Quanto resisterà Putin? Perché ora tutto è davvero possibile, in Russia
Mai nessuno aveva osato sfidarlo in questo modo, non è stato lui a dettare le mosse per risolvere la crisi. È vero che nelle élite civili nessuno ha scelto di unirsi ai ribelli. Ma il potere di Putin non appare più così monolitico come sembrava finora.
La strada senza ritorno scelta da Evghenij Prigozhin segna l’inizio di una nuova fase della Russia, all’insegna di una maggiore instabilità. L’insurrezione armata decisa dal fondatore della Brigata Wagner, spesso descritta per brevità di sintesi come una milizia di mercenari, in realtà una colonna portante dell’Operazione militare speciale decisa da Vladimir Putin, rappresenta un segnale ben preciso. Mai nessuno aveva sfidato lo Zar in modo così esplicito. E mai nessuno ne era uscito ottenendo così tanto da lui. Un pareggio, se non una vittoria morale. Quel che davvero è accaduto in questa giornata così drammatica è segnato ancora da una notevole ambiguità. L’unico obiettivo degli strali lanciati dall’ex uomo di fiducia erano i vertici dell’Armata russa, dei quali ancora non ci capisce ancora bene quale sarà il destino. Anche nelle ore più concitate, Prigozhin si era ben guardato dal lanciare un attacco verbale diretto al Cremlino. Appare evidente però che l’esito di questa resa dei conti è girato intorno alla figura di Putin, alla sua capacità di mantenere un potere che fino alla notte scorsa sembrava inscalfibile.
L’appello
Nel suo appello alla nazione, avvenuto esattamente sedici mesi dopo un altro discorso dai toni più trionfali che annunciava l’invasione dell’Ucraina, il presidente russo è apparso consapevole dell’entità della posta in gioco. In primo luogo, ha riconosciuto l’esistenza della minaccia, e non era scontato che lo facesse, invitando i soldati della Wagner e chiunque stia combattendo al fronte, «a non commettere l’errore fatale» di unirsi a lui.
Il secolo sovietico
Forse, più del riferimento al fatale 1917 che segnò il destino della storia russa proiettandola nel secolo sovietico, è stato questo passaggio a testimoniare il fatto che non eravamo davanti a un tentato golpe da operetta. È stata una sfida seria, della quale per la prima volta da quando è presidente, Putin non è apparso in pieno controllo, come dimostra anche il mistero sulla sua presenza al Cremlino, la sua presunta sparizione, le voci poi smentite che lo davano su un aereo diretto nella più sicura San Pietroburgo. Non è stato lui a dettare l’agenda degli eventi. Non è stato lui a deciderne la conclusione, avvenuta con la mediazione del presidente bielorusso Lukashenko.
L’appello alla nazione
È stata anche la prima volta in cui Putin ha dovuto fare un altro appello, quello all’unità della nazione. In precedenza, non ne aveva mai avuto bisogno. Prigozhin era consapevole del fatto che per lui non ci sarebbe stato un futuro, neppure alla fine della guerra. La misura era colma ormai da troppi mesi, la corda si sarebbe spezzata.
Ha deciso di farlo lui. Con i suoi fedelissimi, si è lanciato in una marcia su Mosca che è solo uno dei tanti eventi estremi che hanno caratterizzato le vicende della Russia. I ribelli non avevano alcun alleato all’interno del potere putiniano. Non disponevano di nessuna quinta colonna, solo della loro forza militare, che non va comunque sottovalutata. È anche lecito chiedersi cosa sappia lui della situazione bellica che il resto del mondo non conosce, per averlo portato a un simile gesto di ribellione.
La reazione
All’inizio, Putin ha risposto in modo duro, come sempre. Muro contro muro, nessuna concessione. Il presidente sapeva bene di non poter apparire debole agli occhi della nazione, la sua forza è uno degli elementi fondanti del patto che lo lega alla Russia più profonda. Se esita, se appare titubante, se cerca di mediare in momenti che sembrano segnare un crocevia, non è più un vero Zar, con la maiuscola. Conosce la storia, anche se la interpreta a modo suo. L’anima russa non ammette dubbi in chi la guida. Fu l’assenza di leadership che risultò fatale a Michail Gorbaciov, condannandolo a una damnatio memoriae da parte del suo popolo che ancora perdura.
Le porte di Mosca
Ieri, il Cremlino non ha avuto scelta. Ma questo non ha fermato la marcia quasi irridente di Prigozhin, che stava per arrivare alle porte di Mosca. La forza di Putin non è stata sufficiente, non lo ha schiacciato. Non è ancora finita, certo, e pochi conoscono quale sarà l’esito dell’esilio al quale si è auto-assegnato il fondatore della Brigata Wagner. Ma è stato lui a imporre una trattativa. È stato lui a decidere che non ci sarebbe stato il bagno di sangue. Non Putin.
L’illusione occidentale
Questo tentativo di colpo militare non aveva nulla a che vedere con l’illusione occidentale di liberarsi per vie interne di Putin e di arrivare alla fine delle ostilità sfruttando un vento traumatico come questo. Prigozhin è un ultranazionalista, i suoi attacchi ai vertici militari sono quelli di un falco estremista, che rimprovera alle autorità una eccessiva morbidezza sul campo di battaglia.
Cosa pensa di chi anela alla pace lo ha detto più volte nei suoi deliranti messaggi, spesso brandendo un martello macchiato del sangue dei suoi disertori. Le élite civili e militari si sono schierate con Putin. Per fedeltà, per convenienza, e perché l’alternativa non esisteva. Il fondatore della Wagner è un cavaliere dell’Apocalisse che porterebbe la Russia, e forse il mondo, in un caos ancora più pericoloso di quello attuale. Ma la sua marcia su Mosca è stata un segnale che può davvero cambiare il corso della storia. Perché ha rappresentato qualcosa di inimmaginabile finora. Il potere di Putin non appare più così monolitico come sembrava fosse finora. La statua dello Zar mostra alcune crepe evidenti. L’insurrezione è finita. Ma dalla scorsa notte, tutto è possibile in Russia.
CorSera
Mai nessuno aveva osato sfidarlo in questo modo, non è stato lui a dettare le mosse per risolvere la crisi. È vero che nelle élite civili nessuno ha scelto di unirsi ai ribelli. Ma il potere di Putin non appare più così monolitico come sembrava finora.
La strada senza ritorno scelta da Evghenij Prigozhin segna l’inizio di una nuova fase della Russia, all’insegna di una maggiore instabilità. L’insurrezione armata decisa dal fondatore della Brigata Wagner, spesso descritta per brevità di sintesi come una milizia di mercenari, in realtà una colonna portante dell’Operazione militare speciale decisa da Vladimir Putin, rappresenta un segnale ben preciso. Mai nessuno aveva sfidato lo Zar in modo così esplicito. E mai nessuno ne era uscito ottenendo così tanto da lui. Un pareggio, se non una vittoria morale. Quel che davvero è accaduto in questa giornata così drammatica è segnato ancora da una notevole ambiguità. L’unico obiettivo degli strali lanciati dall’ex uomo di fiducia erano i vertici dell’Armata russa, dei quali ancora non ci capisce ancora bene quale sarà il destino. Anche nelle ore più concitate, Prigozhin si era ben guardato dal lanciare un attacco verbale diretto al Cremlino. Appare evidente però che l’esito di questa resa dei conti è girato intorno alla figura di Putin, alla sua capacità di mantenere un potere che fino alla notte scorsa sembrava inscalfibile.
L’appello
Nel suo appello alla nazione, avvenuto esattamente sedici mesi dopo un altro discorso dai toni più trionfali che annunciava l’invasione dell’Ucraina, il presidente russo è apparso consapevole dell’entità della posta in gioco. In primo luogo, ha riconosciuto l’esistenza della minaccia, e non era scontato che lo facesse, invitando i soldati della Wagner e chiunque stia combattendo al fronte, «a non commettere l’errore fatale» di unirsi a lui.
Il secolo sovietico
Forse, più del riferimento al fatale 1917 che segnò il destino della storia russa proiettandola nel secolo sovietico, è stato questo passaggio a testimoniare il fatto che non eravamo davanti a un tentato golpe da operetta. È stata una sfida seria, della quale per la prima volta da quando è presidente, Putin non è apparso in pieno controllo, come dimostra anche il mistero sulla sua presenza al Cremlino, la sua presunta sparizione, le voci poi smentite che lo davano su un aereo diretto nella più sicura San Pietroburgo. Non è stato lui a dettare l’agenda degli eventi. Non è stato lui a deciderne la conclusione, avvenuta con la mediazione del presidente bielorusso Lukashenko.
L’appello alla nazione
È stata anche la prima volta in cui Putin ha dovuto fare un altro appello, quello all’unità della nazione. In precedenza, non ne aveva mai avuto bisogno. Prigozhin era consapevole del fatto che per lui non ci sarebbe stato un futuro, neppure alla fine della guerra. La misura era colma ormai da troppi mesi, la corda si sarebbe spezzata.
Ha deciso di farlo lui. Con i suoi fedelissimi, si è lanciato in una marcia su Mosca che è solo uno dei tanti eventi estremi che hanno caratterizzato le vicende della Russia. I ribelli non avevano alcun alleato all’interno del potere putiniano. Non disponevano di nessuna quinta colonna, solo della loro forza militare, che non va comunque sottovalutata. È anche lecito chiedersi cosa sappia lui della situazione bellica che il resto del mondo non conosce, per averlo portato a un simile gesto di ribellione.
La reazione
All’inizio, Putin ha risposto in modo duro, come sempre. Muro contro muro, nessuna concessione. Il presidente sapeva bene di non poter apparire debole agli occhi della nazione, la sua forza è uno degli elementi fondanti del patto che lo lega alla Russia più profonda. Se esita, se appare titubante, se cerca di mediare in momenti che sembrano segnare un crocevia, non è più un vero Zar, con la maiuscola. Conosce la storia, anche se la interpreta a modo suo. L’anima russa non ammette dubbi in chi la guida. Fu l’assenza di leadership che risultò fatale a Michail Gorbaciov, condannandolo a una damnatio memoriae da parte del suo popolo che ancora perdura.
Le porte di Mosca
Ieri, il Cremlino non ha avuto scelta. Ma questo non ha fermato la marcia quasi irridente di Prigozhin, che stava per arrivare alle porte di Mosca. La forza di Putin non è stata sufficiente, non lo ha schiacciato. Non è ancora finita, certo, e pochi conoscono quale sarà l’esito dell’esilio al quale si è auto-assegnato il fondatore della Brigata Wagner. Ma è stato lui a imporre una trattativa. È stato lui a decidere che non ci sarebbe stato il bagno di sangue. Non Putin.
L’illusione occidentale
Questo tentativo di colpo militare non aveva nulla a che vedere con l’illusione occidentale di liberarsi per vie interne di Putin e di arrivare alla fine delle ostilità sfruttando un vento traumatico come questo. Prigozhin è un ultranazionalista, i suoi attacchi ai vertici militari sono quelli di un falco estremista, che rimprovera alle autorità una eccessiva morbidezza sul campo di battaglia.
Cosa pensa di chi anela alla pace lo ha detto più volte nei suoi deliranti messaggi, spesso brandendo un martello macchiato del sangue dei suoi disertori. Le élite civili e militari si sono schierate con Putin. Per fedeltà, per convenienza, e perché l’alternativa non esisteva. Il fondatore della Wagner è un cavaliere dell’Apocalisse che porterebbe la Russia, e forse il mondo, in un caos ancora più pericoloso di quello attuale. Ma la sua marcia su Mosca è stata un segnale che può davvero cambiare il corso della storia. Perché ha rappresentato qualcosa di inimmaginabile finora. Il potere di Putin non appare più così monolitico come sembrava fosse finora. La statua dello Zar mostra alcune crepe evidenti. L’insurrezione è finita. Ma dalla scorsa notte, tutto è possibile in Russia.
CorSera
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