Kobe Bryant, quei trofei che non dicono tutto: una carriera da dominatore
E' stato il prototipo dell’asso autentico, attento a qualsiasi dettaglio. Da bambino aveva vissuto in Italia, spesso tornava nel paese con cui aveva un legame speciale
Quarantun anni, ex giocatore da meno di quattro, ritirato nell’estate del 2016, Kobe Bryant è stato uno dei più grandi assi della storia Nba. Cinque titoli dicono molto, ma non tutto, della sua gloriosa parabola sportiva: la tripletta 2000, 01 e 02 e la doppietta 2009 e 2010. Fu dominante, nei suoi anni in campo, il migliore della sua decade: un nuovo Michael Jordan, nel pantheon del Gioco, o il migliore prima dell’avvento del nuovo astro, LeBron James. Colpiva anche la sua rara fedeltà a una stessa maglia che, nella Nba, non è più merce diffusa: vent’anni coi Lakers, fino a identificarsi come simbolo della stessa squadra gialloviola, uno dei club più fascinosi della lega. Uscito lui, nel 2016, solo declino. Ci sta riprovando a riportare il club in alto LeBron, appunto. Non serviva uno da meno.
Bryant era stato il prototipo dell’asso autentico, in vita. Esigente coi compagni, perché aveva già dimostrato loro di esserlo soprattutto con se stesso. Chiedeva tutto perché dava tutto. Maniacale nel lavoro di preparazione in palestra, attento nella percezione d’ogni minimo dettaglio tattico, capace di giocarsi una stagione in un tiro, o di accettarlo, perché quello tocca ai predestinati di ciascun gioco. E di metterlo a segno. Aveva fatto la fortuna dei Lakers, anche quando, vinti i primi titoli in accoppiata con Shaquille O’Neal decise di sciogliere la ditta col gigantesco pivot e, in qualche modo, lo impose al management. Si sentiva di andare avanti da solo. La vera forza era lui. Vinse di nuovo.
Teneva anche alla nazionale e ne trasse due medaglie d’oro olimpiche con gli Stati Uniti (Pechino 2008 e Londra 2016), che segnarono un apogeo d’autentica felicità. Da americano di mondo, conosceva non solo gli Stati Uniti, ma il pianeta, e tutto il suo sport, perché era stato un bambino non solo americano, creando anzi proprio con l’Italia una singolare appartenenza. Figlio di Joe, giocatore professionista, aveva vissuto dai 6 ai 13 anni fra Rieti e Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, imparando bene l’italiano, facendo qui elementari e medie, oltre al minibasket, diventando tifoso del Milan. Tornava spesso in Italia, aveva un legame speciale con Ettore Messina che nel 2011 era andato nello staff degli allenatori dei Lakers e ricordava ieri come con lui Kobe fosse tanto accogliente da parlare soprattutto in italiano.
E' stato il prototipo dell’asso autentico, attento a qualsiasi dettaglio. Da bambino aveva vissuto in Italia, spesso tornava nel paese con cui aveva un legame speciale
Quarantun anni, ex giocatore da meno di quattro, ritirato nell’estate del 2016, Kobe Bryant è stato uno dei più grandi assi della storia Nba. Cinque titoli dicono molto, ma non tutto, della sua gloriosa parabola sportiva: la tripletta 2000, 01 e 02 e la doppietta 2009 e 2010. Fu dominante, nei suoi anni in campo, il migliore della sua decade: un nuovo Michael Jordan, nel pantheon del Gioco, o il migliore prima dell’avvento del nuovo astro, LeBron James. Colpiva anche la sua rara fedeltà a una stessa maglia che, nella Nba, non è più merce diffusa: vent’anni coi Lakers, fino a identificarsi come simbolo della stessa squadra gialloviola, uno dei club più fascinosi della lega. Uscito lui, nel 2016, solo declino. Ci sta riprovando a riportare il club in alto LeBron, appunto. Non serviva uno da meno.
Bryant era stato il prototipo dell’asso autentico, in vita. Esigente coi compagni, perché aveva già dimostrato loro di esserlo soprattutto con se stesso. Chiedeva tutto perché dava tutto. Maniacale nel lavoro di preparazione in palestra, attento nella percezione d’ogni minimo dettaglio tattico, capace di giocarsi una stagione in un tiro, o di accettarlo, perché quello tocca ai predestinati di ciascun gioco. E di metterlo a segno. Aveva fatto la fortuna dei Lakers, anche quando, vinti i primi titoli in accoppiata con Shaquille O’Neal decise di sciogliere la ditta col gigantesco pivot e, in qualche modo, lo impose al management. Si sentiva di andare avanti da solo. La vera forza era lui. Vinse di nuovo.
Teneva anche alla nazionale e ne trasse due medaglie d’oro olimpiche con gli Stati Uniti (Pechino 2008 e Londra 2016), che segnarono un apogeo d’autentica felicità. Da americano di mondo, conosceva non solo gli Stati Uniti, ma il pianeta, e tutto il suo sport, perché era stato un bambino non solo americano, creando anzi proprio con l’Italia una singolare appartenenza. Figlio di Joe, giocatore professionista, aveva vissuto dai 6 ai 13 anni fra Rieti e Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, imparando bene l’italiano, facendo qui elementari e medie, oltre al minibasket, diventando tifoso del Milan. Tornava spesso in Italia, aveva un legame speciale con Ettore Messina che nel 2011 era andato nello staff degli allenatori dei Lakers e ricordava ieri come con lui Kobe fosse tanto accogliente da parlare soprattutto in italiano.
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