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«Arbitri venduti»: tifosi condannati
a morte in Libia
Pene sospese per i supporter del Bengasi dopo la rivolta contro le partite truccate
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Altro che sudditanza psicologica. Sudditanza e basta, a mano armata. Estate 2000, l'Al-Ahly Bengasi riceve l'Al-Alhy (il nome significa nazionale) di Tripoli, la squadra di Gheddafi junior. I padroni di casa chiudono in vantaggio il primo tempo, 1-0. Nella ripresa, si vede chi sono i veri padroni. L'arbitro regala due rigori agli ospiti, e poi convalida un gol del Tripoli in netto fuorigioco. I giocatori del Bengasi vogliono lasciare il campo in segno di protesta. Più che i guardalinee, sono le guardie del corpo di Al-Saadi ai bordi del campo a convincerli a continuare. La partita deve finire regolarmente. Il Tripoli vince 3 a 1. Cosa si aspettavano, i tifosi del Bengasi? Quella è la squadra del figlio del capo. Zitti e correre. Poche settimane dopo, 20 luglio, i biancorossi affrontano l'Al-Bayada. E' la città natale della madre di Al-Saadi. Stesso copione. Quando il direttore di gara concede un rigore inesistente agli avversari, esplode la rivolta. Deve vincere sempre pure la squadra della mamma del capo? E' troppo. Invasione di campo, partita sospesa. Fuori dallo stadio i tifosi si scatenano.
Bruciano diverse auto, tra cui quella di Al-Saadi. Atti vandalici, certo, ma la Libia vanta precedenti peggiori: nel 1996 il derby di Tripoli (tra due squadre sulla carta apparentate nel segno dei Gheddafi, una sostenuta da Saadi l'altra dal fratello Mohammed) finì in un bagno di sangue, con la polizia che sparò sulla folla uccidendo decine di persone. La partita Bengasi-Bayada non si conclude con una carneficina. Ma i tifosi della città cirenaica, il giorno dopo, osano mettere in scena uno scherzo che non può passare impunito. Fanno circolare per le strade di Bengasi un asinello che ha sulla groppa il nome Al-Saadi.
La vendetta non tarda. Il 28 agosto 2000 la squadra è sciolta. Quattro giorni più tardi — secondo la ricostruzione di "So Foot" che ha raccolto diverse testimonianze — le infrastrutture della società vengono distrutte con i bulldozer. Decine di persone vengono arrestate. La Fifa non fa una piega. Human Rights Watch e Amnesty International cominciano le denunce: nel 2001 nove tifosi vengono condannati con sentenza definitiva. Durissima. Colpevoli di aver militato «di una società segreta proibita dalla legge». Usando come paravento il club di calcio e le tribune degli stadi, i tifosi avrebbero in realtà «complottato» contro la gloriosa «Rivoluzione libica e contro il suo leader ». Non erano soli. Più che con tifoserie gemellate, gli hooligans del Bengasi «hanno collaborato con servizi segreti stranieri». Bugie, racconta ora il tifoso Omar Ben Daoud al giornale francese: «La politica non c'entrava nulla. Eravamo furenti per l'arbitraggio».
Per tre imputati condanna a morte. Il 10 febbraio 2002 sono legati a un palo, con gli occhi bendati. Per un'ora. Il plotone non arriva. Tortura psicologica. Le pene capitali vengono ridotte all'ergastolo. Nell'ottobre 2005 il Consiglio Supremo libera i condannati (ma la pena è solo sospesa, e possono tornar dentro in ogni momento). Otto, perché nel frattempo uno è morto. Si è impiccato nella sua cella nel 2004. Lo stesso anno in cui Al-Saad esordiva bel bello in Serie A, Perugia-Juventus 1 a 0 gol di Ravanelli. Nessuno gli chiese conto del caso Bengasi, di quei tifosi condannati alla fucilazione: scusi, Al-Saadi, in un Paese dove non c'è libertà almeno sui campi di calcio può vincere il migliore? Niente. Più che il suo palleggio, furono i soldi di papà a consigliare l'ingaggio di Gheddafino, ad aprirgli le porte dell'Italia (Tripoli è tuttora proprietaria del 7,5% della Juventus). Oggi gli scampati al plotone di esecuzione raccontano a "So Foot" che furono torturati. Al Saadi ufficialmente non si occupa più di calcio. Ha ripreso il grado di colonnello nelle forze speciali. Il Bengasi è stato riabilitato. L'anno scorso è arrivato quinto. Niente più invasioni di campo però. Gli arbitri libici sono i migliori del mondo.
Michele Farina
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