ahah tongue ahahah
segnalo, perché, alla nostra età è raro che una mostra emozioni.. non l'ho ancora visitata eh.. ma sono già emozionata..
copioincollo dal corriere
Le carte dei sultani
In mostra i più belli tra i documenti turchi dell’Archivio di Stato di Venezia
Le carte dell’Archivio di Stato rivelano anche l’esistenza di una moschea (Vision)
C’è un luogo di Venezia in cui l’antica presenza dei Turchi e del loro plurisecolare impero è forse più intensa e concretamente tangibile che in qualsiasi altro. Non si tratta né del Fondaco che dai Turchi prende il nome, e che fu assegnato alla comunità ottomana nel 1621 (fino ad allora era un possedimento dei Palmieri da Pesaro), ma come è noto fu pesantemente ristrutturato nel corso dell’Ottocento, divenendo un falso storico-architettonico. E non si tratta nemmeno del campo dei Mori, i cui muti eponimi dovrebbero ricordare, coi turbanti e le vesti esotiche, certe antiche presenze orientali: pare, in effetti, che i copricapi turcheschi siano stati aggiunti a statue di santi. Oltre a tutto, la più celebre tra esse, da poco decapitata dai vandali, continua ad avere la testa mozza. No: il luogo è l’Archivio di Stato, ai Frari, dove tra chilometri di carte relative alla vita della Repubblica si è conservato anche uno dei più cospicui lasciti di documenti turchi presenti in Italia, cui si dedica ora una mostra, aperta a partire da mercoledì («Le carte del sultano»: fino al 15 ottobre, lunedì-venerdì, 10- 13).
Naturale, vista la continuità di rapporti che legarono per quasi cinque secoli l’impero della Sublime Porta e la Serenissima: come giustamente ricorda Maria Pia Pedani Fabris, la lunga convivenza delle due superpotenze marinare nel Mediterraneo non portò con sé solo contrasti: «per quanto si sia soliti ricordare soprattutto battaglie e guerre, vinte o perdute, i periodi di pace superarono di gran lunga i periodi di conflitto». Una vicenda che la stessa Pedani Fabris ha di recente ripercorse in un volume pieno di storia e di passione (Venezia porta d’Oriente, il Mulino), cui sta arridendo un meritato successo. Pace significa: vigore di rapporti diplomatici, di scambi commerciali, di relazioni politiche. Circostanze, tutte, che lasciano il loro segno nei documenti: a differenza di quanto accade in altri archivi e biblioteche, in cui il materiale orientale viene raccolto in collezioni separate simili a ricettacoli di stravaganze, i documenti turchi dell’Archivio di Stato di Venezia sono in larga parte disseminati nei fondi «ordinari » delle magistrature, a dimostrare la perfetta normalità, continuità e intrinsechezza di rapporti che caratterizzò la vita delle due potenze, oggi tramontate eppure ancor così influenti sulle culture che le hanno seguite. Della gran massa di carte ottomane dell’Archivio, i curatori della mostra hanno selezionato una trentina di pezzi significativi, che spaziano dall’accordo (ahidname) su pergamena, scritto in greco (una delle lingue di scambio usate durante il Medioevo nei rapporti tra Europei e Turchi nel quadrante orientale del Mediterraneo) con cui nel 1446 il sultano Mehmed II e il bailo («ambasciatore») veneto Andrea Foscolo negoziano le condizioni di pace, fino a una mappa settecentesca del Fondaco dei Turchi, in cui si nota una stanza adibita a preghiera indicata con il nome di Moschea.
Ce n’era dunque una, nella Venezia dei Dogi, anche se si trovava all’interno di un’area con uno status simile all’immunità diplomatica e non era certo ospitata da una chiesa sconsacrata. Nella mostra allestita ai Frari non mancano nemmeno testimonianze dei rapporti propriamente artistici tra i due popoli (ad esempio, l’antico disegno di un fanale navale commissionato a un orefice veneziano per il caicco di un sultano), o di quelli linguistici (ecco una copia del Dittionario della lingua italiana - turchesca di Giovanni Molino, del 1641, cioè di pochi anni posteriore al principe dei Vocabolari, quello della Crusca). Ma i pezzi più suggestivi sono, ovviamente, le carte manoscritte turche, e in particolare i diplomi ufficiali e le lettere che giungevano a Venezia dalla corte di Istanbul: la straordinaria eleganza dei loro «arabeschi» (in italiano si chiamano così proprio con riferimento alla grafica sinuosa e incomprensibile delle scritture orientali) testimoniano l’antica grandezza di un impero che pare uscito da una favola.
Lorenzo Tomasin
21 settembre 2010
segnalo, perché, alla nostra età è raro che una mostra emozioni.. non l'ho ancora visitata eh.. ma sono già emozionata..
copioincollo dal corriere
Le carte dei sultani
In mostra i più belli tra i documenti turchi dell’Archivio di Stato di Venezia
Le carte dell’Archivio di Stato rivelano anche l’esistenza di una moschea (Vision)
C’è un luogo di Venezia in cui l’antica presenza dei Turchi e del loro plurisecolare impero è forse più intensa e concretamente tangibile che in qualsiasi altro. Non si tratta né del Fondaco che dai Turchi prende il nome, e che fu assegnato alla comunità ottomana nel 1621 (fino ad allora era un possedimento dei Palmieri da Pesaro), ma come è noto fu pesantemente ristrutturato nel corso dell’Ottocento, divenendo un falso storico-architettonico. E non si tratta nemmeno del campo dei Mori, i cui muti eponimi dovrebbero ricordare, coi turbanti e le vesti esotiche, certe antiche presenze orientali: pare, in effetti, che i copricapi turcheschi siano stati aggiunti a statue di santi. Oltre a tutto, la più celebre tra esse, da poco decapitata dai vandali, continua ad avere la testa mozza. No: il luogo è l’Archivio di Stato, ai Frari, dove tra chilometri di carte relative alla vita della Repubblica si è conservato anche uno dei più cospicui lasciti di documenti turchi presenti in Italia, cui si dedica ora una mostra, aperta a partire da mercoledì («Le carte del sultano»: fino al 15 ottobre, lunedì-venerdì, 10- 13).
Naturale, vista la continuità di rapporti che legarono per quasi cinque secoli l’impero della Sublime Porta e la Serenissima: come giustamente ricorda Maria Pia Pedani Fabris, la lunga convivenza delle due superpotenze marinare nel Mediterraneo non portò con sé solo contrasti: «per quanto si sia soliti ricordare soprattutto battaglie e guerre, vinte o perdute, i periodi di pace superarono di gran lunga i periodi di conflitto». Una vicenda che la stessa Pedani Fabris ha di recente ripercorse in un volume pieno di storia e di passione (Venezia porta d’Oriente, il Mulino), cui sta arridendo un meritato successo. Pace significa: vigore di rapporti diplomatici, di scambi commerciali, di relazioni politiche. Circostanze, tutte, che lasciano il loro segno nei documenti: a differenza di quanto accade in altri archivi e biblioteche, in cui il materiale orientale viene raccolto in collezioni separate simili a ricettacoli di stravaganze, i documenti turchi dell’Archivio di Stato di Venezia sono in larga parte disseminati nei fondi «ordinari » delle magistrature, a dimostrare la perfetta normalità, continuità e intrinsechezza di rapporti che caratterizzò la vita delle due potenze, oggi tramontate eppure ancor così influenti sulle culture che le hanno seguite. Della gran massa di carte ottomane dell’Archivio, i curatori della mostra hanno selezionato una trentina di pezzi significativi, che spaziano dall’accordo (ahidname) su pergamena, scritto in greco (una delle lingue di scambio usate durante il Medioevo nei rapporti tra Europei e Turchi nel quadrante orientale del Mediterraneo) con cui nel 1446 il sultano Mehmed II e il bailo («ambasciatore») veneto Andrea Foscolo negoziano le condizioni di pace, fino a una mappa settecentesca del Fondaco dei Turchi, in cui si nota una stanza adibita a preghiera indicata con il nome di Moschea.
Ce n’era dunque una, nella Venezia dei Dogi, anche se si trovava all’interno di un’area con uno status simile all’immunità diplomatica e non era certo ospitata da una chiesa sconsacrata. Nella mostra allestita ai Frari non mancano nemmeno testimonianze dei rapporti propriamente artistici tra i due popoli (ad esempio, l’antico disegno di un fanale navale commissionato a un orefice veneziano per il caicco di un sultano), o di quelli linguistici (ecco una copia del Dittionario della lingua italiana - turchesca di Giovanni Molino, del 1641, cioè di pochi anni posteriore al principe dei Vocabolari, quello della Crusca). Ma i pezzi più suggestivi sono, ovviamente, le carte manoscritte turche, e in particolare i diplomi ufficiali e le lettere che giungevano a Venezia dalla corte di Istanbul: la straordinaria eleganza dei loro «arabeschi» (in italiano si chiamano così proprio con riferimento alla grafica sinuosa e incomprensibile delle scritture orientali) testimoniano l’antica grandezza di un impero che pare uscito da una favola.
Lorenzo Tomasin
21 settembre 2010