Libia, da 100 giorni i pescatori italiani bloccati senza un perché.
Dallo scorso 1 settembre 18 pescatori che lavoravano su imbarcazioni italiane sono detenuti a el Kuefia, a 15 km a sudest di Bengasi, dalle forze di Haftar, senza un’accusa formale.
La mattina del 26 agosto 2020 a Mazara del Vallo ci sono già 22 gradi, la temperatura media della giornata sarà di 27, non si alza neppure un alito di vento. È una calda giornata estiva come tante quando l’equipaggio del peschereccio Medinea - il comandante Pietro Marrone, Onofrio Giacalone, il nostromo tunisino Ben Thameur Hedi e suo figlio Ben Thameur Lysse, Ben Haddada Mohamed e il cuoco Mathlouthi Habib - esce dal porto, diretto 400-500 miglia più a sud-est, verso il golfo della Sirte, zona non abituale ma dove talvolta, in tempi di scarsa pescosità, ci si spinge per scongiurare il rischio di uscite a vuoto. È una battuta di pesca che durerà un mese, 40 giorni al massimo: nella peggiore delle ipotesi, pensano i membri dell’equipaggio, a metà ottobre saranno tutti di rientro a casa dalle famiglie.
Due giorni di navigazione dopo, il 28 agosto, il Medinea raggiunge le 40 miglia dalle coste libiche. Tenete a mente questo numero: è rilevante, come vedremo, non solo perché è il punto dove una normale battuta di pesca si trasforma nel sequestro di 18 pescatori. Diciotto perché tra i coinvolti non ci sono solo gli uomini imbarcati sul Medinea.
La sequenza del sequestro
Intorno alle 20.30 del 1 settembre una motovedetta libica raggiunge quello specchio d’acqua, dove, verrà poi ricostruito, ci sono in quel momento nove pescherecci, tutti battenti bandiera italiana. I libici - forze riconducibili al generale Khalifa Haftar che controlla la regione della Cirenaica e non invece al governo riconosciuto di Tripoli guidato da Fayez al Serraj - esplodono diversi colpi in aria, costringono a salire a bordo della propria motovedetta Pietro Marrone, comandante del Medinea, e Michele Trinca, comandante di un altro peschereccio, Antartide, a bordo del quale si trovano Giovanni Bonomo, Vito Barracco, Fabio Giacalone, Mohamed Karoui, Ibrahim Sarr, Moh Samsudin, Indra Gunawan Giri, Bavieux Daffe e Fart Jemmali. Con lo stesso metodo fermano le motopesca Natalino e Anna Madre: da queste scendono rispettivamente il marò Salvo Bernardo e il capitano Giacomo Giacalone. Tutti loro, insieme all’intero equipaggio del Medinea, sono da quel momento di fatto sotto sequestro, anche se ancora non lo sanno. Il resto dell’equipaggio del Natalino e dell’Anna Madre, insieme ad altri pescherecci che erano nei paraggi, riesce a mettersi in fuga. Sono ore concitate, rievoca Marco Marrone, armatore 39enne del Medinea che ha ereditato dal padre le redini dell’attività.
L'intervento della marina e il caso geopolitico
Sono proprio i pescherecci riusciti a scappare a lanciare l’allarme a terra. Vengono avvisate le Capitanerie di Porto, poi Roma. Poche ore dopo iniziano i primi contatti con la Marina militare. Da cui in una prima telefonata, spiega Marrone, arriva l’assicurazione che gli elicotteri sono già in volo e che in poche ore l’emergenza rientrerà. Tanto che Marrone, in una comunicazione via radar con il Medinea, suggerisce di allargare la rotta verso nord, in modo da temporeggiare in attesa dell’intervento. Ma poche ore dopo, intorno alle 3 di notte emerge invece da una seconda telefonata con la Marina che non è possibile intervenire perché, riferisce Marrone, “ormai è diventato un caso diplomatico”. A 40 miglia dalle coste libiche 18 semplicissime vite di marittimi italiani, tunisini e indonesiani hanno incrociato qualcosa di molto più grande e complesso: la geopolitica. Talmente complesso che, 100 giorni dopo, nessuno sembra avere una vaga idea del possibile esito di questa vicenda.
Il peschereccio Medinea
Chi comanda in quello specchio d'acqua?
Chi ha l’autorità su quello specchio d’acqua è una domanda fondamentale, se non per sciogliere il nodo di questo groviglio, quanto meno per trovare il bandolo della matassa. La Libia rivendica unilateralmente dal 2005 la qualifica per quell’area di Zona Economica Esclusiva, cioè quella dove un Paese ha diritto esclusivo di sfruttare le risorse, che comprende le 62 miglia oltre le 12 delle acque territoriali - dunque anche le 40 miglia dove si trovavano i pescherecci italiani. Ma nessuna autorità internazionale ha mai accordato tale riconoscimento. E dunque, oltre le 12 miglia delle acque territoriali (circa 22 chilometri), lo Stato più vicino ha solo il diritto/dovere di controllare che le navi di passaggio non commettano reati. Nei giorni successivi al sequestro dei pescatori un funzionario delle milizie di Khalifa Haftar aveva detto all’Agenzia Nova che i pescherecci avevano violato la (autoproclamata) Zee libica: nessuna accusa formale nei confronti dei pescatori, attualmente bloccati a el Kuefia, a 15 chilometri a sudest di Bengasi, è però mai stata formalizzata. Anzi, una udienza inizialmente annunciata per lo scorso 21 ottobre non si è mai tenuta. A farla saltare, forse, la diplomazia che nel più stretto riserbo sta lavorando da settimane a questo caso.
La partita diplomatica
Che sia una partita diplomatica complessa lo conferma Arturo Varvelli, ricercatore Ispi specializzato in politica interna ed estera della Libia e in particolare dei rapporti Italia-Libia, oltre che Senior Policy Fellow per lo European Council on Foreign Relations. “Haftar sta facendo una prova di forza”, spiega, per ribadire e far pesare il proprio potere nella bilancia dei rapporti con gli altri Paesi, specie quelli che, come l’Italia, hanno avallato e contribuito alla nascita del concorrente di Haftar, vale a dire il governo ufficiale di Tripoli guidato da Fayez al Serraj. Stabilire che cosa in concreto il generale della Cirenaica possa pretendere “è molto difficile” prosegue Varvelli. Tra le ipotesi che erano circolate c’è quella dello scambio di prigionieri: Haftar potrebbe richiedere la liberazione di quattro cittadini libici che sono stati condannati in Italia a 30 anni perché scafisti. Ma se la pretesa da parte libica sarebbe plausibile, è impossibile che possa essere accordata, soprattutto per la palese disparità tra le situazioni: vorrebbe dire, sottolinea Varvelli, “mettere sulle stesso piano persone già passate in giudicato con persone che non si sa ancora neppure bene di cosa siano accusate”.
L’Italia finora ha tenuto un profilo basso sperando che il poco fragore a livello internazionale portasse a una soluzione abbastanza rapida, ma la strategia, osserva Varvelli, non pare stia funzionando.
I rapporti Italia-Libia
È già accaduto in passato che marittimi italiani fosse sequestrati per qualche ora, qualche giorno, settimane. Ma di precedenti così lunghi negli ultimi 30 anni non si ha traccia.
E chiaramente il fatto che il paese sia diviso non aiuta. “L’Italia - analizza Varvelli - ha sempre avuto una posizione molto favorevole al governo di Tripoli. Poi quando abbiamo visto che Haftar si rafforzava abbiamo preso una posizione di equidistanza che si è trasformata in una politica molto ambigua, che mostra ora tutte le sue debolezze: non siamo più amici di Haftar, come la Francia o la Russia, e intanto il governo di unità nazionale che risiede a Tripoli ha iniziato a guardare altrove per avere una protezione internazionale - che gli è stata offerta dai turchi -, quindi abbiamo perso anche quella leva”.
Una delle vie diplomatiche per sbloccare la situazione potrebbe essere quella egiziana. Una moral suasion da parte del Cairo è plausibile, spiega Varvelli, sebbene anche i rapporti dell’Italia con quest’ultimo Paese siano complessi: da un lato ci sono grosse aziende italiane che operano lì (Eni, Fincantieri), dall’altra c’è il nervo scopertissimo del caso Regeni. La domanda sullo sfondo è sempre quella: quanto e come trattare con questi regimi? Difficile che, in attesa della risposta, i 18 pescatori riescano a tornare a casa entro Natale.
https://tg24.sky.it/palermo/2020/12/...ati-100-giorni
Dallo scorso 1 settembre 18 pescatori che lavoravano su imbarcazioni italiane sono detenuti a el Kuefia, a 15 km a sudest di Bengasi, dalle forze di Haftar, senza un’accusa formale.
La mattina del 26 agosto 2020 a Mazara del Vallo ci sono già 22 gradi, la temperatura media della giornata sarà di 27, non si alza neppure un alito di vento. È una calda giornata estiva come tante quando l’equipaggio del peschereccio Medinea - il comandante Pietro Marrone, Onofrio Giacalone, il nostromo tunisino Ben Thameur Hedi e suo figlio Ben Thameur Lysse, Ben Haddada Mohamed e il cuoco Mathlouthi Habib - esce dal porto, diretto 400-500 miglia più a sud-est, verso il golfo della Sirte, zona non abituale ma dove talvolta, in tempi di scarsa pescosità, ci si spinge per scongiurare il rischio di uscite a vuoto. È una battuta di pesca che durerà un mese, 40 giorni al massimo: nella peggiore delle ipotesi, pensano i membri dell’equipaggio, a metà ottobre saranno tutti di rientro a casa dalle famiglie.
Due giorni di navigazione dopo, il 28 agosto, il Medinea raggiunge le 40 miglia dalle coste libiche. Tenete a mente questo numero: è rilevante, come vedremo, non solo perché è il punto dove una normale battuta di pesca si trasforma nel sequestro di 18 pescatori. Diciotto perché tra i coinvolti non ci sono solo gli uomini imbarcati sul Medinea.
La sequenza del sequestro
Intorno alle 20.30 del 1 settembre una motovedetta libica raggiunge quello specchio d’acqua, dove, verrà poi ricostruito, ci sono in quel momento nove pescherecci, tutti battenti bandiera italiana. I libici - forze riconducibili al generale Khalifa Haftar che controlla la regione della Cirenaica e non invece al governo riconosciuto di Tripoli guidato da Fayez al Serraj - esplodono diversi colpi in aria, costringono a salire a bordo della propria motovedetta Pietro Marrone, comandante del Medinea, e Michele Trinca, comandante di un altro peschereccio, Antartide, a bordo del quale si trovano Giovanni Bonomo, Vito Barracco, Fabio Giacalone, Mohamed Karoui, Ibrahim Sarr, Moh Samsudin, Indra Gunawan Giri, Bavieux Daffe e Fart Jemmali. Con lo stesso metodo fermano le motopesca Natalino e Anna Madre: da queste scendono rispettivamente il marò Salvo Bernardo e il capitano Giacomo Giacalone. Tutti loro, insieme all’intero equipaggio del Medinea, sono da quel momento di fatto sotto sequestro, anche se ancora non lo sanno. Il resto dell’equipaggio del Natalino e dell’Anna Madre, insieme ad altri pescherecci che erano nei paraggi, riesce a mettersi in fuga. Sono ore concitate, rievoca Marco Marrone, armatore 39enne del Medinea che ha ereditato dal padre le redini dell’attività.
L'intervento della marina e il caso geopolitico
Sono proprio i pescherecci riusciti a scappare a lanciare l’allarme a terra. Vengono avvisate le Capitanerie di Porto, poi Roma. Poche ore dopo iniziano i primi contatti con la Marina militare. Da cui in una prima telefonata, spiega Marrone, arriva l’assicurazione che gli elicotteri sono già in volo e che in poche ore l’emergenza rientrerà. Tanto che Marrone, in una comunicazione via radar con il Medinea, suggerisce di allargare la rotta verso nord, in modo da temporeggiare in attesa dell’intervento. Ma poche ore dopo, intorno alle 3 di notte emerge invece da una seconda telefonata con la Marina che non è possibile intervenire perché, riferisce Marrone, “ormai è diventato un caso diplomatico”. A 40 miglia dalle coste libiche 18 semplicissime vite di marittimi italiani, tunisini e indonesiani hanno incrociato qualcosa di molto più grande e complesso: la geopolitica. Talmente complesso che, 100 giorni dopo, nessuno sembra avere una vaga idea del possibile esito di questa vicenda.
Il peschereccio Medinea
Chi comanda in quello specchio d'acqua?
Chi ha l’autorità su quello specchio d’acqua è una domanda fondamentale, se non per sciogliere il nodo di questo groviglio, quanto meno per trovare il bandolo della matassa. La Libia rivendica unilateralmente dal 2005 la qualifica per quell’area di Zona Economica Esclusiva, cioè quella dove un Paese ha diritto esclusivo di sfruttare le risorse, che comprende le 62 miglia oltre le 12 delle acque territoriali - dunque anche le 40 miglia dove si trovavano i pescherecci italiani. Ma nessuna autorità internazionale ha mai accordato tale riconoscimento. E dunque, oltre le 12 miglia delle acque territoriali (circa 22 chilometri), lo Stato più vicino ha solo il diritto/dovere di controllare che le navi di passaggio non commettano reati. Nei giorni successivi al sequestro dei pescatori un funzionario delle milizie di Khalifa Haftar aveva detto all’Agenzia Nova che i pescherecci avevano violato la (autoproclamata) Zee libica: nessuna accusa formale nei confronti dei pescatori, attualmente bloccati a el Kuefia, a 15 chilometri a sudest di Bengasi, è però mai stata formalizzata. Anzi, una udienza inizialmente annunciata per lo scorso 21 ottobre non si è mai tenuta. A farla saltare, forse, la diplomazia che nel più stretto riserbo sta lavorando da settimane a questo caso.
La partita diplomatica
Che sia una partita diplomatica complessa lo conferma Arturo Varvelli, ricercatore Ispi specializzato in politica interna ed estera della Libia e in particolare dei rapporti Italia-Libia, oltre che Senior Policy Fellow per lo European Council on Foreign Relations. “Haftar sta facendo una prova di forza”, spiega, per ribadire e far pesare il proprio potere nella bilancia dei rapporti con gli altri Paesi, specie quelli che, come l’Italia, hanno avallato e contribuito alla nascita del concorrente di Haftar, vale a dire il governo ufficiale di Tripoli guidato da Fayez al Serraj. Stabilire che cosa in concreto il generale della Cirenaica possa pretendere “è molto difficile” prosegue Varvelli. Tra le ipotesi che erano circolate c’è quella dello scambio di prigionieri: Haftar potrebbe richiedere la liberazione di quattro cittadini libici che sono stati condannati in Italia a 30 anni perché scafisti. Ma se la pretesa da parte libica sarebbe plausibile, è impossibile che possa essere accordata, soprattutto per la palese disparità tra le situazioni: vorrebbe dire, sottolinea Varvelli, “mettere sulle stesso piano persone già passate in giudicato con persone che non si sa ancora neppure bene di cosa siano accusate”.
L’Italia finora ha tenuto un profilo basso sperando che il poco fragore a livello internazionale portasse a una soluzione abbastanza rapida, ma la strategia, osserva Varvelli, non pare stia funzionando.
I rapporti Italia-Libia
È già accaduto in passato che marittimi italiani fosse sequestrati per qualche ora, qualche giorno, settimane. Ma di precedenti così lunghi negli ultimi 30 anni non si ha traccia.
E chiaramente il fatto che il paese sia diviso non aiuta. “L’Italia - analizza Varvelli - ha sempre avuto una posizione molto favorevole al governo di Tripoli. Poi quando abbiamo visto che Haftar si rafforzava abbiamo preso una posizione di equidistanza che si è trasformata in una politica molto ambigua, che mostra ora tutte le sue debolezze: non siamo più amici di Haftar, come la Francia o la Russia, e intanto il governo di unità nazionale che risiede a Tripoli ha iniziato a guardare altrove per avere una protezione internazionale - che gli è stata offerta dai turchi -, quindi abbiamo perso anche quella leva”.
Una delle vie diplomatiche per sbloccare la situazione potrebbe essere quella egiziana. Una moral suasion da parte del Cairo è plausibile, spiega Varvelli, sebbene anche i rapporti dell’Italia con quest’ultimo Paese siano complessi: da un lato ci sono grosse aziende italiane che operano lì (Eni, Fincantieri), dall’altra c’è il nervo scopertissimo del caso Regeni. La domanda sullo sfondo è sempre quella: quanto e come trattare con questi regimi? Difficile che, in attesa della risposta, i 18 pescatori riescano a tornare a casa entro Natale.
https://tg24.sky.it/palermo/2020/12/...ati-100-giorni
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