Mai vi assicuro, mai mia figlia Jennifer praticherà sport d'alto livello. Ha sei anni e, finché vivrà con me, le impedirò la competizione d'alto livello, qualunque sia il Paese in qui vivremo. Comincia così, con queste parole durissime, l'intervista raccolta da Serge Bressan per il settimanale francese “L'express”. A parlare è una giovane e avvenente ragazza di 27 anni che vive a Vienna e che anche gli esperti di nuoto stenterebbero a identificare: eppure si tratta della prima donna capace di scendere sotto il minuto nei 100 farfalla, la tedesca est Christiane Knacke. Il suo, nel 1977, fu un record del mondo che fece rumore, ma da allora è molto cambiata. “Non accuso lo sport , amo il nuoto: accuso un sistema”, dice.
Christiane vive a Vienna e ha accettato di raccontare la sua storia: una pesantissima denuncia del “doping di Stato”. “All'età di 10 anni mi allenavo due ore al giorno. A 12 anni due allenamenti quotidiani: nuotavamo più di 10 km al giorno. La scuola? Come tutte le ragazze nelle mie condizioni ero in ritardo sui miei coetanei, ma che importava! Lo avevano tanto ripetuto anche ai miei genitori: Con lo sport la vita sarà più facile, potrà viaggiare, avere vestiti nuovi”.
“A 13 anni sono seconda ai campionati nazionali giovanili. I miei genitori allora devono firmare un formulario nel quale si impegnano affinché nessun membro della famiglia, compresa io stessa, abbia il minimo contatto con l'Ovest. Tutti i giorni in piscina mi ritrovo al fianco dei componenti la squadra olimpica. Il mio corpo di bambina cambia, prende presto forma, ma non mi pongo domande vedendo campioni diventare tanto forti. L'allenatore ci dà compresse di vitamine e proteine, afferma. Ne dobbiamo ingoiare tante che talvolta ne gettiamo via una parte nei bagni della piscina”.
“Il 28 Agosto 1977, alle 15 e 48’, a Berlino Est, nel corso di un incontro con gli USA batto il mondiale dei 100 farfalla: con 59’’78 sono la prima donna a scendere sotto il minuto. Credo ancora di non aver preso il benché minimo prodotto dopante. Soltanto vitamine e proteine che mi dà l'allenatore Rolf Glaser. E, ogni tanto, vengo sottoposta a sedute di stimolazione muscolare elettrica. Dopo il record però mi fanno aumentare le distanze nuotate in allenamento: più di 20 Km. al giorno. Glaser mi ripete: “Devi migliorarti; gli stranieri capitalisti fanno ricorso al doping”. Poi un giorno mi dice, dandomi altre pillole: “Per rigenerare più alla svelta il tuo organismo. Se non le prendi non nuoterai più. Sulle confezioni non c'era scritto nulla”.
“Tutti questi prodotti li prendo perché mi vengono dati dal mio allenatore ed ho fiducia. Per me è diventato quasi altrettanto importante di mio padre. Ogni giorno prendo la mia dose di steroidi: da 10 a 15 pillole. Mi fanno una puntura, saprò poi che era un misto di cortisone e procaina, un analgesico. Due volte alla settimana mi viene fatta una perfusione: il liquido è talvolta trasparente, talvolta bianco come il latte. Sul flacone c'è scritto: “glucosio”. Con questo regime in meno di un anno sono ingrossata di 15 chili. Per 1.63 di altezza sono passata da 50 chili a 14 anni ai 65 dei 16 anni. E ci viene ripetuto: “dovete sapere cosa volete essere: ragazze normali o sportive d'alto livello. Ma se siete qui è perché avete già scelto”. Ed è vero che se mi vergogno del mio nuovo corpo, così gonfiato, se mi sento troppo pesante, continuo ugualmente a prendere questi prodotti, perché lo sport è il solo mezzo che conosco per poter viaggiare, per uscire dalla Germania Est”.
“Nel 1978 anno dei mondiali, sono tra le prime del mondo, ma poco prima della manifestazione vengo spedita vicino a Dresda, a Kreischa, sede dell'istituto medico sportivo. Ci ritrovo Petra Thumer, olimpionica del 1976. Anche lei è stata sottoposta a controlli antidoping “preventivi”, dato che ora anche gli steroidi sono rintracciabili: risultiamo positive nonostante abbiamo smesso di assumere steroidi da molti giorni. Siamo costrette a saltare i mondiali di Berlino Est. Abbiamo certamente preso troppe pillole. Ci spiegano che dobbiamo essere “ripulite”. Ci viene detto che le medicine che avevamo preso non vanno più bene. Restiamo 137 giorni a Kreischa. I medici fanno esperimenti su di noi. Vogliono sapere perché restano ancora tracce nelle nostre urine e come fare per eliminarle o nasconderle. È stato là che ho cominciato veramente a preoccuparmi. Ma se reagisci perdi tutti i privilegi: studi, appartamento... Per questo ho continuato”.
“Nel 1980 prendo parte all'Olimpiade di Mosca e finisco terza nei 100 farfalla. Poco dopo devo essere operata al gomito destro. Gli steroidi hanno impoverito di calcio l'osso: è come un cristallo. Oggi, dopo 3 operazioni, è di plastica. Avevano provato con supporti metallici, ma si rompeva lo stesso. Mi hanno dato narcotici per sopportare i dolori, mi hanno prelevato midollo spinale...”
“Nel 1983, due anni dopo il mio ritiro sportivo, nasce mia figlia. Non ha ancora 6 mesi, quando cade dalla carrozzina: ha un grande ematoma, grida, ha dei crampi. È ricoverata d'urgenza. Due settimane dopo i medici mi spiegano che non ha nulla di grave. Nessuna lesione, nessun tumore. Ma ha anche la febbre: anche più di 40°. Nel giugno 1984 devo lasciarla in ospedale. Per 18 mesi lotterà tra la vita e la morte. Un giorno l'assistente del professore che la cura mi spiega che Jennifer non ha sofferto a causa della caduta ma di squilibri ormonali. Anche lui è stato sportivo d'alto livello e dice: “Nulla di stupefacente visto tutto ciò che hai ingerito quando nuotavi”. La mia Jennifer era figlia del doping. In quell'anno due mie compagne, Barbara Krause e Andrea Pollak, erano pure incinte. Andrea ha fatto un aborto spontaneo al 5° mese, a Barbara il bimbo è nato con un piede deforme e 3 anni più tardi ne ha avuto un altro con la stessa malformazione. Così ho saputo che eravamo state cavie da laboratorio”.
“Più tardi un vecchio campione di ginnastica diventato medico mi ha spiegato che i problemi miei, di Barbara e Andrea non erano isolati. Altre atlete hanno messo al mondo bimbi deformi. E ciclisti sposati con donne non sportive hanno figli con malformazioni o ritardati. Oggi ho ritrovato il mio corpo: mi ci sono voluti 8 anni per perdere 15 chili, ma sono sicura che dentro di me gli steroidi vivono ancora. Ho paura. Temo anche che tali vergogne esistano non soltanto in Germania Est. All'Ovest non credo che si arrivi a toccare anche i bambini, non ancora, ma chi lo sa?... Il caso Johnson ha dimostrato che a un campione come lui si rimprovera d’essersi fatto scoprire. Ebbene, noi non abbiamo avuto questa fortuna...”.
Christiane vive a Vienna e ha accettato di raccontare la sua storia: una pesantissima denuncia del “doping di Stato”. “All'età di 10 anni mi allenavo due ore al giorno. A 12 anni due allenamenti quotidiani: nuotavamo più di 10 km al giorno. La scuola? Come tutte le ragazze nelle mie condizioni ero in ritardo sui miei coetanei, ma che importava! Lo avevano tanto ripetuto anche ai miei genitori: Con lo sport la vita sarà più facile, potrà viaggiare, avere vestiti nuovi”.
“A 13 anni sono seconda ai campionati nazionali giovanili. I miei genitori allora devono firmare un formulario nel quale si impegnano affinché nessun membro della famiglia, compresa io stessa, abbia il minimo contatto con l'Ovest. Tutti i giorni in piscina mi ritrovo al fianco dei componenti la squadra olimpica. Il mio corpo di bambina cambia, prende presto forma, ma non mi pongo domande vedendo campioni diventare tanto forti. L'allenatore ci dà compresse di vitamine e proteine, afferma. Ne dobbiamo ingoiare tante che talvolta ne gettiamo via una parte nei bagni della piscina”.
“Il 28 Agosto 1977, alle 15 e 48’, a Berlino Est, nel corso di un incontro con gli USA batto il mondiale dei 100 farfalla: con 59’’78 sono la prima donna a scendere sotto il minuto. Credo ancora di non aver preso il benché minimo prodotto dopante. Soltanto vitamine e proteine che mi dà l'allenatore Rolf Glaser. E, ogni tanto, vengo sottoposta a sedute di stimolazione muscolare elettrica. Dopo il record però mi fanno aumentare le distanze nuotate in allenamento: più di 20 Km. al giorno. Glaser mi ripete: “Devi migliorarti; gli stranieri capitalisti fanno ricorso al doping”. Poi un giorno mi dice, dandomi altre pillole: “Per rigenerare più alla svelta il tuo organismo. Se non le prendi non nuoterai più. Sulle confezioni non c'era scritto nulla”.
“Tutti questi prodotti li prendo perché mi vengono dati dal mio allenatore ed ho fiducia. Per me è diventato quasi altrettanto importante di mio padre. Ogni giorno prendo la mia dose di steroidi: da 10 a 15 pillole. Mi fanno una puntura, saprò poi che era un misto di cortisone e procaina, un analgesico. Due volte alla settimana mi viene fatta una perfusione: il liquido è talvolta trasparente, talvolta bianco come il latte. Sul flacone c'è scritto: “glucosio”. Con questo regime in meno di un anno sono ingrossata di 15 chili. Per 1.63 di altezza sono passata da 50 chili a 14 anni ai 65 dei 16 anni. E ci viene ripetuto: “dovete sapere cosa volete essere: ragazze normali o sportive d'alto livello. Ma se siete qui è perché avete già scelto”. Ed è vero che se mi vergogno del mio nuovo corpo, così gonfiato, se mi sento troppo pesante, continuo ugualmente a prendere questi prodotti, perché lo sport è il solo mezzo che conosco per poter viaggiare, per uscire dalla Germania Est”.
“Nel 1978 anno dei mondiali, sono tra le prime del mondo, ma poco prima della manifestazione vengo spedita vicino a Dresda, a Kreischa, sede dell'istituto medico sportivo. Ci ritrovo Petra Thumer, olimpionica del 1976. Anche lei è stata sottoposta a controlli antidoping “preventivi”, dato che ora anche gli steroidi sono rintracciabili: risultiamo positive nonostante abbiamo smesso di assumere steroidi da molti giorni. Siamo costrette a saltare i mondiali di Berlino Est. Abbiamo certamente preso troppe pillole. Ci spiegano che dobbiamo essere “ripulite”. Ci viene detto che le medicine che avevamo preso non vanno più bene. Restiamo 137 giorni a Kreischa. I medici fanno esperimenti su di noi. Vogliono sapere perché restano ancora tracce nelle nostre urine e come fare per eliminarle o nasconderle. È stato là che ho cominciato veramente a preoccuparmi. Ma se reagisci perdi tutti i privilegi: studi, appartamento... Per questo ho continuato”.
“Nel 1980 prendo parte all'Olimpiade di Mosca e finisco terza nei 100 farfalla. Poco dopo devo essere operata al gomito destro. Gli steroidi hanno impoverito di calcio l'osso: è come un cristallo. Oggi, dopo 3 operazioni, è di plastica. Avevano provato con supporti metallici, ma si rompeva lo stesso. Mi hanno dato narcotici per sopportare i dolori, mi hanno prelevato midollo spinale...”
“Nel 1983, due anni dopo il mio ritiro sportivo, nasce mia figlia. Non ha ancora 6 mesi, quando cade dalla carrozzina: ha un grande ematoma, grida, ha dei crampi. È ricoverata d'urgenza. Due settimane dopo i medici mi spiegano che non ha nulla di grave. Nessuna lesione, nessun tumore. Ma ha anche la febbre: anche più di 40°. Nel giugno 1984 devo lasciarla in ospedale. Per 18 mesi lotterà tra la vita e la morte. Un giorno l'assistente del professore che la cura mi spiega che Jennifer non ha sofferto a causa della caduta ma di squilibri ormonali. Anche lui è stato sportivo d'alto livello e dice: “Nulla di stupefacente visto tutto ciò che hai ingerito quando nuotavi”. La mia Jennifer era figlia del doping. In quell'anno due mie compagne, Barbara Krause e Andrea Pollak, erano pure incinte. Andrea ha fatto un aborto spontaneo al 5° mese, a Barbara il bimbo è nato con un piede deforme e 3 anni più tardi ne ha avuto un altro con la stessa malformazione. Così ho saputo che eravamo state cavie da laboratorio”.
“Più tardi un vecchio campione di ginnastica diventato medico mi ha spiegato che i problemi miei, di Barbara e Andrea non erano isolati. Altre atlete hanno messo al mondo bimbi deformi. E ciclisti sposati con donne non sportive hanno figli con malformazioni o ritardati. Oggi ho ritrovato il mio corpo: mi ci sono voluti 8 anni per perdere 15 chili, ma sono sicura che dentro di me gli steroidi vivono ancora. Ho paura. Temo anche che tali vergogne esistano non soltanto in Germania Est. All'Ovest non credo che si arrivi a toccare anche i bambini, non ancora, ma chi lo sa?... Il caso Johnson ha dimostrato che a un campione come lui si rimprovera d’essersi fatto scoprire. Ebbene, noi non abbiamo avuto questa fortuna...”.
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