Democratici Usa: c'è chi pensa all'esilio (di cosa si parla queste sere a New York)
La paura di una deriva degli Stati Uniti e i rischi dietro l'angolo della nuova politica di Trump
di Federico Rampini
Dov’è finita l’opposizione a Donald Trump? In parte è viva e vegeta come nella miglior tradizione della democrazia americana: i contropoteri sono all’opera, la magistratura (Corte suprema inclusa) gli ha bocciato diversi provvedimenti; molti media denunciano e condannano tutto ciò che fa questa Amministrazione; il federalismo consente a Stati governati dalla sinistra di remare nella direzione opposta alla sua (su immigrazione, cambiamento climatico e altro ancora).
È meno visibile, e decisamente inefficace, l’opposizione intesa come partito: i democratici passano più tempo a litigare fra loro, non hanno digerito la sconfitta del novembre scorso, non hanno una chiara strategia per riconquistare consensi.
Forse anche perché una parte di loro sono occupati da tutt’altri pensieri. Primo: è il momento di decretare che l’America è diventata una dittatura fascista? Secondo: bisogna fare le valigie ed emigrare altrove?
Questo è il tenore della conversazione quotidiana in alcune parti del paese. Minoritarie, certo, ma influenti e visibili. Intellettuali, artisti, giornalisti e scrittori, gente di spettacolo: l’élite che spesso domina la sfera del discorso pubblico, scrive sui giornali, fa televisione e cinema. Ne so qualcosa: sono ambienti che frequento da sempre, anche per contiguità professionale, a New York e in California, i due Stati sulla East e West Coast dove ho vissuto e vivo, le due roccaforti storiche della sinistra americana.
Dopo una serie di cene con personaggi noti della scena letteraria e mediatica newyorchese, tra il Village e Soho, nell’Upper West Side o a Tribeca, posso raccontarvi la conversazione dominante. In una di queste cene la padrona di casa, una giovane donna che appartiene alla Jewish community, un’ebrea di sinistra e quindi anti-Netanyahu oltre che anti-Trump, mi ha dato questa sua sintesi efficace: «Tra amici abbiamo stabilito i tre criteri-chiave che ci diranno quando abbiamo smesso definitivamente di essere una democrazia, e siamo entrati in un regime fascista. Primo: quando cominceranno ad arrestare i giornalisti. Secondo: quando se la prenderanno con noi ebrei. Terzo: quando si capirà che quelle del 5 novembre sono state le ultime elezioni».
Ho provato a sollevare qualche dubbio e muovere delle obiezioni. Sulla museruola al giornalismo, per esempio. La stampa anti-trumpiana mi sembra più vivace che mai, il New York Times e la Cnn non hanno modificato di una virgola la loro linea politica. Forse, semmai, l’assenza di autocritica è il loro punto debole: uno tra i più celebri anchormen della Cnn, Jake Tapper, ha appena pubblicato un libro che è già un best-seller, dove racconta i retroscena della congiura omertosa con cui la sua rete tv e altri media progressisti nascosero al pubblico il declino psicofisico di Joe Biden (dopo l’inganno la beffa: quel libro non è un’autocritica, i diritti d’autore andranno a premiare uno dei colpevoli).
Un’altra obiezione che suggerisco alla padrona di casa riguarda l’antisemitismo. Fenomeno reale, gravissimo, in ascesa: però almeno in America le aggressioni contro gli ebrei sono venute dall’estrema sinistra, dagli attivisti pro-Hamas mobilitati durante le occupazioni dei campus universitari.
Ma l’atmosfera delle cene newyorchesi è questa: cupa, pessimista, allarmata. Sicché, dopo «i tre segnali che il fascismo è arrivato», l’altro tema di conversazione più frequente è l’auto-esilio. Molti di questi intellettuali che incontro nelle serate newyorchesi parlano di lasciare il loro paese e trasferirsi all’estero (definitivamente, o almeno fino al «ritorno della democrazia»). Alcuni hanno già dei piani precisi, date e luoghi.
Fra le destinazioni favorite di questo esodo c’è proprio il nostro paese. Non perché amino il governo Meloni, anzi quello sarebbe una controindicazione. Il fatto è che molti dei miei interlocutori hanno già il rifugio pronto: case di villeggiatura in Toscana o in Umbria, in Liguria o sul Lago di Como. L’altra destinazione favorita è la Francia: Parigi, Provenza e Costa Azzura. Stesso discorso: sanno bene che un giorno o l’altro pure la Francia potrebbe avere un governo di destra, però hanno già casa da quelle parti.
I miei amici letterati forse non si rendono conto che i discorsi sull’autoesilio confermano i peggiori pregiudizi contro le élite. L’operaio metalmeccanico del Michigan che ha votato per Trump, se mai venisse a conoscenza di quel che si dice nelle cene al Village, troverebbe la conferma che la sinistra ormai rappresenta soprattutto i privilegiati, quelli che si possono permettere il lusso di avere case di villeggiatura in Europa.
L’ex-immigrato latinoamericano o indiano, che ha votato Trump per difendere valori tradizionali e perché disapprova l’immigrazione illegale, si sentirebbe ancora più distante dalle élite del Village. Il reduce che ha indossato la divisa militare riconoscerebbe in questi discorsi la vena anti-patriottica, anti-americana, di chi è pronto ad abbandonare il proprio paese se non si sente rappresentato dal governo di turno.
A me invece tutto questo sa di déjà vu: sentii fare gli stessi discorsi nel dicembre 2000 quando vivevo a San Francisco e ci fu l’elezione «rubata dalla Corte suprema» (Bush-Gore), poi nella primavera 2003 quando Bush invase l’Iraq. Molti amici californiani vent’anni fa parlavano di lasciare l’America. Pochissimi lo hanno fatto davvero. Qualcuno si è trasferito in Florida, per pagare meno tasse in un paradiso fiscale governato dai repubblicani.
L’unica variante: allora era più in voga il Canada come destinazione, oggi forse sconsigliabile visti i propositi annessionistici di Trump…
https://www.corriere.it/oriente-occi...tml?refresh_ce
La paura di una deriva degli Stati Uniti e i rischi dietro l'angolo della nuova politica di Trump
di Federico Rampini
Dov’è finita l’opposizione a Donald Trump? In parte è viva e vegeta come nella miglior tradizione della democrazia americana: i contropoteri sono all’opera, la magistratura (Corte suprema inclusa) gli ha bocciato diversi provvedimenti; molti media denunciano e condannano tutto ciò che fa questa Amministrazione; il federalismo consente a Stati governati dalla sinistra di remare nella direzione opposta alla sua (su immigrazione, cambiamento climatico e altro ancora).
È meno visibile, e decisamente inefficace, l’opposizione intesa come partito: i democratici passano più tempo a litigare fra loro, non hanno digerito la sconfitta del novembre scorso, non hanno una chiara strategia per riconquistare consensi.
Forse anche perché una parte di loro sono occupati da tutt’altri pensieri. Primo: è il momento di decretare che l’America è diventata una dittatura fascista? Secondo: bisogna fare le valigie ed emigrare altrove?
Questo è il tenore della conversazione quotidiana in alcune parti del paese. Minoritarie, certo, ma influenti e visibili. Intellettuali, artisti, giornalisti e scrittori, gente di spettacolo: l’élite che spesso domina la sfera del discorso pubblico, scrive sui giornali, fa televisione e cinema. Ne so qualcosa: sono ambienti che frequento da sempre, anche per contiguità professionale, a New York e in California, i due Stati sulla East e West Coast dove ho vissuto e vivo, le due roccaforti storiche della sinistra americana.
Dopo una serie di cene con personaggi noti della scena letteraria e mediatica newyorchese, tra il Village e Soho, nell’Upper West Side o a Tribeca, posso raccontarvi la conversazione dominante. In una di queste cene la padrona di casa, una giovane donna che appartiene alla Jewish community, un’ebrea di sinistra e quindi anti-Netanyahu oltre che anti-Trump, mi ha dato questa sua sintesi efficace: «Tra amici abbiamo stabilito i tre criteri-chiave che ci diranno quando abbiamo smesso definitivamente di essere una democrazia, e siamo entrati in un regime fascista. Primo: quando cominceranno ad arrestare i giornalisti. Secondo: quando se la prenderanno con noi ebrei. Terzo: quando si capirà che quelle del 5 novembre sono state le ultime elezioni».
Ho provato a sollevare qualche dubbio e muovere delle obiezioni. Sulla museruola al giornalismo, per esempio. La stampa anti-trumpiana mi sembra più vivace che mai, il New York Times e la Cnn non hanno modificato di una virgola la loro linea politica. Forse, semmai, l’assenza di autocritica è il loro punto debole: uno tra i più celebri anchormen della Cnn, Jake Tapper, ha appena pubblicato un libro che è già un best-seller, dove racconta i retroscena della congiura omertosa con cui la sua rete tv e altri media progressisti nascosero al pubblico il declino psicofisico di Joe Biden (dopo l’inganno la beffa: quel libro non è un’autocritica, i diritti d’autore andranno a premiare uno dei colpevoli).
Un’altra obiezione che suggerisco alla padrona di casa riguarda l’antisemitismo. Fenomeno reale, gravissimo, in ascesa: però almeno in America le aggressioni contro gli ebrei sono venute dall’estrema sinistra, dagli attivisti pro-Hamas mobilitati durante le occupazioni dei campus universitari.
Ma l’atmosfera delle cene newyorchesi è questa: cupa, pessimista, allarmata. Sicché, dopo «i tre segnali che il fascismo è arrivato», l’altro tema di conversazione più frequente è l’auto-esilio. Molti di questi intellettuali che incontro nelle serate newyorchesi parlano di lasciare il loro paese e trasferirsi all’estero (definitivamente, o almeno fino al «ritorno della democrazia»). Alcuni hanno già dei piani precisi, date e luoghi.
Fra le destinazioni favorite di questo esodo c’è proprio il nostro paese. Non perché amino il governo Meloni, anzi quello sarebbe una controindicazione. Il fatto è che molti dei miei interlocutori hanno già il rifugio pronto: case di villeggiatura in Toscana o in Umbria, in Liguria o sul Lago di Como. L’altra destinazione favorita è la Francia: Parigi, Provenza e Costa Azzura. Stesso discorso: sanno bene che un giorno o l’altro pure la Francia potrebbe avere un governo di destra, però hanno già casa da quelle parti.
I miei amici letterati forse non si rendono conto che i discorsi sull’autoesilio confermano i peggiori pregiudizi contro le élite. L’operaio metalmeccanico del Michigan che ha votato per Trump, se mai venisse a conoscenza di quel che si dice nelle cene al Village, troverebbe la conferma che la sinistra ormai rappresenta soprattutto i privilegiati, quelli che si possono permettere il lusso di avere case di villeggiatura in Europa.
L’ex-immigrato latinoamericano o indiano, che ha votato Trump per difendere valori tradizionali e perché disapprova l’immigrazione illegale, si sentirebbe ancora più distante dalle élite del Village. Il reduce che ha indossato la divisa militare riconoscerebbe in questi discorsi la vena anti-patriottica, anti-americana, di chi è pronto ad abbandonare il proprio paese se non si sente rappresentato dal governo di turno.
A me invece tutto questo sa di déjà vu: sentii fare gli stessi discorsi nel dicembre 2000 quando vivevo a San Francisco e ci fu l’elezione «rubata dalla Corte suprema» (Bush-Gore), poi nella primavera 2003 quando Bush invase l’Iraq. Molti amici californiani vent’anni fa parlavano di lasciare l’America. Pochissimi lo hanno fatto davvero. Qualcuno si è trasferito in Florida, per pagare meno tasse in un paradiso fiscale governato dai repubblicani.
L’unica variante: allora era più in voga il Canada come destinazione, oggi forse sconsigliabile visti i propositi annessionistici di Trump…
https://www.corriere.it/oriente-occi...tml?refresh_ce
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