L’Italia vince l’Europeo battendo in finale l’Inghilterra ai rigori, straordinario Donnarumma che para il rigore decisivo e porta gli azzurri in trionfo. 53 anni dopo l’unico Europeo vinto, quindici anni dopo il Mondiale vinto in Germania, e quattro dopo quello fallito in Russia. Una grande festa di colori ne cielo di Wembley, con gli inglesi che pensavano di aver già vinto in lacrime. Un Europeo giocato e vinto alla grande, come squadra migliore e più sorprendente, davanti a tante altre grandissime nazionali, dalla Francia alla Germania. Insomma un trionfo giusto e meritato. Il grazie va tutto a Mancini, che ha aperto un nuovo capitolo del calcio italiano: ha costruito una squadra di uomini forti, l’ha convinta a crederci e le ha dato anche una semplice parola d’ordine: “divertirsi”. Il ct si riprende a 56 anni quello che non era riuscito a conquistare negli anni 80 e 90 da calciatore azzurro con delle Nazionali straordinarie. Proprio da un calcio depresso è cominciata una nuova epoca
L’Italia campione d’Europa fa scintille su Wembley. Dal tetto dello stadio mito escono i fuochi artificiali, le nostre urla, la gioia, la felicità e il pianto commosso dei giocatori, le notti magiche, il più grande spettacolo dopo il big bang e le canzoni di Raffa. E ovviamente prima di cominciare non sarebbe mai potuta mancare l’Italiano di Cotugno. Quello strano, assurdo, irrispettoso, folcloristico mix nazional popolare che ci portiamo etichettati addosso da sempre. Ma che adesso in fin dei conti ci godiamo e che adesso tutti gli altri ci invidiano. Perché nel calcio siamo una potenza europea e mondiale, oh sì possiamo dirlo e l’Italia di Donnarumma e Mancini, ma non solo loro, certo, lo ha dimostrato. Lasciateci cantare…
L’unico rammarico forse è davvero dover scrivere e raccontare, lavorare (lavorare?), mantenere un minimo di lucidità e non ballare anche noi sui desk della tribuna stampa, sui computer e sui resti di tutto quello che abbiamo divorato travolti dalla tensione e da una partita che non finiva mai. Volano bottiglie, ci tiriamo acqua addosso facendo finta che sia champagne, partono uova, resti di tramezzini al tonno, insalate, i badge degli accrediti sventolano come vessilli, e poi yogurt, fogli di carta, borse, spuntano bandiere italiane di carta tenute nascoste in borsa. Italia, oh yes! Un meraviglioso indimenticabile caos.
E’ successo. E’ successo perché il calcio è uno sport, anzi più che uno sport un’avventura, un pezzo di vita, che non segue la logica, il nostro modo di ragionare. E’ bizzarro e illogico per definizione e quindi eccoli qui i nostri ragazzi che alzano la Coppa nel cielo grigio e fresco di Wembley. Uno stadio meraviglioso, il tempio del football, ribollente di 70.000 inglesi scatenati e convinti di aver già vinto e di essere finalmente usciti da quella maledizione che li vede costretti a un solo successo internazionale in oltre un secolo di storia, il Mondiale del 1966. E invece no, la maledizione continua per loro e il calcio sorride a noi evitandoci la mortificazione di un’altra finale persa ai rigori. Dovessi ricominciare da capo, chiederei che questo tormento dei rigori finisca e che per favore almeno in finale si assegnino nell’eventualità due Coppe.
Figuriamoci poi cosa era successo dentro Wembley quando l’Inghilterra era poi andata subito in vantaggio – un tizio tre o quattro file davanti a noi aveva preso a farci ripetutamente il gesto dell’ombrello – e l’Italia aveva dovuto lentamente ma con cocciutaggine e una fede eccezionale ricostruire tutta la partita.
Ricominciarla da capo. Afferrare il pareggio con Bonucci e dopo pilotare la partita fino ai rigori dove Gigio Donnarumma si è dimostrato ancora una volta Superman. La sua partita era stata fino ad allora normale, nessun miracolo. E’ stato lui, così giovane ma anche già così esperto (quasi 300 partite tra club e Nazionale) a parare due rigori di Sancho e Saka e dare realtà al sogno.
L’ultimo e anche unico Europeo l’Italia lo aveva vinto nel 68, 53 anni fa. Non vincevamo un grande torneo dal Mondiale 2006, e nel novembre 2017 avevamo raggiunto uno dei punti più bassi della nostra storia con la non qualificazione al Mondiale di Russia. Abbiamo attraversato anni di calcio depresso, abbiamo visto emergere altri campionati e altre realtà, abbiamo finito col fustigarci noi stessi. E soprattutto col non credere più in noi stessi. Da questo punto di vista la Nazionale ci ha dato anche una grande lezione di vita.
In questo panorama grigio in poco più di tre anni Mancini ha ricostruito una Nazionale dal nulla, le ha dato corpo e anima, ha fatto un mix perfetto di giovani e anziani, trovato tanti giocatori che noi non pensavamo potessero essere così bravi. E’ stato oggettivamente migliore e più fiducioso di noi, ha creduto in un’impresa che tutto il resto del mondo nemmeno prendeva in considerazione. Quando rinviarono l’Europeo lo scorso anno, causa pandemia, disse che poteva essere un’occasione per migliorare ancora la Nazionale e avere qualche chance in più di vittoria. E’ vero, ha avuto ragione lui. Ha costruito una squadra fissa – Donnarumma, Di Lorenzo o Florenzi, Bonucci, Chiellini, Spinazzola o Emerson, Barella, Jorginho, Verratti, Berardi o Chiesa, Immobile e Insigne – ma ha dato spazio veramente a tutti. Anche ad Acerbi e Bastoni, Locatelli e Bernardeschi e via così. Ha fortemente creduto nel gruppo, senza farne filosofia vuota e spicciola. E soprattutto la squadra ha creduto in lui, ha visto l’ex grande giocatore che non si metteva sul piedistallo e comandava con superbia.
Il grande pregio di Mancini è quello di aver dato leggerezza alla squadra, averle dato un gioco ma non averla tormentata con gli schemi, lasciata libera la fantasia, fosse quella di Chiesa o Insigne. Parola d’ordine “divertirsi”. Ecco credo che Mancini abbia riscritto un pezzo di calcio italiano, ispirato una nuova filosofia, più moderna e più vicina ai giocatori: crederci sempre e soprattutto giocare per divertirsi. Possiamo vincere e non dobbiamo vincere. L’ossessione di vincere spesso uccide. Il calcio non è materia indispensabile alla vita, non c’è alcun motivo per non divertirsi se si gioca a pallone. Altrimenti facciamo altro.
Sono contrario a stracaricare le grandi vittorie di significati eccessivi e soprattutto molto trascendentali, che perdono aderenza con la realtà. Lo sport è spesso un mondo a parte, che non segue le stesse regole e la stessa logica della vita sociale. E poi perché si fa troppo presto a dimenticare che la differenza tra vincere e perdere è veramente minima. Guardate negli occhi gli inglesi che piangono – come del resto in passato è capitato a noi – e lo capirete. Io non godo affatto nel vedere gli altri così, guardate ammirate anche il lungo abbraccio tra Messi e Neymar e capirete che lo sport e’ veramente un’altra dimensione mentale. In questo caso tra noi e l’Inghilterra c’è un rigore azzeccato o sbagliato di differenza. Che cosa vogliamo costruire sulla straordinaria parata di Donnarumma? Lasciamola tutta a lui e alla sua squadra, non approfittiamone per svelare chissà quali verità. Non ergiamoci subito a epici invincibili.
L’Italia però non ha vinto per caso, questo sì. Ha vinto perché viene da una lunghissima sequenza di vittorie, è stata la migliore e la più costante durante l’Europeo, migliore di tante nazionali assai più quotate e pubblicizzate come modelli, vedi la Francia e la Germania, anche se le ultime due partite l’Italia ha dovuto strapparle ai rigori, ma anche quello lo ha fatto con fiducia e sicurezza. Certo un po’ di fortuna c’è stata, ma è difficile è veramente raro vincere da sfigati.
Giovane talento anche abbastanza irregolare e fuori ordinanza, Mancini si riprende giustamente quello che la sua carriera azzurra non gli ha dato fino in fondo. Lo fa suddividendo la sua vittoria insieme all’amico di una vita Gianluca Vialli: la vera, grande vittoria è stato dare a lui una notte così. Ho visto Vialli, prima della partita, restare alcuni minuti sul cerchietto di centrocampo meditare, guardare il cielo, lo stadio, i tifosi e l’erba. Ho la presunzione di poter capire cosa pensasse e quanti sentimenti lo attraversassero.
Mancini è stato un grandissimo calciatore, uno dei più raffinati e talentuosi degli anni 80 e 90, ma purtroppo con la Nazionale non era riuscito a vincere niente. Né con la meravigliosa Under 21 di Vicini in cui si aggregò tutto il suo clan di amici (Vialli, Mancini, Zenga etc) né con la successiva Nazionale che arrivò terza a Italia ’90. In quegli anni ero là con quella bellissima squadra di talenti, ricordo come se fosse ora l’amarezza e i pianti della notte di Valladolid. I rigori sbagliati da quella squadra, quei mesti ritorni in aereo che sembra non ci sarà mai un’altra possibilità. “Spero di riuscire a ottenere ora quello che da calciatore con la Nazionale non ho avuto pur avendo giocato con squadre bellissime” aveva detto Robi alla vigilia. Arrivato a 56 anni è stato accontentato. O meglio quello che non ha avuto se lo è ripreso. E lo ha regalato anche a noi.
L’Italia campione d’Europa fa scintille su Wembley. Dal tetto dello stadio mito escono i fuochi artificiali, le nostre urla, la gioia, la felicità e il pianto commosso dei giocatori, le notti magiche, il più grande spettacolo dopo il big bang e le canzoni di Raffa. E ovviamente prima di cominciare non sarebbe mai potuta mancare l’Italiano di Cotugno. Quello strano, assurdo, irrispettoso, folcloristico mix nazional popolare che ci portiamo etichettati addosso da sempre. Ma che adesso in fin dei conti ci godiamo e che adesso tutti gli altri ci invidiano. Perché nel calcio siamo una potenza europea e mondiale, oh sì possiamo dirlo e l’Italia di Donnarumma e Mancini, ma non solo loro, certo, lo ha dimostrato. Lasciateci cantare…
L’unico rammarico forse è davvero dover scrivere e raccontare, lavorare (lavorare?), mantenere un minimo di lucidità e non ballare anche noi sui desk della tribuna stampa, sui computer e sui resti di tutto quello che abbiamo divorato travolti dalla tensione e da una partita che non finiva mai. Volano bottiglie, ci tiriamo acqua addosso facendo finta che sia champagne, partono uova, resti di tramezzini al tonno, insalate, i badge degli accrediti sventolano come vessilli, e poi yogurt, fogli di carta, borse, spuntano bandiere italiane di carta tenute nascoste in borsa. Italia, oh yes! Un meraviglioso indimenticabile caos.
E’ successo. E’ successo perché il calcio è uno sport, anzi più che uno sport un’avventura, un pezzo di vita, che non segue la logica, il nostro modo di ragionare. E’ bizzarro e illogico per definizione e quindi eccoli qui i nostri ragazzi che alzano la Coppa nel cielo grigio e fresco di Wembley. Uno stadio meraviglioso, il tempio del football, ribollente di 70.000 inglesi scatenati e convinti di aver già vinto e di essere finalmente usciti da quella maledizione che li vede costretti a un solo successo internazionale in oltre un secolo di storia, il Mondiale del 1966. E invece no, la maledizione continua per loro e il calcio sorride a noi evitandoci la mortificazione di un’altra finale persa ai rigori. Dovessi ricominciare da capo, chiederei che questo tormento dei rigori finisca e che per favore almeno in finale si assegnino nell’eventualità due Coppe.
Figuriamoci poi cosa era successo dentro Wembley quando l’Inghilterra era poi andata subito in vantaggio – un tizio tre o quattro file davanti a noi aveva preso a farci ripetutamente il gesto dell’ombrello – e l’Italia aveva dovuto lentamente ma con cocciutaggine e una fede eccezionale ricostruire tutta la partita.
Ricominciarla da capo. Afferrare il pareggio con Bonucci e dopo pilotare la partita fino ai rigori dove Gigio Donnarumma si è dimostrato ancora una volta Superman. La sua partita era stata fino ad allora normale, nessun miracolo. E’ stato lui, così giovane ma anche già così esperto (quasi 300 partite tra club e Nazionale) a parare due rigori di Sancho e Saka e dare realtà al sogno.
L’ultimo e anche unico Europeo l’Italia lo aveva vinto nel 68, 53 anni fa. Non vincevamo un grande torneo dal Mondiale 2006, e nel novembre 2017 avevamo raggiunto uno dei punti più bassi della nostra storia con la non qualificazione al Mondiale di Russia. Abbiamo attraversato anni di calcio depresso, abbiamo visto emergere altri campionati e altre realtà, abbiamo finito col fustigarci noi stessi. E soprattutto col non credere più in noi stessi. Da questo punto di vista la Nazionale ci ha dato anche una grande lezione di vita.
In questo panorama grigio in poco più di tre anni Mancini ha ricostruito una Nazionale dal nulla, le ha dato corpo e anima, ha fatto un mix perfetto di giovani e anziani, trovato tanti giocatori che noi non pensavamo potessero essere così bravi. E’ stato oggettivamente migliore e più fiducioso di noi, ha creduto in un’impresa che tutto il resto del mondo nemmeno prendeva in considerazione. Quando rinviarono l’Europeo lo scorso anno, causa pandemia, disse che poteva essere un’occasione per migliorare ancora la Nazionale e avere qualche chance in più di vittoria. E’ vero, ha avuto ragione lui. Ha costruito una squadra fissa – Donnarumma, Di Lorenzo o Florenzi, Bonucci, Chiellini, Spinazzola o Emerson, Barella, Jorginho, Verratti, Berardi o Chiesa, Immobile e Insigne – ma ha dato spazio veramente a tutti. Anche ad Acerbi e Bastoni, Locatelli e Bernardeschi e via così. Ha fortemente creduto nel gruppo, senza farne filosofia vuota e spicciola. E soprattutto la squadra ha creduto in lui, ha visto l’ex grande giocatore che non si metteva sul piedistallo e comandava con superbia.
Il grande pregio di Mancini è quello di aver dato leggerezza alla squadra, averle dato un gioco ma non averla tormentata con gli schemi, lasciata libera la fantasia, fosse quella di Chiesa o Insigne. Parola d’ordine “divertirsi”. Ecco credo che Mancini abbia riscritto un pezzo di calcio italiano, ispirato una nuova filosofia, più moderna e più vicina ai giocatori: crederci sempre e soprattutto giocare per divertirsi. Possiamo vincere e non dobbiamo vincere. L’ossessione di vincere spesso uccide. Il calcio non è materia indispensabile alla vita, non c’è alcun motivo per non divertirsi se si gioca a pallone. Altrimenti facciamo altro.
Sono contrario a stracaricare le grandi vittorie di significati eccessivi e soprattutto molto trascendentali, che perdono aderenza con la realtà. Lo sport è spesso un mondo a parte, che non segue le stesse regole e la stessa logica della vita sociale. E poi perché si fa troppo presto a dimenticare che la differenza tra vincere e perdere è veramente minima. Guardate negli occhi gli inglesi che piangono – come del resto in passato è capitato a noi – e lo capirete. Io non godo affatto nel vedere gli altri così, guardate ammirate anche il lungo abbraccio tra Messi e Neymar e capirete che lo sport e’ veramente un’altra dimensione mentale. In questo caso tra noi e l’Inghilterra c’è un rigore azzeccato o sbagliato di differenza. Che cosa vogliamo costruire sulla straordinaria parata di Donnarumma? Lasciamola tutta a lui e alla sua squadra, non approfittiamone per svelare chissà quali verità. Non ergiamoci subito a epici invincibili.
L’Italia però non ha vinto per caso, questo sì. Ha vinto perché viene da una lunghissima sequenza di vittorie, è stata la migliore e la più costante durante l’Europeo, migliore di tante nazionali assai più quotate e pubblicizzate come modelli, vedi la Francia e la Germania, anche se le ultime due partite l’Italia ha dovuto strapparle ai rigori, ma anche quello lo ha fatto con fiducia e sicurezza. Certo un po’ di fortuna c’è stata, ma è difficile è veramente raro vincere da sfigati.
Giovane talento anche abbastanza irregolare e fuori ordinanza, Mancini si riprende giustamente quello che la sua carriera azzurra non gli ha dato fino in fondo. Lo fa suddividendo la sua vittoria insieme all’amico di una vita Gianluca Vialli: la vera, grande vittoria è stato dare a lui una notte così. Ho visto Vialli, prima della partita, restare alcuni minuti sul cerchietto di centrocampo meditare, guardare il cielo, lo stadio, i tifosi e l’erba. Ho la presunzione di poter capire cosa pensasse e quanti sentimenti lo attraversassero.
Mancini è stato un grandissimo calciatore, uno dei più raffinati e talentuosi degli anni 80 e 90, ma purtroppo con la Nazionale non era riuscito a vincere niente. Né con la meravigliosa Under 21 di Vicini in cui si aggregò tutto il suo clan di amici (Vialli, Mancini, Zenga etc) né con la successiva Nazionale che arrivò terza a Italia ’90. In quegli anni ero là con quella bellissima squadra di talenti, ricordo come se fosse ora l’amarezza e i pianti della notte di Valladolid. I rigori sbagliati da quella squadra, quei mesti ritorni in aereo che sembra non ci sarà mai un’altra possibilità. “Spero di riuscire a ottenere ora quello che da calciatore con la Nazionale non ho avuto pur avendo giocato con squadre bellissime” aveva detto Robi alla vigilia. Arrivato a 56 anni è stato accontentato. O meglio quello che non ha avuto se lo è ripreso. E lo ha regalato anche a noi.
Commenta