Gli ucraini in trincea a Bakhmut sparano con vecchi mortai italiani: «Non avanziamo da giugno»
Kiev chiede munizioni, ma non ha ancora inviato al fronte gli aiuti Nato
Sono necessari almeno una decina di minuti per approntare il sistema del mortaio italiano da 120 millimetri, modello 1963. La richiesta che giunge dalle fanterie nelle trincee circa tre chilometri più avanti è di «sparare in fretta, perché i russi stanno attaccando».
Il colonnello Serhii Iandulski, 37 anni, comandante del Primo battaglione della Decima Brigata di fanteria meccanizzata di stanza nel settore a nord di Bakhmut verso la cittadina contesa di Soledar, grazie alle immagini inviate di continuo dalle telecamere montate su due piccoli droni Mavic-3, mezz’ora fa aveva scorto l’arrivo di tre blindati da cui erano smontati un centinaio di commando nemici che subito hanno iniziato ad avanzare.
Dai video in diretta paiono truppe scelte, si muovono agili, veloci, ben sparpagliate tra i campi di grano incolti da oltre un anno e le macchie d’alberi. Gli ucraini prima hanno risposto con l’artiglieria, ma ormai i russi sono giunti a ridosso delle loro trincee, occorre difendersi con i soldati sul posto e i mortai, che sono fatti specificamente per la guerra ravvicinata.
Dalla postazione vicino al vecchio terrapieno della tratta ferroviaria Bakhmut-Lysychansk udiamo ben netti il crepitio delle mitragliatrici leggere e gli scoppi delle bombe a mano. I russi sanno che gli ucraini sono posizionati nei tunnel di pietre e cemento di cui è costellato il terrapieno.
Più volte hanno provato a centrarli anche con i missili teleguidati sparati dagli aerei: una decina di giorni fa hanno mancato l’obiettivo per pochi metri, come testimonia il profondo cratere vicino all’imboccatura. L’ordine è dunque di uscire allo scoperto giusto il tempo necessario per piazzare l’arma, mirare e sparare.
I soldati utilizzano per primo un mortaio iraniano di contrabbando: parrebbe di costruzione recente, molto simile ai modelli Nato di ultima generazione. Ma, dopo un colpo, il treppiede non regge: lo sostituiscono con l’italiano, che, nonostante l’obsolescenza del sistema di puntamento, sembra rispondere alle aspettative. Via radio chiedono che continuino a sparare, fornendo le coordinate aggiornate.
Tornati nel tunnel-rifugio vediamo subito le pigne delle cassette di proiettili, un buon numero sono italiani, quasi tutti bossoli usati, accanto a francesi e americani. «Ai nostri alleati in questo momento chiediamo soprattutto munizioni. I russi ne hanno tantissime, noi molte di meno», spiegano gli artiglieri. Stando con loro in questo che è uno dei settori più caldi dei circa 2.000 chilometri del fronte di guerra iniziamo a farci un’idea dell’andamento della tanto attesa controffensiva ucraina, che era già stata annunciata in gennaio ed è faticosamente iniziata ai primi di giugno.
Lo stesso presidente Zelensky negli ultimi giorni ha ammesso cheva «più lenta del previsto». Ad oggi gli ucraini hanno liberato una decina di villaggi e un’estensione di territorio complessivamente pari a circa 180 chilometri quadrati, specie nelle zone prospicenti Zaporizhzhia e nel Donbass nel settore di Donetsk. Qui nel saliente di Bakhmut hanno ricacciato indietro le avanguardie russe, che stavano bloccando la strada per Chasiv Yar, ma la cittadina dove si era distinta la milizia mercenaria Wagner resta quasi del tutto in mano all’esercito russo, che ne aveva preso il posto già in maggio.
«La verità è che non ci aspettavamo una reazione tanto forte dei russi. Sono molto ben trincerati, hanno avuto oltre un anno per farlo. I loro campi minati sono immensi. Noi siamo molto più motivati, abbiamo soldati meglio addestrati e armi Nato di qualità superiore, ma se non vogliamo subire troppe perdite necessitiamo di munizioni, almeno il doppio di quelle che possediamo al momento. In queste circostanze, ogni avanzata va preceduta e costantemente accompagnata da intensi tiri di artiglieria che ne aprono la strada. I nostri ritardi sono dovuti al fatto che stiamo ancora aspettando di riempire gli arsenali prima di sferrare le spallate decisive: ecco il motivo per cui lo Stato maggiore ancora non sta impiegando i circa 50.000 uomini inquadrati nelle nove brigate formate con la Nato proprio per lanciare l’offensiva che ci permetterà di liberare le terre occupate dai russi», ci diceva tre giorni fa a Kramatorsk un alto ufficiale dell’intelligence militare.
Nel suo bunker sulle prime linee il colonnello Iandulski conferma che i suoi uomini non sono avanzati di un metro da giugno e neppure hanno ricevuto alcuna arma nuova di quelle inviate dalla Nato. Lui, come tanti, per un attimo due settimane fa aveva sperato che il golpe a Mosca potesse «subito porre fine alla guerra». Ma è stata soltanto l’illusione di un pomeriggio. Spiega: «Nulla cambia con la sparizione della Wagner. L’esercito regolare russo ha preso il suo posto senza grossi problemi. Per noi la guerra continua, siamo certi che vinceremo, ma ci vorrà ancora tempo».
CorSera
Kiev chiede munizioni, ma non ha ancora inviato al fronte gli aiuti Nato
Sono necessari almeno una decina di minuti per approntare il sistema del mortaio italiano da 120 millimetri, modello 1963. La richiesta che giunge dalle fanterie nelle trincee circa tre chilometri più avanti è di «sparare in fretta, perché i russi stanno attaccando».
Il colonnello Serhii Iandulski, 37 anni, comandante del Primo battaglione della Decima Brigata di fanteria meccanizzata di stanza nel settore a nord di Bakhmut verso la cittadina contesa di Soledar, grazie alle immagini inviate di continuo dalle telecamere montate su due piccoli droni Mavic-3, mezz’ora fa aveva scorto l’arrivo di tre blindati da cui erano smontati un centinaio di commando nemici che subito hanno iniziato ad avanzare.
Dai video in diretta paiono truppe scelte, si muovono agili, veloci, ben sparpagliate tra i campi di grano incolti da oltre un anno e le macchie d’alberi. Gli ucraini prima hanno risposto con l’artiglieria, ma ormai i russi sono giunti a ridosso delle loro trincee, occorre difendersi con i soldati sul posto e i mortai, che sono fatti specificamente per la guerra ravvicinata.
Dalla postazione vicino al vecchio terrapieno della tratta ferroviaria Bakhmut-Lysychansk udiamo ben netti il crepitio delle mitragliatrici leggere e gli scoppi delle bombe a mano. I russi sanno che gli ucraini sono posizionati nei tunnel di pietre e cemento di cui è costellato il terrapieno.
Più volte hanno provato a centrarli anche con i missili teleguidati sparati dagli aerei: una decina di giorni fa hanno mancato l’obiettivo per pochi metri, come testimonia il profondo cratere vicino all’imboccatura. L’ordine è dunque di uscire allo scoperto giusto il tempo necessario per piazzare l’arma, mirare e sparare.
I soldati utilizzano per primo un mortaio iraniano di contrabbando: parrebbe di costruzione recente, molto simile ai modelli Nato di ultima generazione. Ma, dopo un colpo, il treppiede non regge: lo sostituiscono con l’italiano, che, nonostante l’obsolescenza del sistema di puntamento, sembra rispondere alle aspettative. Via radio chiedono che continuino a sparare, fornendo le coordinate aggiornate.
Tornati nel tunnel-rifugio vediamo subito le pigne delle cassette di proiettili, un buon numero sono italiani, quasi tutti bossoli usati, accanto a francesi e americani. «Ai nostri alleati in questo momento chiediamo soprattutto munizioni. I russi ne hanno tantissime, noi molte di meno», spiegano gli artiglieri. Stando con loro in questo che è uno dei settori più caldi dei circa 2.000 chilometri del fronte di guerra iniziamo a farci un’idea dell’andamento della tanto attesa controffensiva ucraina, che era già stata annunciata in gennaio ed è faticosamente iniziata ai primi di giugno.
Lo stesso presidente Zelensky negli ultimi giorni ha ammesso cheva «più lenta del previsto». Ad oggi gli ucraini hanno liberato una decina di villaggi e un’estensione di territorio complessivamente pari a circa 180 chilometri quadrati, specie nelle zone prospicenti Zaporizhzhia e nel Donbass nel settore di Donetsk. Qui nel saliente di Bakhmut hanno ricacciato indietro le avanguardie russe, che stavano bloccando la strada per Chasiv Yar, ma la cittadina dove si era distinta la milizia mercenaria Wagner resta quasi del tutto in mano all’esercito russo, che ne aveva preso il posto già in maggio.
«La verità è che non ci aspettavamo una reazione tanto forte dei russi. Sono molto ben trincerati, hanno avuto oltre un anno per farlo. I loro campi minati sono immensi. Noi siamo molto più motivati, abbiamo soldati meglio addestrati e armi Nato di qualità superiore, ma se non vogliamo subire troppe perdite necessitiamo di munizioni, almeno il doppio di quelle che possediamo al momento. In queste circostanze, ogni avanzata va preceduta e costantemente accompagnata da intensi tiri di artiglieria che ne aprono la strada. I nostri ritardi sono dovuti al fatto che stiamo ancora aspettando di riempire gli arsenali prima di sferrare le spallate decisive: ecco il motivo per cui lo Stato maggiore ancora non sta impiegando i circa 50.000 uomini inquadrati nelle nove brigate formate con la Nato proprio per lanciare l’offensiva che ci permetterà di liberare le terre occupate dai russi», ci diceva tre giorni fa a Kramatorsk un alto ufficiale dell’intelligence militare.
Nel suo bunker sulle prime linee il colonnello Iandulski conferma che i suoi uomini non sono avanzati di un metro da giugno e neppure hanno ricevuto alcuna arma nuova di quelle inviate dalla Nato. Lui, come tanti, per un attimo due settimane fa aveva sperato che il golpe a Mosca potesse «subito porre fine alla guerra». Ma è stata soltanto l’illusione di un pomeriggio. Spiega: «Nulla cambia con la sparizione della Wagner. L’esercito regolare russo ha preso il suo posto senza grossi problemi. Per noi la guerra continua, siamo certi che vinceremo, ma ci vorrà ancora tempo».
CorSera
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