Appartiene a una delle più feroci gang newyorchesi il 25enne Vincent Pinkney, il killer che ha troncato la vita di Davide Giri . Era un pregiudicato, più volte arrestato per crimini violenti, condannato a una pena lieve, rilasciato prima di averla scontata. Era a piede libero nonostante fosse sospettato di aver commesso un’aggressione recente. Si sa quasi tutto di colui che ha selvaggiamente aggredito il ricercatore italiano mentre rientrava alla Columbia University dopo una partita di calcio. Ma nessuna di queste notizie è visibile sul New York Times. Giornale di riferimento per la città e per la nazione. Eppure distratto e reticente su una tragedia avvenuta nel cuore di Manhattan. Nome, cognome, età dell’assassino sono le scarne notizie fornite ai lettori.
L’articolo di cronaca è stato confinato nelle pagine locali, con scarsa visibilità. Sul sito del giornale, alla prima versione non è seguito alcun aggiornamento. Brevi testimonianze dei colleghi di studio, una dichiarazione del rettore della Columbia University, compongono un articolo evasivo e lacunoso. Zero notizie sull’autore di quella che poteva essere una strage. Dopo aver pugnalato Giri alle 22.55 di giovedì all’angolo fra Amsterdam Avenue e la 123esima Strada, un quarto d’ora dopo Pinkney feriva un turista italiano, Roberto Malaspina, a poca distanza sulla Morningside Drive; ancora pochi minuti e tentava l’aggressione a una coppia a Central Park.
Perché su Pinkney i lettori del New York Times non sanno nulla, a parte l’età e il cognome? L’interesse del quotidiano, e il vigore investigativo messo in campo, sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato un membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina, un team di reporter sarebbe stato mobilitato per indagare l’ambiente dell’omicida, la sua storia e le sue motivazioni.
Pinkney è un afroamericano residente a Washington Heights, un’area di Harlem. La polizia lo ha riconosciuto come un membro di Ebk, acronimo di Everybody Killas («uccidiamo tutti»), una gang la cui base operativa è nel quartiere di Queens. Ebk è nata da altre bande criminali con le quali mantiene stretti rapporti: i Bloods, i Crips, i Nightingale. Il raggio d’azione di Ebk si estende fino alla California dove un rapporto della procura di San Joaquim la descrive come «una gang che ha come politica la guerra aperta». Si finanzia con il narcotraffico; è coinvolta in una lunga serie di sparatorie. Pinkney era stato arrestato 11 volte dal 2012 per crimini gravi. Nel 2018 era stato condannato a quattro anni di carcere per aver partecipato a una feroce aggressione di branco. Fu liberato dopo due anni.
Per trovare queste notizie, diffuse dalle forze dell’ordine, bisogna andare sui siti di qualche tv locale, oppure di un tabloid populista, il New York Post. Il New York Times ha scelto una reticenza che sconfina nell’autocensura, coerente con la linea editoriale degli ultimi anni. I canoni del giornalismo americano sono stati stravolti, in particolare durante gli anni di Donald Trump quando nelle redazioni dei media progressisti è diventato un vanto praticare il «giornalismo resistenziale». La ricerca di equilibrio o imparzialità è stata considerata una debolezza: il fine giustifica i mezzi.
Con l’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente bianco il 25 maggio 2020 a Minneapolis, e il rilancio del movimento antirazzista Black Lives Matter, i principali quotidiani hanno abbracciato slogan come «tagliamo fondi alla polizia». Gli episodi di saccheggi e violenze avvenuti con il pretesto dell’antirazzismo sono stati minimizzati. Il New York Times si è fatto promotore di un’iniziativa, The 1619 Project, che rilegge l’intera storia americana come una derivazione dello schiavismo che condizionerebbe tuttora ogni istituzione, l’intero sistema legale, la cultura e la scuola. Una purga all’interno della redazione ha allontanato diversi reporter che non erano allineati con il radicalismo di Black Lives Matter.
Qualche voce dissenziente resiste isolata, come l’opinionista Bret Stephens che ancora una settimana fa ammoniva: in passato quando la sinistra americana è stata lassista sull’escalation del crimine, ha favorito una potente riscossa della destra. A New York gli omicidi sono aumentati del 42% dal 2019. La prima reazione politica c’è già stata: l’elezione del nuovo sindaco Eric Adams, un afroamericano che viene dai ranghi della polizia. Lo hanno plebiscitato i gruppi etnici meno privilegiati, vittime principali dell’escalation di violenza.
«Le vite dei neri contano» è uno slogan che per Black Lives Matter sembra applicarsi solo quando gli assassini sono bianchi e razzisti; la stragrande maggioranza delle morti violente, tra i Black come tra gli ispanici, passano inosservate perché i killer appartengono allo stesso gruppo etnico. La reticenza del Times include il tema della scarcerazione facile. Il giornale appoggia le procure «progressiste» che mettono in libertà anche criminali pericolosi, professionisti della violenza, che rappresentano una minaccia costante per la comunità. All’indomani della morte di Giri un editoriale della direzione confermava questa linea, attaccando quei procuratori che non procedono abbastanza speditamente a svuotare le carceri. Il dolore per l’assurda morte di Giri non verrebbe risarcito da una diversa attenzione della stampa, però questa vicenda offre uno sguardo inquietante sul «nuovo giornalismo», militante e condizionato dalla sua agenda ideologica. Anche la cronaca nera si piega a questa logica tribale.
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