien prefiere el ***** sobre blanco y los puntos sobre las "íes" a un remolino de emociones, justamente las que rescatan el brillo de los ojos, sonrisas de los bostezos, corazones a los tropiezos y sentimientos.

          Muere lentamente quien no voltea la mesa cuando está infeliz en el trabajo, quien no arriesga lo cierto por lo incierto para ir detrás de un sueño, quien no se permite por lo menos una vez en la vida, huir de los consejos sensatos.

          Muere lentamente quien no viaja, quien no lee, quien no oye música, quien no encuentra gracia en sí mismo.

          Muere lentamente quien destruye su amor propio, quien no se deja ayudar.

          Muere lentamente, quien pasa los días quejándose de su mala suerte o de la lluvia incesante.

          Muere lentamente, quien abandona un proyecto antes de iniciarlo, no preguntando de un asunto que desconoce o no respondiendo cuando le indagan sobre algo que sabe.

          Evitemos la muerte en suaves cuotas, recordando siempre que estar vivo exige un esfuerzo mucho mayor que el simple hecho de respirar.

          Solamente la ardiente paciencia hará que conquistemos una espléndida felicidad.

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          • odisseo
            Bodyweb Senior
            • Oct 2008
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            #35
            Il Cinque Maggio

            Ei fu. Siccome immobile,
            dato il mortal sospiro,
            stette la spoglia immemore
            orba di tanto spiro,
            così percossa, attonita
            la terra al nunzio sta,
            muta pensando all'ultima
            ora dell'uom fatale;
            né sa quando una simile
            orma di pie' mortale
            la sua cruenta polvere
            a calpestar verrà.
            Lui folgorante in solio
            vide il mio genio e tacque;
            quando, con vece assidua, 15
            cadde, risorse e giacque,
            di mille voci al sònito
            mista la sua non ha:
            vergin di servo encomio
            e di codardo oltraggio, 20
            sorge or commosso al sùbito
            sparir di tanto raggio;
            e scioglie all'urna un cantico
            che forse non morrà.
            Dall'Alpi alle Piramidi, 25
            dal Manzanarre al Reno,
            di quel securo il fulmine
            tenea dietro al baleno;
            scoppiò da Scilla al Tanai,
            dall'uno all'altro mar. 30
            Fu vera gloria? Ai posteri
            l'ardua sentenza: nui
            chiniam la fronte al Massimo
            Fattor, che volle in lui
            del creator suo spirito 35
            più vasta orma stampar.
            La procellosa e trepida
            gioia d'un gran disegno,
            l'ansia d'un cor che indocile
            serve, pensando al regno; 40
            e il giunge, e tiene un premio
            ch'era follia sperar;
            tutto ei provò: la gloria
            maggior dopo il periglio,
            la fuga e la vittoria, 45
            la reggia e il tristo esiglio;
            due volte nella polvere,
            due volte sull'altar.
            Ei si nomò: due secoli,
            l'un contro l'altro armato, 50
            sommessi a lui si volsero,
            come aspettando il fato;
            ei fe' silenzio, ed arbitro
            s'assise in mezzo a lor.
            E sparve, e i dì nell'ozio 55
            chiuse in sì breve sponda,
            segno d'immensa invidia
            e di pietà profonda,
            d'inestinguibil odio
            e d'indomato amor. 60
            Come sul capo al naufrago
            l'onda s'avvolve e pesa,
            l'onda su cui del misero,
            alta pur dianzi e tesa,
            scorrea la vista a scernere 65
            prode remote invan;
            tal su quell'alma il cumulo
            delle memorie scese.
            Oh quante volte ai posteri
            narrar se stesso imprese, 70
            e sull'eterne pagine
            cadde la stanca man!
            Oh quante volte, al tacito
            morir d'un giorno inerte,
            chinati i rai fulminei, 75
            le braccia al sen conserte,
            stette, e dei dì che furono
            l'assalse il sovvenir!
            E ripensò le mobili
            tende, e i percossi valli, 80
            e il lampo de' manipoli,
            e l'onda dei cavalli,
            e il concitato imperio
            e il celere ubbidir.
            Ahi! forse a tanto strazio 85
            cadde lo spirto anelo,
            e disperò; ma valida
            venne una man dal cielo,
            e in più spirabil aere
            pietosa il trasportò; 90
            e l'avviò, pei floridi
            sentier della speranza,
            ai campi eterni, al premio
            che i desideri avanza,
            dov'è silenzio e tenebre 95
            la gloria che passò.
            Bella Immortal! benefica
            Fede ai trionfi avvezza!
            Scrivi ancor questo, allegrati;
            ché più superba altezza 100
            al disonor del Gòlgota
            giammai non si chinò.
            Tu dalle stanche ceneri
            sperdi ogni ria parola:
            il Dio che atterra e suscita, 105
            che affanna e che consola,
            sulla deserta coltrice
            accanto a lui posò.
            "
            Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"

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            • gorgone
              for a while
              • May 2008
              • 6246
              • 832
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              • nel cuore di chi è nel mio cuore
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              #36
              (di d'annunzio in assoluto ciò che preferisco è l'incipit de il piacere.


              l'anno moriva (virgola) assai dolcemente

              orgasmi multipli)

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              • ma_75
                Super Moderator
                • Sep 2006
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                #37
                So che non rientra negli spazi tipici di un post, non ha "i tempi televsivi" potremmo dire. Eppure è la quintessenza della lirica leopardiana, una poesia la cui esegesi potrebbe durare giorni.


                LA GINESTRA
                O IL FIORE DEL DESERTO
                E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
                Giovanni, III, 19
                Qui su l'arida schiena
                Del formidabil monte
                Sterminator Vesevo,
                La qual null'altro allegra arbor né fiore,
                Tuoi cespi solitari intorno spargi,
                Odorata ginestra,
                Contenta dei deserti. Anco ti vidi
                De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
                Che cingon la cittade
                La qual fu donna de' mortali un tempo,
                E del perduto impero
                Par che col grave e taciturno aspetto
                Faccian fede e ricordo al passeggero.
                Or ti riveggo in questo suol, di tristi
                Lochi e dal mondo abbandonati amante,
                E d'afflitte fortune ognor compagna.
                Questi campi cosparsi
                Di ceneri infeconde, e ricoperti
                Dell'impietrata lava,
                Che sotto i passi al peregrin risona;
                Dove s'annida e si contorce al sole
                La serpe, e dove al noto
                Cavernoso covil torna il coniglio;
                Fur liete ville e colti,
                E biondeggiàr di spiche, e risonaro
                Di muggito d'armenti;
                Fur giardini e palagi,
                Agli ozi de' potenti
                Gradito ospizio; e fur città famose
                Che coi torrenti suoi l'altero monte
                Dall'ignea bocca fulminando oppresse
                Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
                Una ruina involve,
                Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
                I danni altrui commiserando, al cielo
                Di dolcissimo odor mandi un profumo,
                Che il deserto consola. A queste piagge
                Venga colui che d'esaltar con lode
                Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
                È il gener nostro in cura
                All'amante natura. E la possanza
                Qui con giusta misura
                Anco estimar potrà dell'uman seme,
                Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
                Con lieve moto in un momento annulla
                In parte, e può con moti
                Poco men lievi ancor subitamente
                Annichilare in tutto.
                Dipinte in queste rive
                Son dell'umana gente
                Le magnifiche sorti e progressive .
                Qui mira e qui ti specchia,
                Secol superbo e sciocco,
                Che il calle insino allora
                Dal risorto pensier segnato innanti
                Abbandonasti, e volti addietro i passi,
                Del ritornar ti vanti,
                E procedere il chiami.
                Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
                Di cui lor sorte rea padre ti fece,
                Vanno adulando, ancora
                Ch'a ludibrio talora
                T'abbian fra sé. Non io
                Con tal vergogna scenderò sotterra;
                Ma il disprezzo piuttosto che si serra
                Di te nel petto mio,
                Mostrato avrò quanto si possa aperto:
                Ben ch'io sappia che obblio
                Preme chi troppo all'età propria increbbe.
                Di questo mal, che teco
                Mi fia comune, assai finor mi rido.
                Libertà vai sognando, e servo a un tempo
                Vuoi di novo il pensiero,
                Sol per cui risorgemmo
                Della barbarie in parte, e per cui solo
                Si cresce in civiltà, che sola in meglio
                Guida i pubblici fati.
                Così ti spiacque il vero
                Dell'aspra sorte e del depresso loco
                Che natura ci diè. Per questo il tergo
                Vigliaccamente rivolgesti al lume
                Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
                Vil chi lui segue, e solo
                Magnanimo colui
                Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
                Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
                Uom di povero stato e membra inferme
                Che sia dell'alma generoso ed alto,
                Non chiama sé né stima
                Ricco d'or né gagliardo,
                E di splendida vita o di valente
                Persona infra la gente
                Non fa risibil mostra;
                Ma sé di forza e di tesor mendico
                Lascia parer senza vergogna, e noma
                Parlando, apertamente, e di sue cose
                Fa stima al vero uguale.
                Magnanimo animale
                Non credo io già, ma stolto,
                Quel che nato a perir, nutrito in pene,
                Dice, a goder son fatto,
                E di fetido orgoglio
                Empie le carte, eccelsi fati e nove
                Felicità, quali il ciel tutto ignora,
                Non pur quest'orbe, promettendo in terra
                A popoli che un'onda
                Di mar commosso, un fiato
                D'aura maligna, un sotterraneo crollo
                Distrugge sì, che avanza
                A gran pena di lor la rimembranza.
                Nobil natura è quella
                Che a sollevar s'ardisce
                Gli occhi mortali incontra
                Al comun fato, e che con franca lingua,
                Nulla al ver detraendo,
                Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
                E il basso stato e frale;
                Quella che grande e forte
                Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
                Fraterne, ancor più gravi
                D'ogni altro danno, accresce
                Alle miserie sue, l'uomo incolpando
                Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
                Che veramente è rea, che de' mortali
                Madre è di parto e di voler matrigna.
                Costei chiama inimica; e incontro a questa
                Congiunta esser pensando,
                Siccome è il vero, ed ordinata in pria
                L'umana compagnia,
                Tutti fra sé confederati estima
                Gli uomini, e tutti abbraccia
                Con vero amor, porgendo
                Valida e pronta ed aspettando aita
                Negli alterni perigli e nelle angosce
                Della guerra comune. Ed alle offese
                Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
                Al vicino ed inciampo,
                Stolto crede così qual fora in campo
                Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
                Incalzar degli assalti,
                Gl'inimici obbliando, acerbe gare
                Imprender con gli amici,
                E sparger fuga e fulminar col brando
                Infra i propri guerrieri.
                Così fatti pensieri
                Quando fien, come fur, palesi al volgo,
                E quell'orror che primo
                Contra l'empia natura
                Strinse i mortali in social catena,
                Fia ricondotto in parte
                Da verace saper, l'onesto e il retto
                Conversar cittadino,
                E giustizia e pietade, altra radice
                Avranno allor che non superbe fole,
                Ove fondata probità del volgo
                Così star suole in piede
                Quale star può quel ch'ha in error la sede.
                Sovente in queste rive,
                Che, desolate, a bruno
                Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
                Seggo la notte; e su la mesta landa
                In purissimo azzurro
                Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
                Cui di lontan fa specchio
                Il mare, e tutto di scintille in giro
                Per lo vòto seren brillare il mondo.
                E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
                Ch'a lor sembrano un punto,
                E sono immense, in guisa
                Che un punto a petto a lor son terra e mare
                Veracemente; a cui
                L'uomo non pur, ma questo
                Globo ove l'uomo è nulla,
                Sconosciuto è del tutto; e quando miro
                Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
                Nodi quasi di stelle,
                Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
                E non la terra sol, ma tutte in uno,
                Del numero infinite e della mole,
                Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
                O sono ignote, o così paion come
                Essi alla terra, un punto
                Di luce nebulosa; al pensier mio
                Che sembri allora, o prole
                Dell'uomo? E rimembrando
                Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
                Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
                Che te signora e fine
                Credi tu data al Tutto, e quante volte
                Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
                Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
                Per tua cagion, dell'universe cose
                Scender gli autori, e conversar sovente
                Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
                Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
                Fin la presente età, che in conoscenza
                Ed in civil costume
                Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
                Mortal prole infelice, o qual pensiero
                Verso te finalmente il cor m'assale?
                Non so se il riso o la pietà prevale.
                Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
                Cui là nel tardo autunno
                Maturità senz'altra forza atterra,
                D'un popol di formiche i dolci alberghi,
                Cavati in molle gleba
                Con gran lavoro, e l'opre
                E le ricchezze che adunate a prova
                Con lungo affaticar l'assidua gente
                Avea provvidamente al tempo estivo,
                Schiaccia, diserta e copre
                In un punto; così d'alto piombando,
                Dall'utero tonante
                Scagliata al ciel profondo,
                Di ceneri e di pomici e di sassi
                Notte e ruina, infusa
                Di bollenti ruscelli
                O pel montano fianco
                Furiosa tra l'erba
                Di liquefatti massi
                E di metalli e d'infocata arena
                Scendendo immensa piena,
                Le cittadi che il mar là su l'estremo
                Lido aspergea, confuse
                E infranse e ricoperse
                In pochi istanti: onde su quelle or pasce
                La capra, e città nove
                Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
                Son le sepolte, e le prostrate mura
                L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
                Non ha natura al seme
                Dell'uom più stima o cura
                Che alla formica: e se più rara in quello
                Che nell'altra è la strage,
                Non avvien ciò d'altronde
                Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
                Ben mille ed ottocento
                Anni varcàr poi che spariro, oppressi
                Dall'ignea forza, i popolati seggi,
                E il villanello intento
                Ai vigneti, che a stento in questi campi
                Nutre la morta zolla e incenerita,
                Ancor leva lo sguardo
                Sospettoso alla vetta
                Fatal, che nulla mai fatta più mite
                Ancor siede tremenda, ancor minaccia
                A lui strage ed ai figli ed agli averi
                Lor poverelli. E spesso
                Il meschino in sul tetto
                Dell'ostel villereccio, alla vagante
                Aura giacendo tutta notte insonne,
                E balzando più volte, esplora il corso
                Del temuto bollor, che si riversa
                Dall'inesausto grembo
                Su l'arenoso dorso, a cui riluce
                Di Capri la marina
                E di Napoli il porto e Mergellina.
                E se appressar lo vede, o se nel cupo
                Del domestico pozzo ode mai l'acqua
                Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
                Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
                Di lor cose rapir posson, fuggendo,
                Vede lontan l'usato
                Suo nido, e il picciol campo,
                Che gli fu dalla fame unico schermo,
                Preda al flutto rovente,
                Che crepitando giunge, e inesorato
                Durabilmente sovra quei si spiega.
                Torna al celeste raggio
                Dopo l'antica obblivion l'estinta
                Pompei, come sepolto
                Scheletro, cui di terra
                Avarizia o pietà rende all'aperto;
                E dal deserto foro
                Diritto infra le file
                Dei mozzi colonnati il peregrino
                Lunge contempla il bipartito giogo
                E la cresta fumante,
                Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
                E nell'orror della secreta notte
                Per li vacui teatri,
                Per li templi deformi e per le rotte
                Case, ove i parti il pipistrello asconde,
                Come sinistra face
                Che per vòti palagi atra s'aggiri,
                Corre il baglior della funerea lava,
                Che di lontan per l'ombre
                Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
                Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
                Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
                Dopo gli avi i nepoti,
                Sta natura ognor verde, anzi procede
                Per sì lungo cammino
                Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
                Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
                E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
                E tu, lenta ginestra,
                Che di selve odorate
                Queste campagne dispogliate adorni,
                Anche tu presto alla crudel possanza
                Soccomberai del sotterraneo foco,
                Che ritornando al loco
                Già noto, stenderà l'avaro lembo
                Su tue molli foreste. E piegherai
                Sotto il fascio mortal non renitente
                Il tuo capo innocente:
                Ma non piegato insino allora indarno
                Codardamente supplicando innanzi
                Al futuro oppressor; ma non eretto
                Con forsennato orgoglio inver le stelle,
                Né sul deserto, dove
                E la sede e i natali
                Non per voler ma per fortuna avesti;
                Ma più saggia, ma tanto
                Meno inferma dell'uom, quanto le frali
                Tue stirpi non credesti
                O dal fato o da te fatte immortali.
                In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
                ma_75@bodyweb.com

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                • pina colada
                  Banned
                  • Dec 2007
                  • 13845
                  • 652
                  • 636
                  • Send PM

                  #38
                  I due versi, stupendi, che riempiono non poche pagine dei miei diari adolescenziali..

                  Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
                  Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

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                  • Shamash
                    Bodyweb Advanced
                    • Sep 2008
                    • 584
                    • 114
                    • 51
                    • Zibamba
                    • Send PM

                    #39
                    troppa cultura in questo topic: mi mettete in soggezione.Dispiace spezzarla...conosco poche poesie.Eccone una che forse l'autore del topic conosce e apprezza

                    ICARO di Yukio Mishima da "Sole e acciaio" 1968

                    Icaro
                    Appartengo, fin dal principio, al cielo?
                    Se non v'appartengo, perché
                    mi ha fissato così, per un attimo,
                    con il suo sguardo infinitamente azzurro,
                    e mi ha attirato lassù, con la mia mente,
                    in alto, sempre più in alto,
                    e senza tregua mi seduce e mi trascina
                    verso altezze remote all'umano?
                    L'equilibrio severamente studiato,
                    il volo razionalmente calcolato,
                    nessuna anomalia sarebbe possibile:
                    perché dunque la brama di salire nel cielo
                    è così simile, in sé, alla follia?
                    Niente mi può appagare,
                    subito mi tedia qualsiasi novita' terrestre.
                    Più in alto, più in alto, instabilmente
                    vengo trascinato sempre più vicino al fulgore del sole.
                    Perché la sorgente di luce della ragione mi brucia,
                    perché la sorgente di luce della ragione mi annienta?
                    Sotto di me, in lontananza, villaggi e fiumi sinuosi
                    assai più tollerabili appaiono di quando sono vicini.
                    Perché mi perdonano, mi approvano, mi invitano,
                    suggerendo che da così lontano
                    potrei anche amare l'umano
                    sebbene un simile amore non possa essere la mia meta?
                    E, se anche lo fosse, non avrei forse ragione
                    di appartenere fin dal principio al cielo?
                    Mai ho invidiato la libertà degli uccelli,
                    mai ho desiderato l'indolenza della natura,
                    incitato solo dal misterioso struggimento
                    a salire, ad avvicinarmi,
                    ad immergermi nell'azzurro del cielo.
                    Così contrario alle gioie organiche,
                    così lontano dai piaceri di uno spirito superiore.
                    Più in alto, più in alto,
                    irretito, forse, dalla lusinga e dalla vertigine delle ali di cera?

                    E dunque, Se dal principio appartenessi alla terra?
                    E perché la terra, se così non fosse,
                    provocherebbe con tanta rapidità la mia caduta
                    senza concedermi il tempo di pensare o di sentire?
                    Perché la terra così morbida e languida,
                    mi ha accolto con l'urto della lamina d'acciaio?
                    La tenera terra si è trasformata in acciaio
                    solo per mostrarmi la mia fragilità,
                    affinché la natura mi mostrasse
                    che la caduta è molto più naturale del volo,
                    molto più naturale di quella misteriosa passione?
                    L'azzurro del cielo è un'illusione
                    prodotta dall'ebbrezza bruciante ed effimera
                    delle ali di cera, e tutto, fin dal principio
                    fu escogitato dalla terra, a cui io appartengo.
                    O forse il cielo, segretamente, favorì il piano
                    per colpirmi con la sua punizione?
                    Per punirmi della colpa
                    di non credere che esista un io,
                    o di credere troppo nel mio io,
                    di volere impazientemente conoscere a chi io appar*tenga,
                    o di presumere di sapere tutto
                    e di tentare di volare lontano,
                    verso l'ignoto,
                    o verso il conosciuto,
                    sempre verso il punto di un azzurro simbolo?
                    il re si è disteso e non sorgerà più,
                    il Signore di Kullab non sorgerà più;
                    egli ha vinto il male,non verrà più;
                    benchè fosse forte di braccio,non sorgerà più.

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                    • gorgone
                      for a while
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                      • 6246
                      • 832
                      • 835
                      • nel cuore di chi è nel mio cuore
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                      #40
                      Originariamente Scritto da ma_75 Visualizza Messaggio
                      So che non rientra negli spazi tipici di un post, non ha "i tempi televsivi" potremmo dire. Eppure è la quintessenza della lirica leopardiana, una poesia la cui esegesi potrebbe durare giorni.

                      beh sì è il suo manifesto, e che manifesto.

                      ma la cosa che mi appassionava di leopardi era ripescare nello zibaldone i pensieri scritti in prosa e vedere come sono confluiti in poesia.

                      resti lì, con la mandibola a terra e capisci che c'è un tocco di divino.

                      ci sono pagine e pagine che descrivono il volto, le movenze, i capelli, l'incedere, i denti, il naso e poi "occhi ridenti e fuggitivi"

                      tre parole. un mondo.

                      quindi sì, a fare l'esegesi di una sola strofa viene fuori un libro.

                      (ma il kit fai dai te dell'ermo colle di berlusconi te lo ricordi? quando si è fatto trapiantare gli ulivi secolari sulla sua collina finta con la panchina? santiddio)

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                      • Sean
                        Csar
                        • Sep 2007
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                        • In piedi tra le rovine
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                        #41
                        Originariamente Scritto da ma_75 Visualizza Messaggio
                        So che non rientra negli spazi tipici di un post, non ha "i tempi televsivi" potremmo dire. Eppure è la quintessenza della lirica leopardiana, una poesia la cui esegesi potrebbe durare giorni.


                        LA GINESTRA
                        Hai ragione, meriterebbe da sola un Thread a parte.
                        Non posso, essendo il paese del Poeta il mio paese, non postare anch'io una sua "canzone", tra le più belle poesie di amore e morte mai scritte, in ogni luogo e di ogni tempo;
                        Questi versi immortali sono sulla tomba di un mio amico, anche lui da chiuso morbo combattuto e vinto



                        Silvia, rimembri ancora
                        Quel tempo della tua vita mortale,
                        Quando beltà splendea
                        Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
                        E tu, lieta e pensosa, il limitare
                        Di gioventù salivi?
                        Sonavan le quiete
                        Stanze, e le vie dintorno,
                        Al tuo perpetuo canto,
                        Allor che all'opre femminili intenta
                        Sedevi, assai contenta
                        Di quel vago avvenir che in mente avevi.
                        Era il maggio odoroso: e tu solevi
                        Così menare il giorno.
                        Io gli studi leggiadri
                        Talor lasciando e le sudate carte,
                        Ove il tempo mio primo
                        E di me si spendea la miglior parte,
                        D'in su i veroni del paterno ostello
                        Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
                        Ed alla man veloce
                        Che percorrea la faticosa tela.
                        Mirava il ciel sereno,
                        Le vie dorate e gli orti,
                        E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
                        Lingua mortal non dice
                        Quel ch'io sentiva in seno.
                        Che pensieri soavi,
                        Che speranze, che cori, o Silvia mia!
                        Quale allor ci apparia
                        La vita umana e il fato!
                        Quando sovviemmi di cotanta speme,
                        Un affetto mi preme
                        Acerbo e sconsolato,
                        E tornami a doler di mia sventura.
                        O natura, o natura,
                        Perché non rendi poi
                        Quel che prometti allor? perché di tanto
                        Inganni i figli tuoi?
                        Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
                        Da chiuso morbo combattuta e vinta,
                        Perivi, o tenerella. E non vedevi
                        Il fior degli anni tuoi;
                        Non ti molceva il core
                        La dolce lode or delle negre chiome,
                        Or degli sguardi innamorati e schivi;
                        Né teco le compagne ai dì festivi
                        Ragionavan d'amore.
                        Anche peria fra poco
                        La speranza mia dolce: agli anni miei
                        Anche negaro i fati
                        La giovanezza. Ahi come,
                        Come passata sei,
                        Cara compagna dell'età mia nova,
                        Mia lacrimata speme!
                        Questo è quel mondo? questi
                        I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
                        Onde cotanto ragionammo insieme?
                        Questa la sorte dell'umane genti?
                        All'apparir del vero
                        Tu, misera, cadesti: e con la mano
                        La fredda morte ed una tomba ignuda
                        Mostravi di lontano.
                        ...ma di noi
                        sopra una sola teca di cristallo
                        popoli studiosi scriveranno
                        forse, tra mille inverni
                        «nessun vincolo univa questi morti
                        nella necropoli deserta»

                        C. Campo - Moriremo Lontani


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                        • odisseo
                          Bodyweb Senior
                          • Oct 2008
                          • 4878
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                          #42
                          LA SPIGOLATRICE DI SAPRI
                          (di Luigi Mercantini, 1857)
                          Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

                          Me ne andavo al mattino a spigolare,
                          quando ho visto una barca in mezzo al mare:
                          era una barca che andava a vapore;
                          e alzava una bandiera tricolore;
                          all'isola di Ponza s'è fermata,
                          è stata un poco e poi si è ritornata;
                          s'è ritornata ed è venuta a terra;
                          sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.

                          Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,
                          ma s'inchinaron per baciar la terra,
                          ad uno ad uno li guardai nel viso;
                          tutti aveano una lagrima e un sorriso.
                          Li disser ladri usciti dalle tane,
                          ma non portaron via nemmeno un pane;
                          e li sentii mandare un solo grido:
                          «Siam venuti a morir pel nostro lido».

                          Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro
                          un giovin camminava innanzi a loro.
                          Mi feci ardita, e, presol per la mano,
                          gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»
                          Guardommi e mi rispose: «O mia sorella,
                          vado a morir per la mia patria bella».
                          Io mi sentii tremare tutto il core,
                          né potei dirgli: «V'aiuti 'l Signore!»

                          Quel giorno mi scordai di spigolare,
                          e dietro a loro mi misi ad andare.
                          Due volte si scontrar con li gendarmi,
                          e l'una e l'altra li spogliar dell'armi;
                          ma quando fur della Certosa ai muri,
                          s'udirono a suonar trombe e tamburi;
                          e tra 'l fumo e gli spari e le scintille
                          piombaro loro addosso più di mille.

                          Eran trecento, e non voller fuggire;
                          parean tremila e vollero morire;
                          ma vollero morir col ferro in mano,
                          e avanti a lor correa sangue il piano:
                          fin che pugnar vid'io per lor pregai;
                          ma un tratto venni men, né più guardai;
                          io non vedeva più fra mezzo a loro
                          quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.

                          Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
                          "
                          Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"

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                          • korallox
                            Bodyweb Advanced
                            • Apr 2007
                            • 3358
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                            #43
                            @ma, tu cosa insegni?

                            Finito il primo anno di palestra! Fase attuale: alla ricerca degli abs. Io ci provo!

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                            • ma_75
                              Super Moderator
                              • Sep 2006
                              • 52669
                              • 1,388
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                              #44
                              Originariamente Scritto da gorgone Visualizza Messaggio
                              beh sì è il suo manifesto, e che manifesto.

                              ma la cosa che mi appassionava di leopardi era ripescare nello zibaldone i pensieri scritti in prosa e vedere come sono confluiti in poesia.

                              resti lì, con la mandibola a terra e capisci che c'è un tocco di divino.

                              ci sono pagine e pagine che descrivono il volto, le movenze, i capelli, l'incedere, i denti, il naso e poi "occhi ridenti e fuggitivi"

                              tre parole. un mondo.

                              quindi sì, a fare l'esegesi di una sola strofa viene fuori un libro.

                              (ma il kit fai dai te dell'ermo colle di berlusconi te lo ricordi? quando si è fatto trapiantare gli ulivi secolari sulla sua collina finta con la panchina? santiddio)

                              Oddio, quanto stride la tua ultima citazione con le cime eteree della poesia. La stessa differenza esistente tra un vaso greco appena emerso dalla terra e la sua copia plasticosa nella bancarella del souvenir.
                              PS: egli, in una delle sue magioni sarde, si è fatto costruire anche un finto nuraghe.


                              Originariamente Scritto da Sean Visualizza Messaggio
                              Hai ragione, meriterebbe da sola un Thread a parte.
                              Non posso, essendo il paese del Poeta il mio paese, non postare anch'io una sua "canzone", tra le più belle poesie di amore e morte mai scritte, in ogni luogo e di ogni tempo;
                              Questi versi immortali sono sulla tomba di un mio amico, anche lui da chiuso morbo combattuto e vinto



                              Silvia, rimembri ancora
                              Quel tempo della tua vita mortale,
                              Quando beltà splendea
                              Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
                              E tu, lieta e pensosa, il limitare
                              Di gioventù salivi?
                              Sonavan le quiete
                              Stanze, e le vie dintorno,
                              Al tuo perpetuo canto,
                              Allor che all'opre femminili intenta
                              Sedevi, assai contenta
                              Di quel vago avvenir che in mente avevi.
                              Era il maggio odoroso: e tu solevi
                              Così menare il giorno.
                              Io gli studi leggiadri
                              Talor lasciando e le sudate carte,
                              Ove il tempo mio primo
                              E di me si spendea la miglior parte,
                              D'in su i veroni del paterno ostello
                              Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
                              Ed alla man veloce
                              Che percorrea la faticosa tela.
                              Mirava il ciel sereno,
                              Le vie dorate e gli orti,
                              E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
                              Lingua mortal non dice
                              Quel ch'io sentiva in seno.
                              Che pensieri soavi,
                              Che speranze, che cori, o Silvia mia!
                              Quale allor ci apparia
                              La vita umana e il fato!
                              Quando sovviemmi di cotanta speme,
                              Un affetto mi preme
                              Acerbo e sconsolato,
                              E tornami a doler di mia sventura.
                              O natura, o natura,
                              Perché non rendi poi
                              Quel che prometti allor? perché di tanto
                              Inganni i figli tuoi?
                              Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
                              Da chiuso morbo combattuta e vinta,
                              Perivi, o tenerella. E non vedevi
                              Il fior degli anni tuoi;
                              Non ti molceva il core
                              La dolce lode or delle negre chiome,
                              Or degli sguardi innamorati e schivi;
                              Né teco le compagne ai dì festivi
                              Ragionavan d'amore.
                              Anche peria fra poco
                              La speranza mia dolce: agli anni miei
                              Anche negaro i fati
                              La giovanezza. Ahi come,
                              Come passata sei,
                              Cara compagna dell'età mia nova,
                              Mia lacrimata speme!
                              Questo è quel mondo? questi
                              I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
                              Onde cotanto ragionammo insieme?
                              Questa la sorte dell'umane genti?
                              All'apparir del vero
                              Tu, misera, cadesti: e con la mano
                              La fredda morte ed una tomba ignuda
                              Mostravi di lontano.

                              Poesia che soffre solo della banalizzazione scolastica, ma la cui verità appare in tutto il suo dolore quando ci viene sulle labbra a proposito di vicende nostre.
                              In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
                              ma_75@bodyweb.com

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                                @ma, tu cosa insegni?
                                Italiano, latino e greco
                                In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
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