Stando agli ultimi dati diffusi dal Ministero della Salute, nel 2003, il 3% degli atleti di 34 Federazioni (dai calciatori ai ciclisti, dai corridori ai culturisti) ha fatto uso di sostanze illecite
La guerra al doping non si ferma, anzi. Ma il nemico sembra avere una marcia in più. «La scienza sta riducendo il distacco con quelli che barano. Faremo ogni sforzo per evitare che chi imbroglia partecipi ai Giochi di Atene 2004», ha dichiarato qualche mese fa Dennis Owald, capo della Commissione di coordinamento del Cio (Comitato olimpico internazionale), eppure la sensazione generale è che la macchia d'olio delle sostanze illecite continui ad allargarsi a dismisura.
Troppi "non negativi" ai controlli, altre morti sospette, ancora polemiche sulle contromisure fin qui adottate, pochissime risposte certe all'appello. Il timore più diffuso è che le dimensioni del fenomeno-doping siano ben più allarmanti di quanto dicano i numeri e i fatti di cronaca che a intervalli regolari destano le coscienze. Per un nome più o meno noto che rimbalza su giornali e tv ce ne sono tanti altri che gonfiano, anonimamente e senza clamori, le statistiche sportive alla voce "non pulito".
Clamore e silenzio, comunque dramma. La morte di Marco Pantani, al termine di una lunga agonia privata e professionale cominciata sul traguardo della penultima tappa del Giro d’Italia, il 5 giugno del 1999. Il tasso di ematocrito del suo sangue risultò superiore alla norma (53% a fronte del limite fissato a 50) e scattò la squalifica. Il “Pirata”, lo scorso ottobre, è stato assolto dall’accusa di frode sportiva (“perché il fatto non era previsto dalla legge come reato”) ma chi gli è stato accanto in questi anni continua a ripetere che la sua pedalata verso la morte è cominciata quella mattina del 1999 a Madonna di Campiglio. E poi un'altra morte, quella di Lauro Minghelli, 31 anni, ex giocatore di Torino e Arezzo, l'ultima vittima del morbo di Lou Gehrig.
Perché fa notizia un calciatore trovato positivo al nandrolone, magari una medaglia olimpica conquistata a forza di anabolizzanti, un campione di ciclismo sorpreso con una farmacia "fai da te" in macchina o una nuotatrice troppo massiccia per sembrare solo molto allenata. Il resto rimane nell'ombra, soprattutto se a doparsi sono atleti di discipline poco note al grande pubblico o praticate a livello amatoriale. È proprio qui infatti, lontano dalla ribalta mediatica, che il doping sembra essere fuori controllo: sarebbero oltre 400mila gli sportivi italiani che fanno uso di sostanze dopanti. (dati forniti dall'Associazione stampa estera, ndr).
E mentre la lista delle sostanze illecite si allunga, chi è in prima linea (a vario titolo) nella crociata antidoping, oltre a tenere alta la soglia di allarme, continua a controllare, indagare, assolvere e punire. "Il doping è contrario ai principi di lealtà e correttezza nelle competizioni sportive - recita l'articolo 1 del Regolamento Coni attuativo del Codice mondiale antidoping WADA, in vigore dal 1° gennaio 2004 - ai valori culturali dello sport, alla sua funzione di valorizzazione delle naturali potenzialità fisiche e delle qualità morali degli atleti". È ovviamente la stessa Agenzia mondiale antidoping (WADA) a stilare la lista delle sostanze vietare e dei metodi proibiti.
La versione aggiornata, approvata dalla Giunta Nazionale del Coni il 23 gennaio scorso, comprende: stimolanti (cocaina, efedrina, stricnina etc.), narcotici (metadone, morfina, ossicodone etc.), cannabinoidi (hashish, marijuana etc.), agenti anabolizzanti (nandrolone, testosterone, zeranolo etc.), ormoni peptidici (eritropoietina, insulina ormone della crescita etc.), beta-2-agonisti, agenti con attività anti-estrogenica, agenti mascheranti (espansori di plasma, acido etacrinico, etc.) glucocorticosteroidi, alcool, beta-bloccanti (utilizzati per ridurre emotività e tremore) e diuretici.
«Tutte queste sostanze - spiega il professor Francesco Furlanello, consulente del Policlinico San Donato di Milano - possono provocare gravi conseguenze epatiche, cerebrali, muscolo-tendinee, ematiche, metaboliche, endocrine e persino tumorali. Nel mondo dei professionisti si fanno controlli sempre più raffinati, resta però aperto il vastissimo campo degli amatori, degli sportivi della domenica, delle decine di migliaia di ragazzi che nessuno controlla. Con la complicità di genitori, parenti e sedicenti guru di palestre, stanno crescendo generazioni di giovani che rischiano la salute e la vita».
La guerra al doping non si ferma, anzi. Ma il nemico sembra avere una marcia in più. «La scienza sta riducendo il distacco con quelli che barano. Faremo ogni sforzo per evitare che chi imbroglia partecipi ai Giochi di Atene 2004», ha dichiarato qualche mese fa Dennis Owald, capo della Commissione di coordinamento del Cio (Comitato olimpico internazionale), eppure la sensazione generale è che la macchia d'olio delle sostanze illecite continui ad allargarsi a dismisura.
Troppi "non negativi" ai controlli, altre morti sospette, ancora polemiche sulle contromisure fin qui adottate, pochissime risposte certe all'appello. Il timore più diffuso è che le dimensioni del fenomeno-doping siano ben più allarmanti di quanto dicano i numeri e i fatti di cronaca che a intervalli regolari destano le coscienze. Per un nome più o meno noto che rimbalza su giornali e tv ce ne sono tanti altri che gonfiano, anonimamente e senza clamori, le statistiche sportive alla voce "non pulito".
Clamore e silenzio, comunque dramma. La morte di Marco Pantani, al termine di una lunga agonia privata e professionale cominciata sul traguardo della penultima tappa del Giro d’Italia, il 5 giugno del 1999. Il tasso di ematocrito del suo sangue risultò superiore alla norma (53% a fronte del limite fissato a 50) e scattò la squalifica. Il “Pirata”, lo scorso ottobre, è stato assolto dall’accusa di frode sportiva (“perché il fatto non era previsto dalla legge come reato”) ma chi gli è stato accanto in questi anni continua a ripetere che la sua pedalata verso la morte è cominciata quella mattina del 1999 a Madonna di Campiglio. E poi un'altra morte, quella di Lauro Minghelli, 31 anni, ex giocatore di Torino e Arezzo, l'ultima vittima del morbo di Lou Gehrig.
Perché fa notizia un calciatore trovato positivo al nandrolone, magari una medaglia olimpica conquistata a forza di anabolizzanti, un campione di ciclismo sorpreso con una farmacia "fai da te" in macchina o una nuotatrice troppo massiccia per sembrare solo molto allenata. Il resto rimane nell'ombra, soprattutto se a doparsi sono atleti di discipline poco note al grande pubblico o praticate a livello amatoriale. È proprio qui infatti, lontano dalla ribalta mediatica, che il doping sembra essere fuori controllo: sarebbero oltre 400mila gli sportivi italiani che fanno uso di sostanze dopanti. (dati forniti dall'Associazione stampa estera, ndr).
E mentre la lista delle sostanze illecite si allunga, chi è in prima linea (a vario titolo) nella crociata antidoping, oltre a tenere alta la soglia di allarme, continua a controllare, indagare, assolvere e punire. "Il doping è contrario ai principi di lealtà e correttezza nelle competizioni sportive - recita l'articolo 1 del Regolamento Coni attuativo del Codice mondiale antidoping WADA, in vigore dal 1° gennaio 2004 - ai valori culturali dello sport, alla sua funzione di valorizzazione delle naturali potenzialità fisiche e delle qualità morali degli atleti". È ovviamente la stessa Agenzia mondiale antidoping (WADA) a stilare la lista delle sostanze vietare e dei metodi proibiti.
La versione aggiornata, approvata dalla Giunta Nazionale del Coni il 23 gennaio scorso, comprende: stimolanti (cocaina, efedrina, stricnina etc.), narcotici (metadone, morfina, ossicodone etc.), cannabinoidi (hashish, marijuana etc.), agenti anabolizzanti (nandrolone, testosterone, zeranolo etc.), ormoni peptidici (eritropoietina, insulina ormone della crescita etc.), beta-2-agonisti, agenti con attività anti-estrogenica, agenti mascheranti (espansori di plasma, acido etacrinico, etc.) glucocorticosteroidi, alcool, beta-bloccanti (utilizzati per ridurre emotività e tremore) e diuretici.
«Tutte queste sostanze - spiega il professor Francesco Furlanello, consulente del Policlinico San Donato di Milano - possono provocare gravi conseguenze epatiche, cerebrali, muscolo-tendinee, ematiche, metaboliche, endocrine e persino tumorali. Nel mondo dei professionisti si fanno controlli sempre più raffinati, resta però aperto il vastissimo campo degli amatori, degli sportivi della domenica, delle decine di migliaia di ragazzi che nessuno controlla. Con la complicità di genitori, parenti e sedicenti guru di palestre, stanno crescendo generazioni di giovani che rischiano la salute e la vita».