Coronavirus: in Italia è aumentata la carica virale nei tamponi
È la spia che i casi rilevati dai tamponi sono infezioni recenti, mentre quelli di giugno-luglio probabilmente erano di persone già guarite. L’alta carica virale può segnalare anche i super diffusori e potenzialmente può provocare una malattia più grave
Nei tamponi prelevati in questi ultimi giorni in Italia è decisamente aumentata la carica virale, ossia il numero delle copie di materiale genetico del nuovo coronavirus presenti in un millilitro di materiale biologico in esame.
Le spiegazioni
Il fenomeno, in controtendenza rispetto a quanto accaduto nelle scorse settimane, potrebbe essere indice della caratteristica dei nuovi contagi: persone che all’estero si sono trovate in zone dove il virus circola di più e ci sono più soggetti sintomatici, o persone che si sono contagiate “di più” e recentemente. Misurare la carica virale è importante perché la maggior carica virale può essere associata a maggiori complicazioni o severità dell’infezione. Normalmente contagiarsi con “poco materiale virulento” porta a malattia lieve o asintomatica.
Avere un’alta carica virale è anche caratteristica dei cosiddetti super-diffusori: persone che sono in grado di infettarne molte altre, proprio per l’elevata virulenza delle loro emissioni (tosse, respiro, urla) e la caratteristica del Covid-19 è proprio quella che poche “particolari” persone ne infettano molte, ma la maggior parte (per fortuna) nessuna.
Da 10mila particelle a un milione
«Tra fine luglio e i primi di agosto tutti i campioni positivi avevano la carica inferiore a 10.000 particelle di virus per millilitro di tampone», ha detto all’ANSA il virologo Francesco Broccolo, dell’Università Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano. «Ora circa la metà dei tamponi rilevati nell’ultima settimana supera il milione di copie di materiale genetico del virus, l’Rna, presenti nelle particelle virali infettive in un millilitro di tampone». Si rilevano inoltre casi nei quali il numero di copie è di un miliardo. L’ipotesi, secondo l’esperto, è che siano infezioni molto recenti, all’esordio: mentre fino a fine luglio i tamponi erano di infezioni acquisite nelle settimane precedenti, spesso trovate tramite test sierologici.
Segnale di molte nuove infezioni
Un’ipotesi che vede d’accordo l’infettivologo Massimo Galli, dell’Ospedale Sacco e dell’Università Statale di Milano: la presenza di una forte carica virale rilevata nei tamponi, ha osservato, «è purtroppo un fenomeno che nell’ultimo periodo si è verificato più volte e che è il segnale di molte nuove infezioni». Ancora non è noto quale sia il minimo di carica virale sufficiente per infettare una persona. Secondo Galli si tratta di una situazione decisamente diversa da quella che tempo fa aveva generato un dibattito sulla possibilità che alla fine del fine lockdown il virus avesse “perso mordente” e che, secondo il professore, «era probabilmente nata dalla constatazione che persone portatrici da tempo del l’infezione, se esaminate, appunto, dopo una lunga convivenza con il virus non avessero una grande replicazione virale. Questo, però, non accadeva perché il virus si fosse indebolito: tutto dipendeva da chi si andava a valutare».
CorSera
È la spia che i casi rilevati dai tamponi sono infezioni recenti, mentre quelli di giugno-luglio probabilmente erano di persone già guarite. L’alta carica virale può segnalare anche i super diffusori e potenzialmente può provocare una malattia più grave
Nei tamponi prelevati in questi ultimi giorni in Italia è decisamente aumentata la carica virale, ossia il numero delle copie di materiale genetico del nuovo coronavirus presenti in un millilitro di materiale biologico in esame.
Le spiegazioni
Il fenomeno, in controtendenza rispetto a quanto accaduto nelle scorse settimane, potrebbe essere indice della caratteristica dei nuovi contagi: persone che all’estero si sono trovate in zone dove il virus circola di più e ci sono più soggetti sintomatici, o persone che si sono contagiate “di più” e recentemente. Misurare la carica virale è importante perché la maggior carica virale può essere associata a maggiori complicazioni o severità dell’infezione. Normalmente contagiarsi con “poco materiale virulento” porta a malattia lieve o asintomatica.
Avere un’alta carica virale è anche caratteristica dei cosiddetti super-diffusori: persone che sono in grado di infettarne molte altre, proprio per l’elevata virulenza delle loro emissioni (tosse, respiro, urla) e la caratteristica del Covid-19 è proprio quella che poche “particolari” persone ne infettano molte, ma la maggior parte (per fortuna) nessuna.
Da 10mila particelle a un milione
«Tra fine luglio e i primi di agosto tutti i campioni positivi avevano la carica inferiore a 10.000 particelle di virus per millilitro di tampone», ha detto all’ANSA il virologo Francesco Broccolo, dell’Università Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano. «Ora circa la metà dei tamponi rilevati nell’ultima settimana supera il milione di copie di materiale genetico del virus, l’Rna, presenti nelle particelle virali infettive in un millilitro di tampone». Si rilevano inoltre casi nei quali il numero di copie è di un miliardo. L’ipotesi, secondo l’esperto, è che siano infezioni molto recenti, all’esordio: mentre fino a fine luglio i tamponi erano di infezioni acquisite nelle settimane precedenti, spesso trovate tramite test sierologici.
Segnale di molte nuove infezioni
Un’ipotesi che vede d’accordo l’infettivologo Massimo Galli, dell’Ospedale Sacco e dell’Università Statale di Milano: la presenza di una forte carica virale rilevata nei tamponi, ha osservato, «è purtroppo un fenomeno che nell’ultimo periodo si è verificato più volte e che è il segnale di molte nuove infezioni». Ancora non è noto quale sia il minimo di carica virale sufficiente per infettare una persona. Secondo Galli si tratta di una situazione decisamente diversa da quella che tempo fa aveva generato un dibattito sulla possibilità che alla fine del fine lockdown il virus avesse “perso mordente” e che, secondo il professore, «era probabilmente nata dalla constatazione che persone portatrici da tempo del l’infezione, se esaminate, appunto, dopo una lunga convivenza con il virus non avessero una grande replicazione virale. Questo, però, non accadeva perché il virus si fosse indebolito: tutto dipendeva da chi si andava a valutare».
CorSera
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