Premierato, la riforma in cinque punti: ecco cosa prevede il disegno di legge
Dentro gli articoli della riforma costituzionale voluta dal governo di Giorgia Meloni che cambiano la Carta. Le incognite di un percorso ancora lungo, i nodi su Quirinale, ballottaggio e liste
L’elezione diretta con un’unica scheda
«Il presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». Il senso della riforma approvata ieri mattina è tutto in queste poche parole. Gli altri articoli del disegno di legge sono per riequilibrare i poteri della Repubblica sulla base di questa novità sostanziale, che in realtà ha pochi paralleli nel mondo. Il sistema forse più simile è quello del cancellierato utilizzato in Germania. L’articolo 3 del provvedimento recita infatti: «L’articolo 92 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Il governo della Repubblica è composto dal presidente del Consiglio e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”». Poi, il testo prescrive appunto l’elezione diretta. Una novità sarà anche nelle schede elettorali che i cittadini troveranno nei seggi alle prime elezioni politiche dopo la definitiva approvazione della riforma: «Le votazioni per l’elezione del presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale». Su cui compariranno dunque i nomi dei candidati premier e le liste collegate sia per la Camera che per il Senato. Addio dunque alla doppia scheda per eleggere i componenti di ciascuna delle due Camere.
Come cambia il ruolo del capo dello Stato
Tra gli obiettivi dichiarati dalla ministra Casellati, c’è stato anche quello di «preservare i poteri del presidente della Repubblica che resta e deve restare figura chiave dell’unità nazionale». Su questo aspetto tra i costituzionalisti ci sono opinioni diverse: secondo alcuni di loro, il ruolo del presidente rischia di essere per certi versi notarile, con meno margini di intervento in caso di crisi. Il capo dello Stato non incarica più il presidente del Consiglio, che è già stato indicato sulla scheda elettorale dagli elettori. È vero però che sarà lui a scegliere, in caso di crisi di governo, chi lo sostituirà (può essere anche un reincarico). Ma anche questo è un punto controverso. Secondo Giovanni Maria Flick, infatti, l’eventuale «secondo premier della legislatura, che non riceve un mandato popolare a governare, avrebbe più poteri del premier eletto dai cittadini, disponendo solo lui dell’arma dello scioglimento delle Camere». Insomma, il premier che viene scelto dopo una crisi avrebbe più poteri del premier eletto. Quello che è certo, è che il presidente della Repubblica non potrà chiedere l’aiuto di un Draghi o di un Monti: il premier dovrà essere già un componente della maggioranza in Parlamento.
Il «sostituto» nella norma anti-ribaltone
Il presidente delle Repubblica «può conferire l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia». È il testo dell’art. 4 della riforma, che modifica l’art. 94 della Costituzione. Un aspetto molto discusso è il fatto che nel corso di una legislatura non possano esserci più di due premier: «Qualora il governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio subentrante, il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere». È al tempo stesso la norma contro i ribaltoni ed è anche quella contro la possibilità di governo tecnico: il nuovo incaricato dal presidente della Repubblica dovrà essere un parlamentare. Di più: un parlamentare dello stesso schieramento che ha vinto le elezioni. Lo stesso presidente del Senato, Ignazio La Russa, aveva espresso i suoi dubbi sul «secondo premier». Il fatto di eleggere un secondo presidente invece che tornare alle urne, a lui pare «troppo arzigogolato» soprattutto in vista del possibile referendum confermativo della riforma: se in seconda lettura il testo non ottenesse i due terzi dei voti in Parlamento, la consultazione popolare sarebbe inevitabile.
Il premio al 55% e l’incognita della soglia
Il testo della riforma approvata ieri non parla di legge elettorale, ma prevede un paletto importante. All’art. 3 è scritto che «la legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri». Insomma, nella riforma è già incluso un premio di maggioranza per la coalizione che ha vinto alle elezioni. Questo però presuppone che ci sia una soglia minima per ottenere il premio: sarebbe difficile immaginare di ottenere il 55% dei seggi con il 27% o il 28% dei voti espressi dai cittadini. Il che presuppone anche un sistema elettorale maggioritario, anche se in Israele — un Paese che per circa un decennio ha eletto i presidenti del Consiglio — eleggeva il Parlamento con sistema proporzionale. Assai probabile anche una soglia d’ingresso in Parlamento. I partiti più piccoli potrebbero dover confluire in un «listone» con i partiti maggiori per essere rappresentati in Parlamento. Attenzione: neppure è detto che il premier sia eletto con turno unico. Il ballottaggio tra i primi due candidati non è stato escluso, e di proposito. La premier Giorgia Meloni ha spiegato che «il tema per ora è aperto» perché «il ballottaggio non è stato introdotto e non è stato escluso». La decisione toccherà al Parlamento.
Addio ai senatori a vita
Il disegno di legge prevede la scomparsa dell’istituto dei senatori a vita. Del resto, il centrodestra è sempre stato contrario ai senatori non eletti. E dunque, nel quinto e ultimo articolo del ddl, contenente le norme transitorie, si può leggere: «I senatori di diritto a vita nominati ai sensi del previgente secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione restano in carica». Ma tra le prerogative del capo dello Stato non ci sarà più quella di nominarne di nuovi, una «riserva» del presidente che nel corso della storia repubblicana ha giocato un ruolo in più di un’occasione. Cosa diversa vale invece per gli ex presidenti della Repubblica: il disegno di legge non vi fa riferimento e dunque i presidenti emeriti continueranno a sedere a Palazzo Madama. Il progetto di riforma entrerà in vigore dalla prossima legislatura. O comunque alle prime elezioni utili dopo la definitiva approvazione del premierato. All’articolo 5 si legge: «La presente legge costituzionale si applica a decorrere dalla data del primo scioglimento delle Camere, successivo alla data di entrata in vigore della disciplina per l’elezione del presidente del Consiglio dei ministri e delle Camere». Ma il percorso non sarà comunque breve, anche il centrodestra punta ad approvare la prima lettura della riforma in entrambe le Camere prima delle elezioni europee del prossimo giugno. E poi procedere in maniera tale che il referendum confermativo sia celebrato nella primavera 2025.
CorSera
Dentro gli articoli della riforma costituzionale voluta dal governo di Giorgia Meloni che cambiano la Carta. Le incognite di un percorso ancora lungo, i nodi su Quirinale, ballottaggio e liste
L’elezione diretta con un’unica scheda
«Il presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». Il senso della riforma approvata ieri mattina è tutto in queste poche parole. Gli altri articoli del disegno di legge sono per riequilibrare i poteri della Repubblica sulla base di questa novità sostanziale, che in realtà ha pochi paralleli nel mondo. Il sistema forse più simile è quello del cancellierato utilizzato in Germania. L’articolo 3 del provvedimento recita infatti: «L’articolo 92 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Il governo della Repubblica è composto dal presidente del Consiglio e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”». Poi, il testo prescrive appunto l’elezione diretta. Una novità sarà anche nelle schede elettorali che i cittadini troveranno nei seggi alle prime elezioni politiche dopo la definitiva approvazione della riforma: «Le votazioni per l’elezione del presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale». Su cui compariranno dunque i nomi dei candidati premier e le liste collegate sia per la Camera che per il Senato. Addio dunque alla doppia scheda per eleggere i componenti di ciascuna delle due Camere.
Come cambia il ruolo del capo dello Stato
Tra gli obiettivi dichiarati dalla ministra Casellati, c’è stato anche quello di «preservare i poteri del presidente della Repubblica che resta e deve restare figura chiave dell’unità nazionale». Su questo aspetto tra i costituzionalisti ci sono opinioni diverse: secondo alcuni di loro, il ruolo del presidente rischia di essere per certi versi notarile, con meno margini di intervento in caso di crisi. Il capo dello Stato non incarica più il presidente del Consiglio, che è già stato indicato sulla scheda elettorale dagli elettori. È vero però che sarà lui a scegliere, in caso di crisi di governo, chi lo sostituirà (può essere anche un reincarico). Ma anche questo è un punto controverso. Secondo Giovanni Maria Flick, infatti, l’eventuale «secondo premier della legislatura, che non riceve un mandato popolare a governare, avrebbe più poteri del premier eletto dai cittadini, disponendo solo lui dell’arma dello scioglimento delle Camere». Insomma, il premier che viene scelto dopo una crisi avrebbe più poteri del premier eletto. Quello che è certo, è che il presidente della Repubblica non potrà chiedere l’aiuto di un Draghi o di un Monti: il premier dovrà essere già un componente della maggioranza in Parlamento.
Il «sostituto» nella norma anti-ribaltone
Il presidente delle Repubblica «può conferire l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia». È il testo dell’art. 4 della riforma, che modifica l’art. 94 della Costituzione. Un aspetto molto discusso è il fatto che nel corso di una legislatura non possano esserci più di due premier: «Qualora il governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio subentrante, il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere». È al tempo stesso la norma contro i ribaltoni ed è anche quella contro la possibilità di governo tecnico: il nuovo incaricato dal presidente della Repubblica dovrà essere un parlamentare. Di più: un parlamentare dello stesso schieramento che ha vinto le elezioni. Lo stesso presidente del Senato, Ignazio La Russa, aveva espresso i suoi dubbi sul «secondo premier». Il fatto di eleggere un secondo presidente invece che tornare alle urne, a lui pare «troppo arzigogolato» soprattutto in vista del possibile referendum confermativo della riforma: se in seconda lettura il testo non ottenesse i due terzi dei voti in Parlamento, la consultazione popolare sarebbe inevitabile.
Il premio al 55% e l’incognita della soglia
Il testo della riforma approvata ieri non parla di legge elettorale, ma prevede un paletto importante. All’art. 3 è scritto che «la legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri». Insomma, nella riforma è già incluso un premio di maggioranza per la coalizione che ha vinto alle elezioni. Questo però presuppone che ci sia una soglia minima per ottenere il premio: sarebbe difficile immaginare di ottenere il 55% dei seggi con il 27% o il 28% dei voti espressi dai cittadini. Il che presuppone anche un sistema elettorale maggioritario, anche se in Israele — un Paese che per circa un decennio ha eletto i presidenti del Consiglio — eleggeva il Parlamento con sistema proporzionale. Assai probabile anche una soglia d’ingresso in Parlamento. I partiti più piccoli potrebbero dover confluire in un «listone» con i partiti maggiori per essere rappresentati in Parlamento. Attenzione: neppure è detto che il premier sia eletto con turno unico. Il ballottaggio tra i primi due candidati non è stato escluso, e di proposito. La premier Giorgia Meloni ha spiegato che «il tema per ora è aperto» perché «il ballottaggio non è stato introdotto e non è stato escluso». La decisione toccherà al Parlamento.
Addio ai senatori a vita
Il disegno di legge prevede la scomparsa dell’istituto dei senatori a vita. Del resto, il centrodestra è sempre stato contrario ai senatori non eletti. E dunque, nel quinto e ultimo articolo del ddl, contenente le norme transitorie, si può leggere: «I senatori di diritto a vita nominati ai sensi del previgente secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione restano in carica». Ma tra le prerogative del capo dello Stato non ci sarà più quella di nominarne di nuovi, una «riserva» del presidente che nel corso della storia repubblicana ha giocato un ruolo in più di un’occasione. Cosa diversa vale invece per gli ex presidenti della Repubblica: il disegno di legge non vi fa riferimento e dunque i presidenti emeriti continueranno a sedere a Palazzo Madama. Il progetto di riforma entrerà in vigore dalla prossima legislatura. O comunque alle prime elezioni utili dopo la definitiva approvazione del premierato. All’articolo 5 si legge: «La presente legge costituzionale si applica a decorrere dalla data del primo scioglimento delle Camere, successivo alla data di entrata in vigore della disciplina per l’elezione del presidente del Consiglio dei ministri e delle Camere». Ma il percorso non sarà comunque breve, anche il centrodestra punta ad approvare la prima lettura della riforma in entrambe le Camere prima delle elezioni europee del prossimo giugno. E poi procedere in maniera tale che il referendum confermativo sia celebrato nella primavera 2025.
CorSera
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