Black e latinos pro-Trump: cosa c'è dietro e perché Obama non aiuta
In una sfida che si giocherà su percentuali minuscole, Kamala Harris perde punti tra l'elettorato femminile afroamericano e quello ispanico. La reazione poco diplomatica dell'ex presidente alla perdita di consenso
di Federico Rampini
Preoccupa Kamala Harris il fenomeno di erosione dei consensi proprio tra quelle minoranze etniche che dovrebbero plebiscitare una donna di colore. L’ultima conferma viene dal più recente sondaggio del New York Times, non certo sospettabile di simpatie trumpiane. Perfino tra le donne black, la sua constituency più favorevole, Harris perde dieci punti rispetto al risultato di Joe Biden nel 2020.
Nell’elettorato femminile afroamericano le intenzioni di voto per Harris sono dell’83%. Rimane una maggioranza schiacciante in suo favore, certo. Però Biden aveva raccolto il 93% dei consensi quattro anni fa. Perdere dieci punti non è un danno da poco, tanto più che il partito democratico dava per scontato l’appoggio di questo gruppo di elettrici. Inoltre siamo in una sfidache sembra giocarsi su percentuali minuscole, con una situazione di sostanziale parità fra i due candidati, e pochi slittamenti possono fare la differenza.
Per quanto riguarda l’elettorato ispanico, cioè i cittadini americani di origini latinos, anche questo gruppo rimane schierato a maggioranza con i democratici. Ma come nel caso precedente, la perdita di voti è costante. Ancora dieci anni fa il 70% dei latinos votarono per il secondo mandato di Barack Obama; oggi le dichiarazioni di voto a favore di Kamala Harris sono scese al 56% con una perdita di ben 14 punti. Una informazione interessante ricavata dal sondaggio del New York Times è questa: più di un terzo degli elettori ispanici sostengono tutte le proposte di Trump sull’immigrazione, dal Muro alla frontiera, fino alle espulsioni in massa di stranieri clandestini.
Ciò che vacilla è proprio la certezza in cui il partito democratico si era cullato a lungo, che le minoranze etniche siano inevitabilmente attratte dalle sue politiche e quindi destinate a schierarsi sempre con la sinistra più radicale. (Non a caso Harris si è spostata al centro o addirittura vicinissima a Trump sull’immigrazione).
In realtà l’evoluzione politica di questi gruppi etnici indica una loro «normalizzazione»: sia pure molto gradualmente, cessano di votare in base al colore della pelle o alle origini dei loro genitori, e si orientano su contenuti, valori, programmi di governo.
Il caso dei latinos che vogliono controlli più rigorosi alle frontiere è stato analizzato più volte. Se sono entrati legalmente, perché dovrebbero essere favorevoli a un’immigrazione illegale che, tra l’altro, esercita una pressione al ribasso sui loro salari? Se le loro radici storiche affondano in paesi rovinati da corruzione, malgoverno, criminalità, narcotraffico, perché non dovrebbero auspicare che gli Stati Uniti facciano rispettare l’ordine e la legge sul loro territorio?
Lo stesso sta accadendo nella comunità black. La «sbornia» a favore del movimento estremista Black Lives Matter ha lasciato in bocca un sapore amaro. Black Lives Matter ha fatto una brutta fine sprofondando in scandali di corruzione. Ma nel frattempo aveva spinto molti sindaci e governatori di sinistra a tagliare fondi alla polizia, demonizzandola con accuse indiscriminate di razzismo. Il risultato è stato un aumento di criminalità proprio nei quartieri a prevalenza black.
La «normalizzazione» elettorale nella comunità afroamericana significa anche questo: molti black appartengono alla classe operaia e si sentono prima di tutto definiti dalla propria condizione di lavoratori. Molti sono dei non laureati. Pertanto, proprio come i loro colleghi operai bianchi, percepiscono il partito democratico come una forza politica dominata dai laureati, dalle élite, con valori distanti dai loro anche su temi etici come la famiglia e il patriottismo.
La reazione dei democratici a questa perdita di consenso continua a confermare questo dato: la sinistra élitaria trasuda disprezzo verso l’elettorato di Trump, lo offende anziché cercare di capirne le ragioni. L’ultima conferma è venuta da Barack Obama.
In un recente discorso l’ex presidente si è rivolto ai maschi neri e in modo assai poco diplomatico ha lanciato questo messaggio: se pensate di votare per Trump, è perché siete sessisti, maschilisti, patriarcali, e vi fa orrore l’idea di una donna alla Casa Bianca. Obama è recidivo. Dodici anni fa aveva schernito quegli elettori che «si aggrappano alla loro Bibbia, alle loro birre, alle loro armi», una caricatura sprezzante che includeva la religione cristiana nelle cose di cui bisogna vergognarsi.
Hillary Clinton nel 2016 aveva definito gli elettori di Trump «un mucchio di deplorevoli». La classe operaia che considera Trump più affidabile su economia e immigrazione, viene esortata da Obama e Clinton a emendarsi dei suoi evidenti difetti etici e culturali.
Kamala Harris non ha avuto finora delle sbandate così offensive. Però il suo tentativo di recuperare consensi tra i black è intriso di vecchi pregiudizi. La vicepresidente ha promesso misure assistenziali, corsie preferenziali… e un ulteriore balzo in avanti nella liberalizzazione della marijuana.
È l’armamentario della «politica etnica» che le stesse minoranze ormai considerano con occhio critico. Ad esempio, in uno Stato all’avanguardia nella liberalizzazione della marijuana, che guarda caso è lo Stato di Harris (la California) è partito proprio dalle comunità black un movimento di opposizione contro il dilagare dei negozi di marijuana nei quartieri afroamericani.
CorSera
In una sfida che si giocherà su percentuali minuscole, Kamala Harris perde punti tra l'elettorato femminile afroamericano e quello ispanico. La reazione poco diplomatica dell'ex presidente alla perdita di consenso
di Federico Rampini
Preoccupa Kamala Harris il fenomeno di erosione dei consensi proprio tra quelle minoranze etniche che dovrebbero plebiscitare una donna di colore. L’ultima conferma viene dal più recente sondaggio del New York Times, non certo sospettabile di simpatie trumpiane. Perfino tra le donne black, la sua constituency più favorevole, Harris perde dieci punti rispetto al risultato di Joe Biden nel 2020.
Nell’elettorato femminile afroamericano le intenzioni di voto per Harris sono dell’83%. Rimane una maggioranza schiacciante in suo favore, certo. Però Biden aveva raccolto il 93% dei consensi quattro anni fa. Perdere dieci punti non è un danno da poco, tanto più che il partito democratico dava per scontato l’appoggio di questo gruppo di elettrici. Inoltre siamo in una sfidache sembra giocarsi su percentuali minuscole, con una situazione di sostanziale parità fra i due candidati, e pochi slittamenti possono fare la differenza.
Per quanto riguarda l’elettorato ispanico, cioè i cittadini americani di origini latinos, anche questo gruppo rimane schierato a maggioranza con i democratici. Ma come nel caso precedente, la perdita di voti è costante. Ancora dieci anni fa il 70% dei latinos votarono per il secondo mandato di Barack Obama; oggi le dichiarazioni di voto a favore di Kamala Harris sono scese al 56% con una perdita di ben 14 punti. Una informazione interessante ricavata dal sondaggio del New York Times è questa: più di un terzo degli elettori ispanici sostengono tutte le proposte di Trump sull’immigrazione, dal Muro alla frontiera, fino alle espulsioni in massa di stranieri clandestini.
Ciò che vacilla è proprio la certezza in cui il partito democratico si era cullato a lungo, che le minoranze etniche siano inevitabilmente attratte dalle sue politiche e quindi destinate a schierarsi sempre con la sinistra più radicale. (Non a caso Harris si è spostata al centro o addirittura vicinissima a Trump sull’immigrazione).
In realtà l’evoluzione politica di questi gruppi etnici indica una loro «normalizzazione»: sia pure molto gradualmente, cessano di votare in base al colore della pelle o alle origini dei loro genitori, e si orientano su contenuti, valori, programmi di governo.
Il caso dei latinos che vogliono controlli più rigorosi alle frontiere è stato analizzato più volte. Se sono entrati legalmente, perché dovrebbero essere favorevoli a un’immigrazione illegale che, tra l’altro, esercita una pressione al ribasso sui loro salari? Se le loro radici storiche affondano in paesi rovinati da corruzione, malgoverno, criminalità, narcotraffico, perché non dovrebbero auspicare che gli Stati Uniti facciano rispettare l’ordine e la legge sul loro territorio?
Lo stesso sta accadendo nella comunità black. La «sbornia» a favore del movimento estremista Black Lives Matter ha lasciato in bocca un sapore amaro. Black Lives Matter ha fatto una brutta fine sprofondando in scandali di corruzione. Ma nel frattempo aveva spinto molti sindaci e governatori di sinistra a tagliare fondi alla polizia, demonizzandola con accuse indiscriminate di razzismo. Il risultato è stato un aumento di criminalità proprio nei quartieri a prevalenza black.
La «normalizzazione» elettorale nella comunità afroamericana significa anche questo: molti black appartengono alla classe operaia e si sentono prima di tutto definiti dalla propria condizione di lavoratori. Molti sono dei non laureati. Pertanto, proprio come i loro colleghi operai bianchi, percepiscono il partito democratico come una forza politica dominata dai laureati, dalle élite, con valori distanti dai loro anche su temi etici come la famiglia e il patriottismo.
La reazione dei democratici a questa perdita di consenso continua a confermare questo dato: la sinistra élitaria trasuda disprezzo verso l’elettorato di Trump, lo offende anziché cercare di capirne le ragioni. L’ultima conferma è venuta da Barack Obama.
In un recente discorso l’ex presidente si è rivolto ai maschi neri e in modo assai poco diplomatico ha lanciato questo messaggio: se pensate di votare per Trump, è perché siete sessisti, maschilisti, patriarcali, e vi fa orrore l’idea di una donna alla Casa Bianca. Obama è recidivo. Dodici anni fa aveva schernito quegli elettori che «si aggrappano alla loro Bibbia, alle loro birre, alle loro armi», una caricatura sprezzante che includeva la religione cristiana nelle cose di cui bisogna vergognarsi.
Hillary Clinton nel 2016 aveva definito gli elettori di Trump «un mucchio di deplorevoli». La classe operaia che considera Trump più affidabile su economia e immigrazione, viene esortata da Obama e Clinton a emendarsi dei suoi evidenti difetti etici e culturali.
Kamala Harris non ha avuto finora delle sbandate così offensive. Però il suo tentativo di recuperare consensi tra i black è intriso di vecchi pregiudizi. La vicepresidente ha promesso misure assistenziali, corsie preferenziali… e un ulteriore balzo in avanti nella liberalizzazione della marijuana.
È l’armamentario della «politica etnica» che le stesse minoranze ormai considerano con occhio critico. Ad esempio, in uno Stato all’avanguardia nella liberalizzazione della marijuana, che guarda caso è lo Stato di Harris (la California) è partito proprio dalle comunità black un movimento di opposizione contro il dilagare dei negozi di marijuana nei quartieri afroamericani.
CorSera
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