Netanyahu punta a rovesciare gli ayatollah
(Davide Frattini, da Gerusalemme) Con la voce arrochita avverte i giudici di non poter restare in tribunale: «Sono ammalato». Qualche ora dopo abbraccia in parlamento Javier Milei, il presidente argentino, e gli dice tra un sorriso e un colpo di tosse: «Ci stiamo infettando». Benjamin Netanyahu ha voluto trasmettere nelle ultime 48 ore prima dell’attacco un senso di normalità, quella pur disfunzionale di un primo ministro a processo per corruzione e in lotta per la sopravvivenza al potere: la giornata di mercoledì passata alla Knesset a salvare il governo dalla diserzione minacciata dai partiti ultraortodossi perché gli studenti delle scuole rabbiniche possano continuare a disertare il servizio militare obbligatorio.
Un bravo politico è anche un bravo attore. Lo aveva imparato dagli americani — master al Mit di Boston, ambasciatore alle Nazioni Unite — e lo ha importato una trentina di anni fa nella politica israeliana, per lui troppo provinciale, dove i primi ministri parlavano l’inglese con l’accento del sabra, la parola ebraica che significa fico d’India e indica i pionieri venuti su spinosi e coriacei come i cactus nel deserto. Il suo inglese è naturale, negli Stati Uniti ci è vissuto da ragazzino. Mentre ostenta «business as usual» — tra le aule, gli incontri e i video registrati in occhiali da sole con abito blu — Bibi già sa che la decisione è presa: l’ordine allo Stato Maggiore è stato dato lunedì, il raid a cui pensa dal 2009, da quando è tornato al potere e ci è rimasto, sta per avverarsi, i bombardieri sono pronti a decollare. Sempre lunedì parla per 40 minuti al telefono con Donald Trump, il presidente americano che considera un amico, è probabile gli annunci l’azzardo: Israele ha deciso di colpire il programma atomico anche da sola, senza il supporto degli Stati Uniti almeno nella fase offensiva.
Netanyahu è convinto — l’ha ribadito più volte — di avere l’opportunità di mutare il Medio Oriente, di arare la regione con i carrarmati e le bombe per veder crescere un nuovo paradigma. Ben Caspit — uno dei giornalisti più informati — racconta che ieri, a porte chiuse, il primo ministro era «euforico», come lo descrivono i consiglieri: «È esaltato dall’idea che lo scontro con l’Iran chiuda l’era dei conflitti. Che l’Arabia Saudita, il Libano, la Siria si uniscano agli accordi di Abramo». Nella notte del raid si è rivolto direttamente agli iraniani: «Non siete i nostri nemici, il nemico comune è il regime che vi schiaccia. Ribellatevi, fate sentire le vostre voci. Il nostro attacco mira al programma nucleare, ma vi sta anche aprendo la strada verso la libertà». Così gli analisti speculano che il primo ministro speri di dare una spallata al sistema di potere degli ayatollah, di indebolirli fino a cambiamenti interni.
Sedici anni fa il primo ministro più longevo nella storia di Israele aveva immaginato il blitz con Ehud Barak al ministero della Difesa, suo mentore come ai tempi nell’unità d’élite Sayeret Matkal. Sono d’accordo che sia ora di agire, vogliono impedire a Teheran di superare la soglia di non ritorno nella produzione di uranio arricchito da usare nella bomba. Sono d’accordo e sono gli unici a esserlo: Gabi Ashkenazi, il capo di Stato Maggiore, risponde che l’aviazione e le truppe in generale non sono pronte, arriva a sostenere che l’ordine di dar via ai preparativi dato dal primo ministro sia illegale perché manca una decisione formale di tutto il governo. Meir Dagan, il capo del Mossad, una volta andato in pensione commenta davanti alle telecamere della Cbs americana: «Colpire l’Iran era l’idea più stupida che avessi mai sentito». Soprattutto il presidente Barack Obama è già convinto che la soluzione sia negoziare con gli ayatollah. I piani restano nel cassetto e l’amicizia con Barack finisce nel cestino della carta straccia: il premier ha usato l’autobiografia per chiudere i conti con il comandante del passato, Barack lo considera ormai «un pericolo per la democrazia israeliana».
Appassionato lettore di Winston Churchill — i sei volumi di «La storia della seconda guerra mondiale» tenuti nell’ufficio a Gerusalemme dov’è entrato per la prima volta nel 1996 — Netanyahu si è sempre considerato l’unico leader capace di proteggere lo Stato ebraico, si è presentato — una campagna elettorale dietro l’altra — come Mr Sicurezza, un’immagine sui poster di propaganda stracciata il 7 ottobre del 2023, quando migliaia di terroristi palestinesi hanno invaso il sud del Paese all’alba, assaltato i villaggi attorno alla Striscia di Gaza, massacrato i giovani che a un rave danzavano alla prima luce del giorno, ucciso soldati sorpresi nel sonno, macellato i civili, anche donne e bambini.
L’operazione contro Teheran punta anche a cancellare dalla sua biografia quella tragedia per cui non si è mai preso la responsabilità. Vuol dimostrare la sua risolutezza contro un ritorno ai tempi bui per il popolo ebraico. Sull’«euforia» a porte chiuse resta la visione pessimista della guerra permanente (quella a Gaza va avanti da 19 mesi, i palestinesi uccisi oltre 55 mila), di una nazione sempre sotto assedio.
CorSera
(Davide Frattini, da Gerusalemme) Con la voce arrochita avverte i giudici di non poter restare in tribunale: «Sono ammalato». Qualche ora dopo abbraccia in parlamento Javier Milei, il presidente argentino, e gli dice tra un sorriso e un colpo di tosse: «Ci stiamo infettando». Benjamin Netanyahu ha voluto trasmettere nelle ultime 48 ore prima dell’attacco un senso di normalità, quella pur disfunzionale di un primo ministro a processo per corruzione e in lotta per la sopravvivenza al potere: la giornata di mercoledì passata alla Knesset a salvare il governo dalla diserzione minacciata dai partiti ultraortodossi perché gli studenti delle scuole rabbiniche possano continuare a disertare il servizio militare obbligatorio.
Un bravo politico è anche un bravo attore. Lo aveva imparato dagli americani — master al Mit di Boston, ambasciatore alle Nazioni Unite — e lo ha importato una trentina di anni fa nella politica israeliana, per lui troppo provinciale, dove i primi ministri parlavano l’inglese con l’accento del sabra, la parola ebraica che significa fico d’India e indica i pionieri venuti su spinosi e coriacei come i cactus nel deserto. Il suo inglese è naturale, negli Stati Uniti ci è vissuto da ragazzino. Mentre ostenta «business as usual» — tra le aule, gli incontri e i video registrati in occhiali da sole con abito blu — Bibi già sa che la decisione è presa: l’ordine allo Stato Maggiore è stato dato lunedì, il raid a cui pensa dal 2009, da quando è tornato al potere e ci è rimasto, sta per avverarsi, i bombardieri sono pronti a decollare. Sempre lunedì parla per 40 minuti al telefono con Donald Trump, il presidente americano che considera un amico, è probabile gli annunci l’azzardo: Israele ha deciso di colpire il programma atomico anche da sola, senza il supporto degli Stati Uniti almeno nella fase offensiva.
Netanyahu è convinto — l’ha ribadito più volte — di avere l’opportunità di mutare il Medio Oriente, di arare la regione con i carrarmati e le bombe per veder crescere un nuovo paradigma. Ben Caspit — uno dei giornalisti più informati — racconta che ieri, a porte chiuse, il primo ministro era «euforico», come lo descrivono i consiglieri: «È esaltato dall’idea che lo scontro con l’Iran chiuda l’era dei conflitti. Che l’Arabia Saudita, il Libano, la Siria si uniscano agli accordi di Abramo». Nella notte del raid si è rivolto direttamente agli iraniani: «Non siete i nostri nemici, il nemico comune è il regime che vi schiaccia. Ribellatevi, fate sentire le vostre voci. Il nostro attacco mira al programma nucleare, ma vi sta anche aprendo la strada verso la libertà». Così gli analisti speculano che il primo ministro speri di dare una spallata al sistema di potere degli ayatollah, di indebolirli fino a cambiamenti interni.
Sedici anni fa il primo ministro più longevo nella storia di Israele aveva immaginato il blitz con Ehud Barak al ministero della Difesa, suo mentore come ai tempi nell’unità d’élite Sayeret Matkal. Sono d’accordo che sia ora di agire, vogliono impedire a Teheran di superare la soglia di non ritorno nella produzione di uranio arricchito da usare nella bomba. Sono d’accordo e sono gli unici a esserlo: Gabi Ashkenazi, il capo di Stato Maggiore, risponde che l’aviazione e le truppe in generale non sono pronte, arriva a sostenere che l’ordine di dar via ai preparativi dato dal primo ministro sia illegale perché manca una decisione formale di tutto il governo. Meir Dagan, il capo del Mossad, una volta andato in pensione commenta davanti alle telecamere della Cbs americana: «Colpire l’Iran era l’idea più stupida che avessi mai sentito». Soprattutto il presidente Barack Obama è già convinto che la soluzione sia negoziare con gli ayatollah. I piani restano nel cassetto e l’amicizia con Barack finisce nel cestino della carta straccia: il premier ha usato l’autobiografia per chiudere i conti con il comandante del passato, Barack lo considera ormai «un pericolo per la democrazia israeliana».
Appassionato lettore di Winston Churchill — i sei volumi di «La storia della seconda guerra mondiale» tenuti nell’ufficio a Gerusalemme dov’è entrato per la prima volta nel 1996 — Netanyahu si è sempre considerato l’unico leader capace di proteggere lo Stato ebraico, si è presentato — una campagna elettorale dietro l’altra — come Mr Sicurezza, un’immagine sui poster di propaganda stracciata il 7 ottobre del 2023, quando migliaia di terroristi palestinesi hanno invaso il sud del Paese all’alba, assaltato i villaggi attorno alla Striscia di Gaza, massacrato i giovani che a un rave danzavano alla prima luce del giorno, ucciso soldati sorpresi nel sonno, macellato i civili, anche donne e bambini.
L’operazione contro Teheran punta anche a cancellare dalla sua biografia quella tragedia per cui non si è mai preso la responsabilità. Vuol dimostrare la sua risolutezza contro un ritorno ai tempi bui per il popolo ebraico. Sull’«euforia» a porte chiuse resta la visione pessimista della guerra permanente (quella a Gaza va avanti da 19 mesi, i palestinesi uccisi oltre 55 mila), di una nazione sempre sotto assedio.
CorSera
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