Perché l’Europa è entrata nella seconda guerra del gas (e cosa cambia per l'Italia)
Stamani mattina, primo dell’anno, alle 6 nella pianura gelata di Sudzha, al confine fra l’Ucraina e l’oblast russo di Kursk, l’Europa è entrata nella sua seconda guerra del gas (Gazprom ha chiuso le forniture). La seconda, naturalmente, in meno di tre anni.
Ora nuova guerra del gas, se tutto non andrà terribilmente storto, non dovrebbe essere grave come la prima. Ma il prezzo di mercato al Ttf di Amsterdam (la piattaforma di riferimento in Europa) ieri è risalito di un altro 4,1%, sopra i 50 euro a megawattora per la prima volta da quindici mesi: è un aumento del 66% in un anno e del 29% solo nelle ultime due settimane.
L’epicentro sul confine russo-ucraino
Questa seconda guerra del gas ha il suo epicentro a Sudzha, sul confine russo-ucraino, perché lì si trova la stazione dalla quale il flusso del monopolista di Mosca Gazprom finora è entrato nella rete ucraina, per essere poi trasportato fino all’Unione europea. L’attività a Sudzha ora è a zero, quando fino a ieri intermediava poco più di 40 milioni di metri cubi di metano al giorno e circa 15 miliardi di metri cubi l’anno: quelle quantità sono circa un decimo rispetto alle forniture russe all’Europa di prima della guerra, ma rappresentano pur sempre quasi il 5% del consumo europeo di metano in un mercato che resta in tensione.
Il gas russo, da Sudzha, era destinato ad attraversare tutta l’Ucraina fino al confine slovacco per poi essere consumato soprattutto in Slovacchia stessa, in Ungheria, nella Repubblica Ceca, in Austria e in parte anche in Italia (dove gli acquisti di gas via tubo dalla Russia in ottobre scorso erano saliti del 167% rispetto a un anno prima). Ma quello del metano in Europa è un sistema di vasi comunicanti, dove ogni ammanco di fornitura genera ulteriore domanda da altre fonti in competizione con altri compratori.
Cosa cambia per l’Europa e l’Italia
In sostanza questa è una guerra del gas nel quale l’Europa e l’Italia non rischiano di restare senza materia prima. Rischiano però, ancora una volta, di subire sostanziali rincari del riscaldamento e della bolletta elettrica (a novembre, per esempio, il 51% dell’elettricità italiana è stata prodotta bruciando metano). Tutto nasce da una posizione molto ferma di Volodymyr Zelensky. Il leader ucraino si è rifiutato – finora – di rinnovare un accordo quinquennale per il transito di gas russo, perché non intende facilitare ulteriormente nuove entrate del bilancio di Mosca, che poi servono a finanziare la distruzione dell’Ucraina.
Secondo il centro studi Crea di Helsinki, grazie al gas via gasdotto Gazprom continua a fatturare in Europa circa 350 milioni di euro alla settimana (più altri 200 milioni con il gas liquefatto). Questi poi sono in buona parte retrocessi al governo, che spende circa quattro rubli ogni dieci nello sforzo di guerra.
Le mosse di Orbán
Contro Zelensky si sono mossi in queste settimane i premier nazionalisti e filo-russi di Slovacchia e Ungheria, Robert Fico e Viktor Orbán. Entrambi hanno visitato Putin al Cremlino negli ultimi giorni. Orbán ha proposto un accordo in base al quale il gas di Gazprom sarebbe stato acquistato dagli importatori slovacchi prima di uscire dai confini russi, in modo che formalmente non fosse più russo nel momento in cui entra in Ucraina. Zelensky non ha accettato perché, secondo lui, si sarebbe trattato solo un finzione che non riduce il finanziamento della guerra di Mosca.
Fico ha minacciato Kiev con l’interruzione delle forniture elettriche dalle centrali slovacche, proprio ora che le reti ucraine sono devastate dai bombardamenti. Il premier slovacco ha persino scritto a Ursula von der Leyen, sostenendo con la presidente della Commissione Ue che l’interruzione del flusso dall’Ucraina sarebbe costato 50 miliardi di euro in più ai consumatori europei per la bolletta del gas e altri 70 per quella elettrica (a fronte, a dire di Fico, di una perdita di soli due miliardi per Mosca). Zelensky non si è piegato. L’Ucraina ora rischia che il Cremlino faccia bombardare i gasdotti e le centrali usate da Gazprom nel Paese, lasciando ancora più al freddo la popolazione.
Il messaggio di Kiev all’Europa
Ma nella fermezza del leader di Kiev c’è anche un messaggio politico all’Europa. Zelensky ha accettato finora di non attaccare il porto di Novorossijsk, sul Mar Nero, da cui parte circa un quarto dell’export russo di petrolio: è bastata un po’ di pressione su Kiev da parte dell’amministrazione americana, preoccupata di qualunque azione che faccia salire il prezzo internazionale del greggio. Ma gli ucraini non sono altrettanto sensibili alle richieste degli europei, specie se si tratta di Fico o di Orbán: segno di frustrazione per un sostegno militare e finanziario dell’Europa non del tutto convinto. Secondo dati riservati della Commissione di Bruxelles, in quasi tre anni di guerra i fondi inviati dagli Stati Uniti a Kiev superano quelli degli europei di quasi il 50%. Ora, con la seconda guerra del gas, l’Europa raccoglie i frutti delle sue contraddizioni.
https://www.corriere.it/economia/fin...tml?refresh_ce
Stamani mattina, primo dell’anno, alle 6 nella pianura gelata di Sudzha, al confine fra l’Ucraina e l’oblast russo di Kursk, l’Europa è entrata nella sua seconda guerra del gas (Gazprom ha chiuso le forniture). La seconda, naturalmente, in meno di tre anni.
Ora nuova guerra del gas, se tutto non andrà terribilmente storto, non dovrebbe essere grave come la prima. Ma il prezzo di mercato al Ttf di Amsterdam (la piattaforma di riferimento in Europa) ieri è risalito di un altro 4,1%, sopra i 50 euro a megawattora per la prima volta da quindici mesi: è un aumento del 66% in un anno e del 29% solo nelle ultime due settimane.
L’epicentro sul confine russo-ucraino
Questa seconda guerra del gas ha il suo epicentro a Sudzha, sul confine russo-ucraino, perché lì si trova la stazione dalla quale il flusso del monopolista di Mosca Gazprom finora è entrato nella rete ucraina, per essere poi trasportato fino all’Unione europea. L’attività a Sudzha ora è a zero, quando fino a ieri intermediava poco più di 40 milioni di metri cubi di metano al giorno e circa 15 miliardi di metri cubi l’anno: quelle quantità sono circa un decimo rispetto alle forniture russe all’Europa di prima della guerra, ma rappresentano pur sempre quasi il 5% del consumo europeo di metano in un mercato che resta in tensione.
Il gas russo, da Sudzha, era destinato ad attraversare tutta l’Ucraina fino al confine slovacco per poi essere consumato soprattutto in Slovacchia stessa, in Ungheria, nella Repubblica Ceca, in Austria e in parte anche in Italia (dove gli acquisti di gas via tubo dalla Russia in ottobre scorso erano saliti del 167% rispetto a un anno prima). Ma quello del metano in Europa è un sistema di vasi comunicanti, dove ogni ammanco di fornitura genera ulteriore domanda da altre fonti in competizione con altri compratori.
Cosa cambia per l’Europa e l’Italia
In sostanza questa è una guerra del gas nel quale l’Europa e l’Italia non rischiano di restare senza materia prima. Rischiano però, ancora una volta, di subire sostanziali rincari del riscaldamento e della bolletta elettrica (a novembre, per esempio, il 51% dell’elettricità italiana è stata prodotta bruciando metano). Tutto nasce da una posizione molto ferma di Volodymyr Zelensky. Il leader ucraino si è rifiutato – finora – di rinnovare un accordo quinquennale per il transito di gas russo, perché non intende facilitare ulteriormente nuove entrate del bilancio di Mosca, che poi servono a finanziare la distruzione dell’Ucraina.
Secondo il centro studi Crea di Helsinki, grazie al gas via gasdotto Gazprom continua a fatturare in Europa circa 350 milioni di euro alla settimana (più altri 200 milioni con il gas liquefatto). Questi poi sono in buona parte retrocessi al governo, che spende circa quattro rubli ogni dieci nello sforzo di guerra.
Le mosse di Orbán
Contro Zelensky si sono mossi in queste settimane i premier nazionalisti e filo-russi di Slovacchia e Ungheria, Robert Fico e Viktor Orbán. Entrambi hanno visitato Putin al Cremlino negli ultimi giorni. Orbán ha proposto un accordo in base al quale il gas di Gazprom sarebbe stato acquistato dagli importatori slovacchi prima di uscire dai confini russi, in modo che formalmente non fosse più russo nel momento in cui entra in Ucraina. Zelensky non ha accettato perché, secondo lui, si sarebbe trattato solo un finzione che non riduce il finanziamento della guerra di Mosca.
Fico ha minacciato Kiev con l’interruzione delle forniture elettriche dalle centrali slovacche, proprio ora che le reti ucraine sono devastate dai bombardamenti. Il premier slovacco ha persino scritto a Ursula von der Leyen, sostenendo con la presidente della Commissione Ue che l’interruzione del flusso dall’Ucraina sarebbe costato 50 miliardi di euro in più ai consumatori europei per la bolletta del gas e altri 70 per quella elettrica (a fronte, a dire di Fico, di una perdita di soli due miliardi per Mosca). Zelensky non si è piegato. L’Ucraina ora rischia che il Cremlino faccia bombardare i gasdotti e le centrali usate da Gazprom nel Paese, lasciando ancora più al freddo la popolazione.
Il messaggio di Kiev all’Europa
Ma nella fermezza del leader di Kiev c’è anche un messaggio politico all’Europa. Zelensky ha accettato finora di non attaccare il porto di Novorossijsk, sul Mar Nero, da cui parte circa un quarto dell’export russo di petrolio: è bastata un po’ di pressione su Kiev da parte dell’amministrazione americana, preoccupata di qualunque azione che faccia salire il prezzo internazionale del greggio. Ma gli ucraini non sono altrettanto sensibili alle richieste degli europei, specie se si tratta di Fico o di Orbán: segno di frustrazione per un sostegno militare e finanziario dell’Europa non del tutto convinto. Secondo dati riservati della Commissione di Bruxelles, in quasi tre anni di guerra i fondi inviati dagli Stati Uniti a Kiev superano quelli degli europei di quasi il 50%. Ora, con la seconda guerra del gas, l’Europa raccoglie i frutti delle sue contraddizioni.
https://www.corriere.it/economia/fin...tml?refresh_ce
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