Perché non stiamo vincendo la guerra economica con Putin (ma non finisce qui)
[...] il tentativo delle democrazie di piegare la Russia, isolandola sul piano commerciale e finanziario, non è riuscito. Putin inizia a vedere nuovi segni della nostra vulnerabilità e del nostro opportunismo, che devono farlo ben sperare in cuor suo.
[...]malgrado tutti gli annunci e i buoni propositi, i Paesi dell’Unione europea non avevano mai importato tanto gas russo dal viadotto Turkstream (attraverso la Turchia) come stanno facendo dall’estate di quest’anno. Certo, nel complesso stiamo importando molto meno gas russo rispetto a prima della guerra: 500 milioni di metri cubi alla settimana, contro 1.700 milioni all’inizio del 2022, prima della guerra e oltre tremila del 2021. Anche perché Gazprom non ce lo vende più molto facilmente. Ma ad esempio le quantità di gas naturale liquefatto che stiamo comprando dalla Russia – come osserva Simone Tagliapietra di Bruegel – sono ormai tornate ai livelli prebellici, dopo una lieve flessione. Questi sono segni di una profonda insicurezza europea legata al timore di ripiombare in crisi energetica e a Putin possono essere sfuggiti. Non appena ne avrà l’occasione, cercherà nuovamente di manipolare le nostre paure.
Né è sfuggito a Putin che non solo il “tetto al prezzo” sul petrolio russo indicato dal G7 non sta funzionando, ma per ora lui stesso riesce a manipolare le quotazioni del barile grazie a una convergenza di interessi con l’autocrate di Riad Mohammed bin Salman. I due hanno alle spalle i due principali Paesi produttori di greggio al mondo e il loro annuncio coordinato in luglio di un taglio di produzione, esteso poi il mese scorso fino alla fine dell’anno, ha fanno salire il prezzo del barile del 30% in tre mesi, fino quasi a cento dollari. Putin deve avere in questo momento la sensazione inebriante che controlla un ingrediente essenziale della nostra inflazione, con tutte le contraddizioni che essa è in grado di mettere a nudo nelle economie europee. Di certo, malgrado il “tetto al prezzo” a 60 dollari al barile, il petrolio russo si sta vendendo in questa fase a 83 dollari (più 50% dalla fine di giugno). Lo sconto rispetto al Brent è diminuito perché i principali compratori – nell’ordine India, Cina e Turchia, nel mese di agosto – non percepiscono più alcun rischio nel rivolgersi ai fornitori russi. Le entrate di Mosca da greggio sono certo sotto a quelle di prima della guerra, ma negli ultimi tre mesi non hanno fatto che salire.
Anche nel mercato del grano, esente dalle sanzioni come tutta la filiera alimentare, si notano tendenze simili. Putin a denunciato l’accordo sull’export dai porti ucraini, la Polonia si è coperta di disonore impedendo l’export dal Paese vicino e intanto la Russia, in questi anni, ha sostanzialmente rubato le quote di mercato dell’Ucraina per diventare la superpotenza mondiale in questa derrata fondamentale. Uno studio del centro studi Divulga, basato su dati del dipartimento dell’Agricoltura americano, è chiaro in proposito. L’export di grano russo salirà del 36% nel 2022-2023 a 45 milioni di tonnellate (grafico sopra), di gran lunga la quota più alta al mondo e il record per il Paese. Le aree coltivate e la produzione sono aumentate e i principali clienti sono Paesi emergenti dal significato strategico per noi europei: Turchia e Egitto. Nel frattempo la produzione e l’export ucraino sono fatalmente scesi. Se si aggiunge che intanto la Cina ha accumulato il 53% delle scorte mondiali di grano, anche qui la conclusione è come sopra: il prezzo della derrata è più che dimezzato dall’inizio della guerra, tornando a livelli fisiologici, ma Putin deve avere fiducia di poter controllare con un altro suo alleato – questa volta l’autocrate di Pechino Xi Jinping – un altro fattore essenziale dell’inflazione in Europa.
Putin dev’essersi convinto di poterci ancora ricattare. Ci vede deboli, indecisi, opportunisti, soprattutto privi di una strategia. Del resto anche il mercato dell’acciaio rivela aspetti simili. Qui le sanzioni esistono e la Russia ha perso quote di mercato mondiale, benché molto meno dell’Ucraina. Ma per esempio nelle bramme – pezzi semilavorati utilizzati in siderurgia, che valgono un decimo del mercato mondiale – il suo export è rimasto stabile e quello verso l’Italia è salito del 56% l’anno scorso e di nuovo dell’8% quest’anno. (Dati dell’International Steel Statistics Bureau).
Putin, insieme a Xi Jinping, Mohammed bin Salman, all’autoritario premier indiano Narendra Modi e all’autocrate turco Recep Tayyip Erdogan, vuole dimostrare che noi occidentali abbiamo perso il controllo di alcuni canali vitali dell’economia internazionale. L’uomo del Cremlino in particolare vuole dimostrare che può ancora mettere in difficoltà l’Europa con la sua guerra economica asimmetrica, che può ancora far esplodere le nostre contraddizioni: la Polonia contro l’Ucraina sul grano, la rivolta al fronte filo-Kiev che si estende alla Slovacchia, il governo italiano contro la Banca centrale europea che reagisce a un’inflazione innescata dallo choc energetico della guerra, i timori sul debito per l’aumento dei tassi di mercato. E così via.
Anche questa sarà una lunga guerra. Come quella, più tragica, che si combatte in Ucraina. Gli autocrati del mondo emergente hanno molti dissidi fra loro, ma almeno una strategia in comune: vogliono svelare le nostre debolezze e, se possibile, la nostra avidità. Noi europei invece non ci stiamo preparando per una guerra economica lunga e non abbiamo veramente una strategia. Forse sarebbe il caso di darcene una.
CorSera-Federico Fubini
[...] il tentativo delle democrazie di piegare la Russia, isolandola sul piano commerciale e finanziario, non è riuscito. Putin inizia a vedere nuovi segni della nostra vulnerabilità e del nostro opportunismo, che devono farlo ben sperare in cuor suo.
[...]malgrado tutti gli annunci e i buoni propositi, i Paesi dell’Unione europea non avevano mai importato tanto gas russo dal viadotto Turkstream (attraverso la Turchia) come stanno facendo dall’estate di quest’anno. Certo, nel complesso stiamo importando molto meno gas russo rispetto a prima della guerra: 500 milioni di metri cubi alla settimana, contro 1.700 milioni all’inizio del 2022, prima della guerra e oltre tremila del 2021. Anche perché Gazprom non ce lo vende più molto facilmente. Ma ad esempio le quantità di gas naturale liquefatto che stiamo comprando dalla Russia – come osserva Simone Tagliapietra di Bruegel – sono ormai tornate ai livelli prebellici, dopo una lieve flessione. Questi sono segni di una profonda insicurezza europea legata al timore di ripiombare in crisi energetica e a Putin possono essere sfuggiti. Non appena ne avrà l’occasione, cercherà nuovamente di manipolare le nostre paure.
Né è sfuggito a Putin che non solo il “tetto al prezzo” sul petrolio russo indicato dal G7 non sta funzionando, ma per ora lui stesso riesce a manipolare le quotazioni del barile grazie a una convergenza di interessi con l’autocrate di Riad Mohammed bin Salman. I due hanno alle spalle i due principali Paesi produttori di greggio al mondo e il loro annuncio coordinato in luglio di un taglio di produzione, esteso poi il mese scorso fino alla fine dell’anno, ha fanno salire il prezzo del barile del 30% in tre mesi, fino quasi a cento dollari. Putin deve avere in questo momento la sensazione inebriante che controlla un ingrediente essenziale della nostra inflazione, con tutte le contraddizioni che essa è in grado di mettere a nudo nelle economie europee. Di certo, malgrado il “tetto al prezzo” a 60 dollari al barile, il petrolio russo si sta vendendo in questa fase a 83 dollari (più 50% dalla fine di giugno). Lo sconto rispetto al Brent è diminuito perché i principali compratori – nell’ordine India, Cina e Turchia, nel mese di agosto – non percepiscono più alcun rischio nel rivolgersi ai fornitori russi. Le entrate di Mosca da greggio sono certo sotto a quelle di prima della guerra, ma negli ultimi tre mesi non hanno fatto che salire.
Anche nel mercato del grano, esente dalle sanzioni come tutta la filiera alimentare, si notano tendenze simili. Putin a denunciato l’accordo sull’export dai porti ucraini, la Polonia si è coperta di disonore impedendo l’export dal Paese vicino e intanto la Russia, in questi anni, ha sostanzialmente rubato le quote di mercato dell’Ucraina per diventare la superpotenza mondiale in questa derrata fondamentale. Uno studio del centro studi Divulga, basato su dati del dipartimento dell’Agricoltura americano, è chiaro in proposito. L’export di grano russo salirà del 36% nel 2022-2023 a 45 milioni di tonnellate (grafico sopra), di gran lunga la quota più alta al mondo e il record per il Paese. Le aree coltivate e la produzione sono aumentate e i principali clienti sono Paesi emergenti dal significato strategico per noi europei: Turchia e Egitto. Nel frattempo la produzione e l’export ucraino sono fatalmente scesi. Se si aggiunge che intanto la Cina ha accumulato il 53% delle scorte mondiali di grano, anche qui la conclusione è come sopra: il prezzo della derrata è più che dimezzato dall’inizio della guerra, tornando a livelli fisiologici, ma Putin deve avere fiducia di poter controllare con un altro suo alleato – questa volta l’autocrate di Pechino Xi Jinping – un altro fattore essenziale dell’inflazione in Europa.
Putin dev’essersi convinto di poterci ancora ricattare. Ci vede deboli, indecisi, opportunisti, soprattutto privi di una strategia. Del resto anche il mercato dell’acciaio rivela aspetti simili. Qui le sanzioni esistono e la Russia ha perso quote di mercato mondiale, benché molto meno dell’Ucraina. Ma per esempio nelle bramme – pezzi semilavorati utilizzati in siderurgia, che valgono un decimo del mercato mondiale – il suo export è rimasto stabile e quello verso l’Italia è salito del 56% l’anno scorso e di nuovo dell’8% quest’anno. (Dati dell’International Steel Statistics Bureau).
Putin, insieme a Xi Jinping, Mohammed bin Salman, all’autoritario premier indiano Narendra Modi e all’autocrate turco Recep Tayyip Erdogan, vuole dimostrare che noi occidentali abbiamo perso il controllo di alcuni canali vitali dell’economia internazionale. L’uomo del Cremlino in particolare vuole dimostrare che può ancora mettere in difficoltà l’Europa con la sua guerra economica asimmetrica, che può ancora far esplodere le nostre contraddizioni: la Polonia contro l’Ucraina sul grano, la rivolta al fronte filo-Kiev che si estende alla Slovacchia, il governo italiano contro la Banca centrale europea che reagisce a un’inflazione innescata dallo choc energetico della guerra, i timori sul debito per l’aumento dei tassi di mercato. E così via.
Anche questa sarà una lunga guerra. Come quella, più tragica, che si combatte in Ucraina. Gli autocrati del mondo emergente hanno molti dissidi fra loro, ma almeno una strategia in comune: vogliono svelare le nostre debolezze e, se possibile, la nostra avidità. Noi europei invece non ci stiamo preparando per una guerra economica lunga e non abbiamo veramente una strategia. Forse sarebbe il caso di darcene una.
CorSera-Federico Fubini
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