La zona rossa. I ribelli di Codogno: “Violiamo i blocchi per sopravvivere”
La rabbia dei residenti: “Siamo stati abbandonati. Non basta condannare 50mila persone all’isolamento, poi bisogna aiutarle”
«Dobbiamo sopravvivere. Chi governa, in tivù ripete che va tutto bene, ma qui la situazione è drammatica. La verità è che siamo abbandonati. Non basta condannare 50mila persone all’isolamento. Poi bisogna aiutarle. Nessuno lo fa: per questo ci arrangiamo». Luigi Toselli, contadino di Codogno, esce dalla zona rossa poco dopo le 9 di mattina. Per strade secondarie raggiunge Taccagna e Cascina Vinzaschina e va a fare la spesa a Lodi. A centinaia, dall’epicentro italiano del coronavirus, lo seguono su auto e furgoni. Chi abita nei dieci Comuni isolati del Lodigiano sa come evitare i posti di blocco che cominciano a presidiare le strade provinciali. Tra cascine e campagna, le “vie di fuga” non si contano. Così, per tutto il giorno, salgono “evasioni” e ritorni nel focolaio del contagio.
«Nella zona rossa — dice Pietro Meazzi, operaio di Casalpusterlengo — sono aperti solo alimentari e farmacie. L’attesa per entrare dura ore, poi scopri che alimenti freschi, mascherine e farmaci sono esauriti. È inaccettabile, gli anziani sono allo stremo. Noi usciamo e facciamo la spesa a San Rocco anche per amici e parenti: è un servizio civile». Con l’intero Nord «in quarantena» per «contenere il contagio», si scopre che l’incubatrice perfetta attorno all’ospedale di Codogno resta sigillata solo sulla carta. Guidando tra i campi si raggiungono e si lasciano senza problemi Castiglione d’Adda, Codogno e Casalpusterlengo, come nei giorni scorsi. Avanti e indietro.
«Nessuno vuole infettare qualcuno — Andrea Maiocchi, commerciante di Castiglione — ma le regole non possono ignorare la realtà. Su dieci Comuni chiusi, solo quattro contano persone infette. Eppure, all’interno della cintura, ognuno va dove gli pare. Assurdo: è come dire che dentro il focolaio c’è licenza di contagio, mentre chi vive in paesi indenni dal Covid-19 non può fare un salto fuori per pratiche urgenti negli uffici, o per procurarsi ciò che qui è sparito: disinfettanti, detersivi, acqua minerale, cibo per animali e sigarette». La zona rossa più vasta d’Italia, 5 morti e il 90% dei contagiati in Lombardia, così ancora non funziona.
L’impegno di prefettura e forze dell’ordine è massimo. Solo 15 però, a quattro giorni dal via all’emergenza, i posti di blocco effettivamente in funzione sui 42 accessi principali all’area «già isolata giorno e notte». Gli uomini impegnati per ora sono 120, rispetto ai 500 annunciati per 35 check point. I militari dell’esercito sono attesi oggi a supporto di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Quasi duecento le richieste di transito arrivate in prefettura a Lodi. Più di una pattuglia aspetta ancora «comunicazioni attuative». I camion di passaggio per trasporti tra Lombardia ed Emilia, passano. Decine gli abitanti dei Comuni off-limits che chiamano un taxi per un tampone o una visita medica a Milano e Pavia. Basta l’impegnativa e al ritorno nessuno ferma i potenziali contagiati. «Io stesso — denuncia un medico del reparto di medicina di Codogno — aspetto di fare il tampone da venerdì, pur avendo contatti con pazienti infetti. Non ci sono test per tutti, mancano infermieri, con i medici in quarantena anche la medicina di base è al collasso. Ormai i tamponi non si fanno nemmeno a chi ha la febbre. Ognuno capisce che così non va e che si arriva in ritardo».
L’ospedale di Codogno è il cuore da cui è partita l’epidemia nel Paese. Ovunque sarebbe stato subito disinfestato. Invece qui, in medicina e terapia intensiva, restano malati a pochi metri da chi ha il virus e la bonifica è «sospesa». Da quattro giorni medici e infermieri lavorano senza sosta. Pochi i sostituti esterni: dopo 8 ore tornano a casa, anche fuori dalla zona rossa. «Sei di noi — dice un altro medico del pronto soccorso ora chiuso — si sono ammalati. Nessuno li ha avvisati del pericolo, nessuno ci ha dotati di protezioni adeguate. Qualcuno lava il camice a casa». Per la prima volta medici e infermieri di Codogno ricostruiscono le ore drammatiche che stanno gettando il Paese nel panico. «Mattia — dicono — è entrato e uscito due volte in quattro giorni. Si bloccano i voli con la Cina, ma negli ospedali piccoli non si erano disposte analisi specifiche per sintomi anomali d’influenza. Dopo l’esito positivo al Covid-19 e la nostra comunicazione, sono passate ore prima che le autorità dessero indicazioni restrittive. La sensazione è di essere stati mandati, e ora lasciati, allo sbaraglio». A rassicurare, il prefetto di Lodi, Marcello Cardona: «Stiamo facendo il massimo — dice — un’emergenza tanto complessa non si supera in poche ore. Il problema è che ancora la gente non ha chiaro che non finirà tutto presto. Ogni nuovo caso azzera le due settimane di quarantena e il conto alla rovescia riparte. Ci stiamo organizzando per tempi di isolamento lunghi».
La rabbia dei residenti: “Siamo stati abbandonati. Non basta condannare 50mila persone all’isolamento, poi bisogna aiutarle”
«Dobbiamo sopravvivere. Chi governa, in tivù ripete che va tutto bene, ma qui la situazione è drammatica. La verità è che siamo abbandonati. Non basta condannare 50mila persone all’isolamento. Poi bisogna aiutarle. Nessuno lo fa: per questo ci arrangiamo». Luigi Toselli, contadino di Codogno, esce dalla zona rossa poco dopo le 9 di mattina. Per strade secondarie raggiunge Taccagna e Cascina Vinzaschina e va a fare la spesa a Lodi. A centinaia, dall’epicentro italiano del coronavirus, lo seguono su auto e furgoni. Chi abita nei dieci Comuni isolati del Lodigiano sa come evitare i posti di blocco che cominciano a presidiare le strade provinciali. Tra cascine e campagna, le “vie di fuga” non si contano. Così, per tutto il giorno, salgono “evasioni” e ritorni nel focolaio del contagio.
«Nella zona rossa — dice Pietro Meazzi, operaio di Casalpusterlengo — sono aperti solo alimentari e farmacie. L’attesa per entrare dura ore, poi scopri che alimenti freschi, mascherine e farmaci sono esauriti. È inaccettabile, gli anziani sono allo stremo. Noi usciamo e facciamo la spesa a San Rocco anche per amici e parenti: è un servizio civile». Con l’intero Nord «in quarantena» per «contenere il contagio», si scopre che l’incubatrice perfetta attorno all’ospedale di Codogno resta sigillata solo sulla carta. Guidando tra i campi si raggiungono e si lasciano senza problemi Castiglione d’Adda, Codogno e Casalpusterlengo, come nei giorni scorsi. Avanti e indietro.
«Nessuno vuole infettare qualcuno — Andrea Maiocchi, commerciante di Castiglione — ma le regole non possono ignorare la realtà. Su dieci Comuni chiusi, solo quattro contano persone infette. Eppure, all’interno della cintura, ognuno va dove gli pare. Assurdo: è come dire che dentro il focolaio c’è licenza di contagio, mentre chi vive in paesi indenni dal Covid-19 non può fare un salto fuori per pratiche urgenti negli uffici, o per procurarsi ciò che qui è sparito: disinfettanti, detersivi, acqua minerale, cibo per animali e sigarette». La zona rossa più vasta d’Italia, 5 morti e il 90% dei contagiati in Lombardia, così ancora non funziona.
L’impegno di prefettura e forze dell’ordine è massimo. Solo 15 però, a quattro giorni dal via all’emergenza, i posti di blocco effettivamente in funzione sui 42 accessi principali all’area «già isolata giorno e notte». Gli uomini impegnati per ora sono 120, rispetto ai 500 annunciati per 35 check point. I militari dell’esercito sono attesi oggi a supporto di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Quasi duecento le richieste di transito arrivate in prefettura a Lodi. Più di una pattuglia aspetta ancora «comunicazioni attuative». I camion di passaggio per trasporti tra Lombardia ed Emilia, passano. Decine gli abitanti dei Comuni off-limits che chiamano un taxi per un tampone o una visita medica a Milano e Pavia. Basta l’impegnativa e al ritorno nessuno ferma i potenziali contagiati. «Io stesso — denuncia un medico del reparto di medicina di Codogno — aspetto di fare il tampone da venerdì, pur avendo contatti con pazienti infetti. Non ci sono test per tutti, mancano infermieri, con i medici in quarantena anche la medicina di base è al collasso. Ormai i tamponi non si fanno nemmeno a chi ha la febbre. Ognuno capisce che così non va e che si arriva in ritardo».
L’ospedale di Codogno è il cuore da cui è partita l’epidemia nel Paese. Ovunque sarebbe stato subito disinfestato. Invece qui, in medicina e terapia intensiva, restano malati a pochi metri da chi ha il virus e la bonifica è «sospesa». Da quattro giorni medici e infermieri lavorano senza sosta. Pochi i sostituti esterni: dopo 8 ore tornano a casa, anche fuori dalla zona rossa. «Sei di noi — dice un altro medico del pronto soccorso ora chiuso — si sono ammalati. Nessuno li ha avvisati del pericolo, nessuno ci ha dotati di protezioni adeguate. Qualcuno lava il camice a casa». Per la prima volta medici e infermieri di Codogno ricostruiscono le ore drammatiche che stanno gettando il Paese nel panico. «Mattia — dicono — è entrato e uscito due volte in quattro giorni. Si bloccano i voli con la Cina, ma negli ospedali piccoli non si erano disposte analisi specifiche per sintomi anomali d’influenza. Dopo l’esito positivo al Covid-19 e la nostra comunicazione, sono passate ore prima che le autorità dessero indicazioni restrittive. La sensazione è di essere stati mandati, e ora lasciati, allo sbaraglio». A rassicurare, il prefetto di Lodi, Marcello Cardona: «Stiamo facendo il massimo — dice — un’emergenza tanto complessa non si supera in poche ore. Il problema è che ancora la gente non ha chiaro che non finirà tutto presto. Ogni nuovo caso azzera le due settimane di quarantena e il conto alla rovescia riparte. Ci stiamo organizzando per tempi di isolamento lunghi».
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