Coronavirus, l’ospedale lombardo con il 20% di asintomatici tra i sanitari
Lodi, ecco i numeri riservati sui casi sommersi scoperti dopo gli esami sugli anticorpi a tutti i medici e gli infermieri. La stima sull’intera regione parla di oltre 4.000 operatori
Alle 8 di sera del 6 marzo Miriam Villani, 53 anni, caposala di Pronto soccorso e rianimazione, 30 anni di carriera sulle spalle, smonta da 12 ore di turno dopo l’ennesima giornata in cui vede ammalarsi i colleghi uno dopo l’altro: «Solo nel mio ospedale siamo a quota 110 operatori sanitari con il Covid-19 — si sfoga con il Corriere della Sera —. Per aiutarci adesso sono dovute arrivare le forze dell’esercito: medici e infermieri dei carabinieri e dell’aeronautica militare». L’ospedale di Lodi, di cui fa parte anche il presidio di Codogno — dove la sera del 20 febbraio viene trovato positivo al tampone il 38 enne Mattia Maestri, il «Paziente Uno», e che poi viene praticamente chiuso — rappresenta la prima trincea in Europa nella lotta al coronavirus. A due mesi di distanza da quei giorni drammatici i medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. È il dato aggiornato all’8 maggio contenuto nei report riservati di Regione Lombardia. Ma per capire quanti operatori sanitari si sono davvero ammalati, bisogna incrociare un altro numero, ossia quanti sono gli operatori sanitari che sono venuti a contatto con il maledetto virus indipendentemente dalla diagnosi. Un ruolo importante a tal proposito lo gioca il test sierologico che, cercando gli anticorpi IgM e IgG, può rivelare chi si è contagiato anche senza saperlo. Ebbene, risultati alla mano, i positivi salgono da 296 a 373. Vuol dire che 77 operatori sanitari finora sono sfuggiti alle rilevazioni. Sommersi. In sintesi: il 20% dei medici e degli infermieri ha avuto il coronavirus senza saperlo prima d’ora. Uno su cinque. È il dato che, più d’ogni altro fino ad adesso, può essere anche la spia della percentuale di operatori sanitari asintomatici che hanno continuato a lavorare in corsia anche se con il Covid-19. E una stima sull’intera Regione porta a una cifra ancora più alta: uno su tre. Un po’ di pazienza e capiremo il perché.
I numeri (riservati) sui casi sommersi
L’ospedale di Lodi è il primo in Lombardia ad avere completato l’effettuazione del test sierologico su tutti i dipendenti, 2.243. Uno sforzo dettato anche dalla volontà di andare a caccia proprio degli asintomatici. È un’informazione fondamentale per ragionare su come comportarsi nella Fase 2 e, soprattutto, in vista di una possibile ondata di ritorno del virus. La lezione imparata è che gli ospedali, che scontano l’accusa di essere stati diffusori del contagio, almeno d’ora in avanti non possono più esserlo. Così a Lodi vengono contati per la prima volta, lì nell’ospedale di trincea della Regione più colpita, i medici e gli infermieri sfuggiti al tampone. Uno dei motivi dei malati sommersi è sicuramente legato all’impossibilità (o incapacità) durante l’apice dell’epidemia di fare a tutti la diagnosi: a quell’epoca è probabile che chi si è ammalato a casa — senza ricovero in ospedale — sia rimasto senza tampone. Tra i 77 operatori sanitari contagiati scoperti con il test sierologico, dunque, sicuramente ci sono coloro che sono rimasti a domicilio perché con la febbre o altri sintomi senza mai avere avuto la prova di essersi contagiati. Ma non può non essere preso in considerazione il fatto che, per altri, si tratta di asintomatici. Chi rientra nella prima categoria, chi nella seconda al momento è impossibile da sapere. Negli scorsi giorni, ancora una volta in vista della Fase 2, e sempre all’ospedale di Lodi, che oltre a Codogno conta altri due presidi (Casale e Sant’Angelo), sono eseguiti a tappeto anche i tamponi. I 2.243 lavoratori tutti testati. Caso unico per la Regione. Così sono scovati altri 38 contagiati. Al lavoro. Si tratta di 22 infermieri, 3 operatori socio-sanitari, 2 ausiliari, 2 medici, 2 amministrativi, gli altri tecnici. È un’altra informazione preziosa e che non può essere ignorata per decidere il da farsi nel futuro. In modo da riuscire a tutelare al meglio chi è in corsia e chi è ricoverato.
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Cosa dicono le stime per tutta la Lombardia
Dal 23 aprile il governatore Attilio Fontana e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera decidono di utilizzare il test sierologico per screening di massa sugli operatori sanitari. Finora i medici e gli infermieri testati sono 25.331: quelli che risultano essere venuti in contatto con il virus sono 3.506 (il 14% del totale). Oltre a Lodi, i positivi agli anticorpi IgM e IgG sono 1.110 a Bergamo (24,1%), 903 a Brescia (11,2%), 656 a Mantova e Cremona (15,5%), 337 a Pavia (8,4%), 110 a Monza (6,2%), 27 positivi a Sondrio (9,5%). Il dato a prima vista fornisce semplicemente l’indicazione che la percentuale di sanitari contagiati è in linea con la diffusione del virus nelle varie province. Ma è possibile andare oltre la lettura superficiale. Per addentrarci nelle stime. La proiezione di questi numeri sull’intera Lombardia, tenendo conto anche degli ospedali di Como, Varese e Milano che al momento non hanno fornito dati, ci dice che verosimilmente i medici e gli infermieri che sono venuti a contatto con il virus sono almeno 11 mila, ossia il 10% dei 110 mila operatori sanitari pubblici della Lombardia. I casi Covid-19 accertati tra gli operatori sanitari all’8 maggio sono 6.664. All’appello ne mancano oltre 4.300. Ecco, allora, l’indicatore a livello lombardo: oltre il 35% dei sanitari che si è ammalato di coronavirus non risulta tamponato. Una percentuale che, come per Lodi, può essere una spia importante per quantificare i potenziali asintomatici. Del resto, i conti tornano con quanto rilevato nell’azienda ospedaliera di Padova dal virologo Andrea Crisanti, il teorico dei tamponi a tappeto e della sorveglianza attiva, che hanno fatto del Veneto un modello internazionale: «Fin dall’inizio in ospedale abbiamo testato tutti: ben ottomila tra medici e infermieri. Li abbiamo sottoposti al tampone a cadenza fissa: addirittura ogni sette giorni per chi lavorava nei reparti Covid-19 — ricorda Crisanti —. Il risultato è che il 35% dei sanitari con il Covid-19 è risultato asintomatico».
Le decisioni (obbligate) delle autorità sanitarie
In un momento in cui gli ospedali stanno riaprendo anche agli altri malati, i no Covid-19, la consapevolezza è che medici e infermieri non possono tramutarsi in bombe di virus che rischiano di contagiare colleghi e pazienti ricoverati. In una circolare del 10 marzo Regione Lombardia stabilisce: «Per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19 senza che siano stati usati gli adeguati dispositivi di protezione individuali (Dpi) per rischio droplet o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extralavorativo, non è indicata l’effettuazione del tampone, ma il monitoraggio giornaliero delle condizioni cliniche. In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica». Queste linee guida sono dettate dalla difficoltà, davanti all’elevato numero di sanitari, di fare tamponi di massa. Da non dimenticare neppure l’esigenza di non sguarnire le corsie di personale davanti alle migliaia di pazienti. Ma i risultati di Lodi e dei test sierologici in corso devono far riflettere su come proseguire. La Lombardia riuscirà a potenziare le diagnosi? Quel che è certo è che in assenza di screening a tappeto, nessuno potrà più farsi trovare impreparato nell’uso delle protezioni individuali, a cominciare dalle mascherine. Stavolta non bisogna farsi cogliere di sorpresa.
Lodi, ecco i numeri riservati sui casi sommersi scoperti dopo gli esami sugli anticorpi a tutti i medici e gli infermieri. La stima sull’intera regione parla di oltre 4.000 operatori
Alle 8 di sera del 6 marzo Miriam Villani, 53 anni, caposala di Pronto soccorso e rianimazione, 30 anni di carriera sulle spalle, smonta da 12 ore di turno dopo l’ennesima giornata in cui vede ammalarsi i colleghi uno dopo l’altro: «Solo nel mio ospedale siamo a quota 110 operatori sanitari con il Covid-19 — si sfoga con il Corriere della Sera —. Per aiutarci adesso sono dovute arrivare le forze dell’esercito: medici e infermieri dei carabinieri e dell’aeronautica militare». L’ospedale di Lodi, di cui fa parte anche il presidio di Codogno — dove la sera del 20 febbraio viene trovato positivo al tampone il 38 enne Mattia Maestri, il «Paziente Uno», e che poi viene praticamente chiuso — rappresenta la prima trincea in Europa nella lotta al coronavirus. A due mesi di distanza da quei giorni drammatici i medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. È il dato aggiornato all’8 maggio contenuto nei report riservati di Regione Lombardia. Ma per capire quanti operatori sanitari si sono davvero ammalati, bisogna incrociare un altro numero, ossia quanti sono gli operatori sanitari che sono venuti a contatto con il maledetto virus indipendentemente dalla diagnosi. Un ruolo importante a tal proposito lo gioca il test sierologico che, cercando gli anticorpi IgM e IgG, può rivelare chi si è contagiato anche senza saperlo. Ebbene, risultati alla mano, i positivi salgono da 296 a 373. Vuol dire che 77 operatori sanitari finora sono sfuggiti alle rilevazioni. Sommersi. In sintesi: il 20% dei medici e degli infermieri ha avuto il coronavirus senza saperlo prima d’ora. Uno su cinque. È il dato che, più d’ogni altro fino ad adesso, può essere anche la spia della percentuale di operatori sanitari asintomatici che hanno continuato a lavorare in corsia anche se con il Covid-19. E una stima sull’intera Regione porta a una cifra ancora più alta: uno su tre. Un po’ di pazienza e capiremo il perché.
I numeri (riservati) sui casi sommersi
L’ospedale di Lodi è il primo in Lombardia ad avere completato l’effettuazione del test sierologico su tutti i dipendenti, 2.243. Uno sforzo dettato anche dalla volontà di andare a caccia proprio degli asintomatici. È un’informazione fondamentale per ragionare su come comportarsi nella Fase 2 e, soprattutto, in vista di una possibile ondata di ritorno del virus. La lezione imparata è che gli ospedali, che scontano l’accusa di essere stati diffusori del contagio, almeno d’ora in avanti non possono più esserlo. Così a Lodi vengono contati per la prima volta, lì nell’ospedale di trincea della Regione più colpita, i medici e gli infermieri sfuggiti al tampone. Uno dei motivi dei malati sommersi è sicuramente legato all’impossibilità (o incapacità) durante l’apice dell’epidemia di fare a tutti la diagnosi: a quell’epoca è probabile che chi si è ammalato a casa — senza ricovero in ospedale — sia rimasto senza tampone. Tra i 77 operatori sanitari contagiati scoperti con il test sierologico, dunque, sicuramente ci sono coloro che sono rimasti a domicilio perché con la febbre o altri sintomi senza mai avere avuto la prova di essersi contagiati. Ma non può non essere preso in considerazione il fatto che, per altri, si tratta di asintomatici. Chi rientra nella prima categoria, chi nella seconda al momento è impossibile da sapere. Negli scorsi giorni, ancora una volta in vista della Fase 2, e sempre all’ospedale di Lodi, che oltre a Codogno conta altri due presidi (Casale e Sant’Angelo), sono eseguiti a tappeto anche i tamponi. I 2.243 lavoratori tutti testati. Caso unico per la Regione. Così sono scovati altri 38 contagiati. Al lavoro. Si tratta di 22 infermieri, 3 operatori socio-sanitari, 2 ausiliari, 2 medici, 2 amministrativi, gli altri tecnici. È un’altra informazione preziosa e che non può essere ignorata per decidere il da farsi nel futuro. In modo da riuscire a tutelare al meglio chi è in corsia e chi è ricoverato.
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Cosa dicono le stime per tutta la Lombardia
Dal 23 aprile il governatore Attilio Fontana e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera decidono di utilizzare il test sierologico per screening di massa sugli operatori sanitari. Finora i medici e gli infermieri testati sono 25.331: quelli che risultano essere venuti in contatto con il virus sono 3.506 (il 14% del totale). Oltre a Lodi, i positivi agli anticorpi IgM e IgG sono 1.110 a Bergamo (24,1%), 903 a Brescia (11,2%), 656 a Mantova e Cremona (15,5%), 337 a Pavia (8,4%), 110 a Monza (6,2%), 27 positivi a Sondrio (9,5%). Il dato a prima vista fornisce semplicemente l’indicazione che la percentuale di sanitari contagiati è in linea con la diffusione del virus nelle varie province. Ma è possibile andare oltre la lettura superficiale. Per addentrarci nelle stime. La proiezione di questi numeri sull’intera Lombardia, tenendo conto anche degli ospedali di Como, Varese e Milano che al momento non hanno fornito dati, ci dice che verosimilmente i medici e gli infermieri che sono venuti a contatto con il virus sono almeno 11 mila, ossia il 10% dei 110 mila operatori sanitari pubblici della Lombardia. I casi Covid-19 accertati tra gli operatori sanitari all’8 maggio sono 6.664. All’appello ne mancano oltre 4.300. Ecco, allora, l’indicatore a livello lombardo: oltre il 35% dei sanitari che si è ammalato di coronavirus non risulta tamponato. Una percentuale che, come per Lodi, può essere una spia importante per quantificare i potenziali asintomatici. Del resto, i conti tornano con quanto rilevato nell’azienda ospedaliera di Padova dal virologo Andrea Crisanti, il teorico dei tamponi a tappeto e della sorveglianza attiva, che hanno fatto del Veneto un modello internazionale: «Fin dall’inizio in ospedale abbiamo testato tutti: ben ottomila tra medici e infermieri. Li abbiamo sottoposti al tampone a cadenza fissa: addirittura ogni sette giorni per chi lavorava nei reparti Covid-19 — ricorda Crisanti —. Il risultato è che il 35% dei sanitari con il Covid-19 è risultato asintomatico».
Le decisioni (obbligate) delle autorità sanitarie
In un momento in cui gli ospedali stanno riaprendo anche agli altri malati, i no Covid-19, la consapevolezza è che medici e infermieri non possono tramutarsi in bombe di virus che rischiano di contagiare colleghi e pazienti ricoverati. In una circolare del 10 marzo Regione Lombardia stabilisce: «Per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19 senza che siano stati usati gli adeguati dispositivi di protezione individuali (Dpi) per rischio droplet o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extralavorativo, non è indicata l’effettuazione del tampone, ma il monitoraggio giornaliero delle condizioni cliniche. In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica». Queste linee guida sono dettate dalla difficoltà, davanti all’elevato numero di sanitari, di fare tamponi di massa. Da non dimenticare neppure l’esigenza di non sguarnire le corsie di personale davanti alle migliaia di pazienti. Ma i risultati di Lodi e dei test sierologici in corso devono far riflettere su come proseguire. La Lombardia riuscirà a potenziare le diagnosi? Quel che è certo è che in assenza di screening a tappeto, nessuno potrà più farsi trovare impreparato nell’uso delle protezioni individuali, a cominciare dalle mascherine. Stavolta non bisogna farsi cogliere di sorpresa.
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