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Attenzione: Calcio Inside! Parte III
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Anche la mancanza di competenza come dici può essere uno dei motivi. Vidal è andato in età avanzata (per lui, dato che non ha uno stile di vita alla CR7), griezmann nella stessa squadra di messi praticamente non ha senso, con dembele sono stati sfortunati e su Coutinho altro errore pagarlo tutti quei soldi. Vero che due come Iniesta e xavi per ovvi motivi non li trovi, ma almeno prende qualche campione in quella zona...
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Comunque pare che c'era una sorta di accordo tra il Barcellona e messi su quest'anno, che hanno messo anche in forma scritta ma probabilmente fissando una data che in condizioni normali sarebbe coincisa con la fine della stagione... Poi il barca si sarebbe appellato a quella data e ok, ma l'accordo informale c'era tipo come Ronaldo-Real
Così sembra almeno
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Andrea Pirlo will give Sami Khedira a chance during the season preparations. Sami wants to stay at Juventus & impress the Italian coach. Khedira's contract with Juventus expires in 2021 & there’s an option to extend it for another year. (kicker)...ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
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forse, tra mille inverni
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta»
C. Campo - Moriremo Lontani
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Mercato in stallo per Milan e Lazio: tutto fermo per Bakayoko, Inzaghi nervoso con Lotito
De Laurentiis aspetta la mossa del Manchester City per Koulibaly: vuole 80 milioni. Rossoneri pronti all’alternativa Florentino
Napoli, De Laurentiis aspetta il City: per Koulibaly 80 milioni
«Koulibaly? Un giornale inglese mi ha chiesto notizie mezz’ora fa, ma gli ho detto che il City sostiene che non può parlare con noi per via del problema Jorginho. Quindi come può esserci una negoziazione seria per un calciatore?». Il presidente Aurelio De Laurentiis svela il retroscena sul rallentamento della trattativa fra gli inglesi e il Napoli per il difensore senegalese: la mancata cessione di Jorginho due anni fa alla squadra di Manchester poi surclassata dal Chelsea sta compromettendo la vendita del difensore. De Laurentiis attende 80 milioni da reinvestire sull’innesto di Papastathopoulos dell’Arsenal e sull’assalto a Veretout della Roma. Il centrocampista costa 30 milioni, per ora i giallorossi lo considerano incedibile e fanno muro. Sarà così anche a fine mercato?
Milan, tutto fermo per Bakayoko, l’alternativa è Florentino
Il Milan continua a guardarsi in giro sul mercato. Dopo aver rinnovato il contratto a Ibrahimovic, preso Tonali e ottenuto la firma di Brahim Diaz in prestito dal Real Madrid, ha rallentato il ritmo delle operazioni. Le elevate richieste del Chelsea per il riscatto di Bakayoko (30 milioni) hanno indotto Maldini e Massara a riallacciare contatti con piste già sondate. «Gran giocatore» ha rilevato l’ex capitano del Milan a proposito di Bakayoko. Ma intanto ha incontrato l’agente di Florentino Luis del Benfica e studia il profilo di Soumarè del Lille, squadra in orbita Elliott. Il centrocampista dei blues (in attesa che Marina Granovskaja del Chelsea ammorbidisca le pretese) resta comunque la prima scelta. A breve si definirà la questione secondo portiere: la conferma di Begovic, Sportiello e Mirante le piste da percorrere.
Lazio, il nervosismo di Inzaghi per il ritmo blando di Lotito
Il mercato a ritmo decisamente blando condotto da Claudio Lotito sta creando forti tensioni nella Lazio. Simone Inzaghi — che non ama i modi bruschi — trasmette all’esterno con misura il proprio malumore: «Nel finale della scorsa stagione siamo stati penalizzati dalle gare ogni tre giorni e dagli infortuni. Dobbiamo farne tesoro. Mi sono stati promessi tanti acquisti...». Due di questi, Fares (Spal) e Muriqi (Fenerbahce), sono in arrivo, anche se in ritardo rispetto alle attese del tecnico. Che insiste: «Le altre si stanno muovendo, lo faremo anche noi». Questa impasse sta complicando il rinnovo del contratto di Inzaghi, che scade nel 2021. Lui lo vuole prolungare solo di un anno e chiede 3 milioni netti, il presidente della Lazio Claudio Lotito spinge per portarlo al 2023. E la mancanza di acquisti non aiuta.
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Mercato, la Fiorentina punta al doppio colpo Torreira-Piatek. Il Chelsea ha preso Havertz
I viola, che hanno praticamente chiuso per Bonaventura, sono vicini a entrambi gli obiettivi. Il fuoriclasse tedesco va a Londra per 115 milioni. Milan: si complica Bakayoko, ipotesi Florentino. Samp vicina a Adrien Silva
L'annuncio di Messi ("Resto al Barcellona") rischia di complicare i piani della Juventus in chiave Suarez. Tra le condizioni per la sua permanenza, infatti, avrebbe messo anche l'incedibilità dell'uruguaiano. Se la società, sentito Koeman, deciderà di tornare indietro sui suoi passi i bianconeri, che pure hanno un pre-accordo con l'attaccante, saranno obbligati a virare su Dzeko, un'operazione, dopotutto, dai costi simili. Se il bosniaco accetterà le lusinghe della Juve, darà il via a un domino di attaccanti con Milik che andrebbe alla Roma e Under a Napoli.
Milan: si complica Bakayoko, ipotesi Florentino
Il Milan, che ha ufficializzato Brahim Diaz, sta faticando a chiudere con il Chelsea per riavere Bakayoko, che resta il primo obiettivo per rinfoltire il centrocampo ed affiancare in cabina di regia Tonali. E allora Maldini ha iniziato a muoversi per una via alternativa. Nel pomeriggio ha incontrato l'agente di Florentino, centrocampista del Benfica. I rossoneri puntano a un prestito con diritto di riscatto attorno ai 19-20 milioni ma il club portoghese ha già rifiutato un'offerta simile presentatagli dal Fulham.
Inter, arriva Darmian?
L'Inter, in attesa di chiudere per Vidal, lavora sugli esterni. Dopo Kolarov, potrebbe far arrivare a Milano Mattia Darmian come confermato dal direttore sportivo del Parma Marcello Carli: "C'è un discorso con i nerazzurri impostato dalla scorsa stagione, ne stiamo parlando".
La Fiorentina prova il doppio colpo Torreira-Piatek
In queste ore è particolarmente attiva la Fiorentina che è in chiusura per Bonaventura e sta lavorando per ottenere in prestito dall'Arsenal Torreira, ex Samp. Pradé lavora anche per portare un uomo di grido in attacco: il sogno è Krzysztof Piatek. Con l'Hertha Berlino c'è ancora distanza sul costo del cartellino ma il ds avrebbe già trovato un accordo di massima sulla formula: prestito con obbligo di riscatto. Biraghi, rientrato dal prestito all'Inter, è richiesto dalla Roma.
La Samp vuole Adrien Silva, Caprari al Benevento
La Sampdoria, dopo aver venduto Linetty, punta a dare a Claudio Ranieri un uomo di esperienza a centrocampo: è in corso una trattativa ben avviata con il Leicester per il portoghese Adrien Silva, campione d'Europa nel 2016, che lo scorso anno ha giocato in prestito a Monaco (37 partite) senza però essere riscattato dal club monegasco. Nel frattempo i doriani hanno ceduto in prestito con diritto di riscatto Caprari al Benevento.
Genoa su Czyborra, il Sassuolo ha ceduto Rogerio
Dall'altra parte della città il Genoa, che ha ufficializzato il ritorno di Perin dalla Juve, si è inserito nella corsa all'esterno dell'Atalanta Lennart Czyborra, da tempo nel mirino del Cagliari, offrendo un prestito biennale con obbligo di riscatto a 5 milioni. Il giocatore sta riflettendo e la prossima settimana dovrebbe decidere dove andare. Il Sassuolo ha ceduto Rogerio al Newcastle per 14 milioni di euro. Attivissimo, infine, lo Spezia che ha chiuso per Jacopo Sala, attualmente svincolato e l'ultima stagione alla Spal, e per il difensore centrale albanese Ardian Ismajili con l'Hajduk Spalato.
Chelsea, preso Havertz per 115 milioni
La notizia di mercato della giornata arriva dall'esterno: kai Havertz è ufficialmente passato dal Bayer Leverkusen al chelsea. Un'operazione da 115 milioni complessivi: 90 fissi e 25 di bonus. Il giovane talento tedesco diventa così il calciatore più pagato della storia del Chelsea, battendo il record che apparteneva al portiere Kepa, preso dall'Athletic Bilbao per 80 milioni di euro.
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Juventus, a caccia di low cost: Pirlo aspetta tre colpi
Oltre al centravanti (Suarez o Dzeko), Paratici è alla ricerca di un terzino sinistro e un centrocampista
Le parole di Adrien Rabiot dal ritiro della Francia ("Con Pirlo sono cambiate tante cose, speriamo funzioni e che ci porti lontano, sul tetto d'Europa") testimoniano quanto la Juventus voglia cambiare dopo l'anno con Sarri. Voglia di cambiamento che dovrà essere supportata sul mercato dal lavoro di Paratici, che dopo aver messo le mani su Kulusevski, Arthur e McKennie, 148 milioni se dovessero scattare tutti i bonus e in caso di riscatto dello statunitense, ora deve sfoltire la rosa e abbassare il monte ingaggi. Dopo le cessioni di Pjanic, Matuidi e del giovane Muratore, 8 milioni dall'Atalanta per essere immediatamente girato in prestito alla Reggiana in Serie B, è ormai ai dettagli il trasferimento di Romero sempre alla Dea. Prestito biennale con diritto di riscatto e obbligo legato al numero di presenze: il centrale argentino, che mai ha vestito la maglia della Juventus, era stato acquistato due anni fa dal Genoa per 30 milioni, restando un ulteriore anno in prestito al club rossoblu.
La corsa per l'attaccante
Con il bilancio della scorsa stagione sportiva che segna un passivo di 69 milioni di euro, incassare è necessario per proseguire la caccia all'attaccante, al centravanti che aprirà gli spazi per Ronaldo. Oppure trovare una soluzione low cost, almeno per il costo del trasferimento, paradossalmente rappresentata da Luis Suarez, uno dei migliori interpreti del ruolo negli ultimi anni. La trattativa per il Pistolero ha subito un rallentamento dovuto principalmente ai problemi legati alla cittadinanza: l'uruguaiano ha diritto a quella italiana, viste le origini della moglie Sofia, e a quella spagnola, maturata in quanto titolare da due anni di un contratto di lavoro nel paese iberico. Però i tempi della burocrazia, specialmente ai tempi del Covid, stridono con l'imminente inizio della stagione. Le decisioni di Messi, grande amico di Suarez e prossimo alla permanenza al Barca, non entrano in gioco nella trattativa: Koeman si è esposto con il centravanti, escludendolo dal progetto. Ritrattare sarebbe un segno di debolezza che "Rambo" non può permettersi.
Gli ostacoli per arrivare a Suarez, che comprendono anche la trattativa per la buonuscita dal Barcellona che l'uruguaiano vuole per chiudere il rapporto, stanno alimentando la riscoperta di Dzeko, con cui c'è un accordo economico. La buona riuscita dell'affare è legata alla trattativa tra in Napoli e la Roma per il sostituto del bosniaco, Arek Milik.
Le prossime mosse
Oltre al centravanti, Paratici è alla ricerca di un terzino sinistro e un centrocampista: per la fascia piace sempre l'atalantino Gosens, che si è messo in mostra ieri nel match di Nations League tra la sua Germania e la Spagna. L'Atalanta ha appena ceduto Castagne e tratta Karsdorp, reduce da due gravi infortuni: la trattativa sembra complicata oltre che onerosa. Per il centrocampo, invece, piace l'argentino De Paul, anche se i 40 milioni chiesti dall'Udinese sono un bell'ostacolo. I rapporti tra le due società, che hanno sul tavolo anche il prolungamento del prestito di Mandragora, sono ottimi. In questo mercato post Covid, però, il denaro e il tempo sono le uniche due componenti che scarseggiano a qualsiasi livello.
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Italia-Bosnia: Mancini sbaglia. Nell’aria troppo disordine, il problema del centravanti
Stavolta Mancini ha sbagliato partita: Sensi regista è un azzardo, Pellegrini è interessantissimo, deve però cominciare a pesare sulle partite
di Mario Sconcerti
Stavolta ha sbagliato partita Mancini. La Bosnia nel tempo sta crescendo e Dzeko è ancora un calciatore decisivo, ma l’Italia era sbagliata. Sensi regista è un azzardo, non giocava in quel ruolo da anni. E non è un ruolo che si possa definire in partita. Quella è una posizione decisiva, 2-3 errori a gara mandano in porta gli avversari. Pellegrini è interessantissimo, deve però cominciare a pesare sulle partite.
Non è più una mezza punta che promette. È un centrocampista che deve saper far tutto e mantenere quel che ha promesso. Altrimenti va in difficoltà Barella che è il ragazzo che porta il peso per tutti. In un 4-3-3 con le due ali molto larghe (Chiesa e Insigne) sono necessari gli inserimenti degli interni, altrimenti il centravanti (Belotti) non vede palla, è solo nella difesa slava. Per un’ora non si sono viste né mezzeali né ali intere, solo un piccolo gioco di sponda da mestieranti, come non siamo mai stati nell’epoca di Mancini.
Più compatta la Bosnia che aveva una partita facile, stare in dieci dietro la palla e appoggiare su Dzeko per ripartire. Così facendo la Bosnia è andata più volte di noi vicina al gol. E per questo il risultato è corretto. C’era nell’aria troppo disordine. Gente che ha smesso di giocare un mese fa, gente che ha smesso dieci giorni fa, gente che non ha mai smesso.
Non c’è stata velocità, rapidità di scambi, quella caratteristica che ha fatto dell’Italia di Mancini una squadra diversa. Resta il problema quasi esistenziale del centravanti: non va mai bene nessuno, né Immobile né Belotti, perché ci giriamo intorno, non diamo palloni. Il centravanti è saltato. Mancini ha diviso la sua piccola città di uomini (ben 37 i convocati) in due squadre. Una ha giocato con la Bosnia, l’altra giocherà con l’Olanda, avversario più simile a noi, diverso e di maggior livello. Anche questo contribuisce al disordine ma è organico. Senza pubblico, quindi solo a metà in casa, la Bosnia era e resta un avversario fastidioso.
L’Olanda può dare più opportunità di gioco, fornire più pericoli. Credo che Mancini sia più per quel tipo di partite. Ci son infine domande interessanti, per esempio l’eventuale ruolo di Lippi in Nazionale. E ancora il nuovo centro tecnico della federazione a Roma, appena affidato a Tardelli. In un colpo solo Coverciano è quasi scomparso. È modernità o è un peso Coverciano?
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Le vere ragioni per cui Messi resta al Barcellona
Una faida. Una richiesta fatta a Guardiola, divenuta impossibile. E un destino unico. C’è tutto questo, dietro alla resa di Messi
di Sandro Modeo
Quello che sembrava un crash epocale si è tradotto in una delle reiterate crisi reversibili tra Messi e il Barcellona. Certo, di gran lunga la più acuta e la più prossima a sfociare davvero nel divorzio. Ma si tratta di una crisi solo in parte inimmaginabile e sorprendente, come si può verificare ripercorrendo le metamorfosi incrociate della Pulce e della società lungo il «ventennio» appena concluso e scavando negli snodi effettivi che hanno condizionato il possibile exit.
La faida e le metamorfosi incrociate
Da un lato, la metamorfosi del giocatore. Il Messi che approda a Barcellona nel 2000 è somaticamente un doppio (vedi pettinatura) dell’attore Mitchel Musso, il protagonista della sit-com Hannah Montana. Un bambino-adolescente timido e/o introverso ai limiti dell’autistico che si abbandona a lunghi pianti notturni nel segreto di una stanza della casa paterna (il resto della famiglia è tornato a Rosario), ma passa giornate esaltanti coi compagni della Masia a manifestare (e affinare) la sintassi prodigiosa della sua corsa e della sua tecnica. Vent’anni di successi e di crescente ricchezza-responsabilità affettiva (i tre figli, il matrimonio), ma anche di lutti e passaggi difficili e dolorosi (la perdita del suo primo mentore Tito Vilanova; due Mondiali diversamente falliti con l’allungarsi permanente dell’ombra del Pibe de Oro; la condanna — seppure «patteggiata» — per i reati fiscali operati dal padre) l’hanno insieme rafforzato e disilluso. L’adolescente semi-autistico — pur conservando alcuni suoi tratti eternamente infantili — è diventato lentamente un uomo, insieme risolto e tormentato.
Non solo. Sono vent’anni in cui è anche cresciuta via via esponenzialmente la sua influenza — la sua capacità di condizionamento — nel Barça, con un’estensione della sua leadership dal campo all’ ambito societario e la sua «voce» spesso consultata nella scelta dei tecnici e nelle opzioni di mercato. Una sintesi iconica del processo può essere resa dal crescendo delle diverse case: l’appartamento — già generoso — di Gran Via de Carles III (prossimo al Camp Nou), quello della sindrome da abbandono e della «stanza del pianto»; la villetta con giardino nel lussuoso sobborgo collinare di Castelldefels, a 50 metri da quella del suo idolo (e secondo mentore) Ronaldinho; lo «sviluppo» della stessa nell’ avveniristica casa-stadio progettata da Luis de Garrido.
Un’influenza, però, nelle ultime stagioni indebolita e intaccata, come mostrano cessioni e acquisti (Neymar e Griezmann) o avvicendamenti tecnici (Setién per Valverde) non graditi alla Pulce. Una «lesa maestà» che ha fatto da detonatore all’attuale «crisi» del rapporto: non la prima, ma certo — per vari fattori, a cominciare dall’età del giocatore — la più acuta.
Dall’altro, appunto, la metamorfosi del Barça. Quando Messi affronta il suo tortuoso ingresso nel club (tra fan immediati e osteggiatori scettici) siamo nel pieno del lungo mandato di Joan Laporta (2003-2010), il presidente amico-sodale di Cruijff e poi sostenitore-promotore di Pep Guardiola. La situazione comincia a mutare — come racconta Cruijff stesso nella sua autobiografia — col passaggio della poltrona al successore (e a lungo vice) di Laporta, Sandro Rosell (i due avevano già avuto contrasti in precedenza, quando Rosell — dirigente della Nike Sud America — voleva portare Scolari al Barça al posto di Rijkaard: tecnicamente e «filosoficamente» una bestemmia). Con Rosell — riassume Cruijff, che si dimette quasi subito da Presidente onorario — rientra nel club «la politica», nel dettaglio il profilarsi di una «vendetta» (tra ragioni ideologiche e di potere) verso la gestione precedente, tanto che Rosell vorrebbe cambiare tecnico e impostazione tattica, impedito nell’intento solo dai successi di Pep (e dalla radiance del suo gioco).
Con l’avvento di Josep Bartomeu (a sua volta vice di Rosell nel 2010-14 e capace di sconfiggere una ricandidatura di Laporta nel giugno 2015), il conflitto tra fazioni sale ai livelli della faida, come riassume l’affaire nero svelato da Cadena Ser (e su cui è tornata in queste ore la polizia catalana): il milione di euro versati da Bartomeu e dall’attuale board alla società I3 per screditare via social Messi, Xavi, Guardiola: la quintessenza del Barça erede di Cruijff.
Del resto, a sintesi di tutto può valere la testimonianza del genero dello stesso Cruijff, il portiere blaugrana Jésus Angoy, sui «rapporti pessimi» tra il Padre Fondatore del Barça e Bartomeu. Il crossing over — la metamorfosi incrociata — di Messi e del Barça matura così nel tempo un redde rationem tra la Pulce (il suo Barça) e la presidenza.
Diverse ferite, nello scorso agosto, acuiscono la tensione e irritano/spoetizzano Messi: il 2-8 col Bayern; la cessione — dopo Neymar — di un altro compagno e amico, il Pistolero Suarez, scaricato da Koeman; la stessa frase liquidatoria del nuovo tecnico, suonata alla Pulce come una «lesa maestà» definitiva («I privilegi in rosa sono finiti, sarò inflessibile, devi pensare alla squadra»); frase — peraltro — avventata, tanto da costringere poi Koeman (in coerenza con la linea «realistica» di Bartomeu) a dichiarare di voler ripartire, nel nuovo Barça, proprio dalla centralità di Messi.
In un simile contesto, lo scopo primario di Messi è stato a lungo ed è tuttora quello di rovesciare Bartomeu e il board per ripristinarne uno a lui empatico, il tutto minacciando di andarsene «a costo zero».
Il punto è che quella strategia sarebbe stata possibile (secondo contratto) fino a giugno: dopo quella data (apparsi giuridicamente controversi o quanto meno discrezionali i tentativi di Messi e del padre Jorge di estendere quella possibilità nel tempo, data l’eccezionalità di una stagione dilatata dal COVID-19), la clausola rescissoria di 700 milioni è tornata a stagliarsi come una montagna invalicabile: l’unica, parziale attenuante è che il giocatore non volesse ledere la coda della stagione in corso (Champions in primis).
In quel momento, la Pulce (e il padre) sembrano disunirsi e perdere lucidità, giocando ambiguamente tra l’exit come una minaccia retorica e una possibilità effettiva. Forse, fino a un certo punto credono che la sola ipotesi possa smuovere tifoseria culé e opinione pubblica catalana fino a portare alle dimissioni di Bartomeu. Ma è un’illusione che cade presto: anzi, una parte della stessa tifoseria si scaglia contro il giocatore, tra l’accusa di tradimento e quella di nuocere alla società privandola dell’entrata dei 700 milioni della clausola rescissoria.
Svanita la minaccia retorica, resta solo la ricerca di una possibilità effettiva.
Andarsene, dunque: ma dove?
A lungo, si è parlato di diverse opzioni e delle relative motivazioni/suggestioni, dal PSG (dove Messi avrebbe ritrovato gli amici Di Maria e Neymar) all’Inter (per uno «scontro finale» in terra italiana con CR7).
Ma non c’è dubbio che l’unica ipotesi da subito più percorribile e per molti versi più intrigante sia stata quella di tornare dal «padre» adottivo Pep, dal suo maieuta principe. Un’ipotesi che ha presentato subito aspetti problematici sul piano tecnico ed economico-finanziario, ma che ha retto fino all’ultimo per il rapporto molto particolare tra le due figure in questione. Perché il desiderio — da parte di molti appassionati — di vedere di nuovo insieme il più grande «direttore d’orchestra» del calcio contemporaneo e un «primo violino» che è in realtà, da solo, l’intera sezione degli archi (di sentire di nuovo quel «suono») ha velato il fatto che a ben guardare i loro «piani» per i prossimi anni non siano del tutto convergenti, ma anzi — almeno in parte — confliggano.
Il rapporto con Guardiola, dalle risatine alle lacrime nascoste
Il rapporto tra Pep e la Pulce non è subito empatico. Durante il ritiro scozzese del primo anno di Pep (Saint Andrews, estate 2008), il tecnico impone rigore e disciplina a ogni livello: in campo, in particolare, comincia a impostare i princìpi del suo «gioco di posizione»; princìpi che destano nella Pulce indifferenza e scetticismo, se non irrisione (lo si vede un paio di volte «sghignazzare»). In più, il ragazzo si chiude in uno dei suoi silenzi enigmatici e ricattatori (uno dei suoi proverbiali «musi» allusivi): Pep prova a farlo aprire, ma riceve come risposte solo silenzi reiterati e «sguardi ostili».
Il motivo di quella chiusura ermetica — come il tecnico intuirà in fretta — è il desiderio del giocatore di andare ai giochi di Pechino con l’albiceleste: desiderio frustrato dal divieto del Barça, che vorrebbe impiegarlo nei preliminari Champions. D’accordo con Laporta, Pep darà il placet («Non potevamo permetterci di sottovalutare la sua insoddisfazione») ottenendo due obiettivi in un colpo solo: disporre, al ritorno dai Giochi, di un Messi iper-motivato (con la medaglia d’oro al collo) e conquistare la sua fiducia, impostando un profondo legame affettivo-emotivo. Da quel momento (anche in coerenza con l’insegnamento dell’amico Julio Velasco, per cui «trattare tutti i giocatori allo stesso modo» è una solenne ipocrisia), Pep diventa il vero maestro e confidente della Pulce.
Alcune figure sono state decisive nell’acquisirlo contro le resistenze di parte della società (Charly Rexach, col «precontratto» stilato sul tovagliolo di carta di un caffè del tennis club Pompeya di Barcellona; o Joan Lacueva, direttore del settore giovanile che crede in lui al punto da sborsare di tasca propria i 2000 euro necessari per fargli riprendere la cura di ormoni della crescita iniziata in Argentina); altre hanno cominciato a modularne l’immenso talento verso una maggiore integrazione nelle dinamiche di squadra (Tito Vilanova, il primo a schierarlo come attaccante «totale» e non di fascia); ma è Pep a farlo diventare ciò che è, a determinare le ultime sequenze della trasformazione da crisalide in farfalla.
Un processo che avviene su due versanti tra loro connessi. Il primo è quello tecnico-tattico, con Pep che immola a Messi tutto il fronte offensivo blaugrana di quegli anni (subito Ronaldinho e Deco, poi Eto’o e Henry, poi ancora Ibra, a tacere di promesse come Bojan) ottenendo in cambio l’esplosione delle sue qualità ai massimi gradi, che ne fanno un «giocatore che attraversa i muri» (come si diceva del rugbista Barry John) in una squadra che i muri li attraversa col suo possesso-fraseggio «quantistico».
L’altro è il versante atletico-fisiologico e comportamentale-psicologico, con Pep che educa Messi a diete più sane e a «ascoltare il proprio corpo» per prevenire infortuni fino a quel momento troppo frequenti (per esempio insegnandogli a «dosare» le accelerazioni-diversioni da velocista, molto dispendiose sul piano respiratorio e lattacide), ma che affina a sua volta la capacità di decifrare i silenzi e il codice sfingeo della Pulce (le risposte a monosillabi, gli sguardi sfuggenti o aperti, e così via).
Ne deriverà — ben compendiata in una toccante foto da spogliatoio (che vedete qui sopra) — una sintonia ai limiti della dipendenza reciproca: per Pep, dal massimo interprete del suo calcio sinfonico (l’esecutore-moltiplicatore ideale della concezione secondo cui «il centravanti è lo spazio»); per Messi, da un concertatore-maieuta senza pari, l’unico in grado di empatizzare in modo «molecolare» con la sua tecnica di calciatore-violinista e con le sue discontinuità umorali.
Tutto si condensa nel giorno dell’addio di Pep, 27 aprile 2012: dopo la seduta di allenamento, il tecnico in una conferenza affollata ratifica l’exit, spiegandolo con l’esaurirsi di energie nervose e motivazioni. Tutti i presenti rimangono colpiti da un fatto: tra i giocatori in ascolto (a partire dai capitani: Valdés, Xavi, Iniesta e Puyol) manca proprio la Pulce.
Alla prevedibile richiesta di spiegazioni, Pep mette una pezza romantica, riferendosi anche ai tanti sms ricevuti dal giocatore in quei giorni («Leo è qui! È qui! E in questi giorni ho ricevuto grandi dimostrazioni di affetto»); e più tardi circolerà una giustificazione «logistica» (su un «difetto di comunicazione» tra giocatori).
In realtà, un post-Facebook della Pulce di qualche ora dopo sembra chiarire in altro senso: «Sono immensamente grato a Pep per tutto quello che ha fatto, per la mia carriera e per la mia vita. Sono così emozionato che ho preferito non partecipare all’annuncio ufficiale. Volevo soprattutto evitare la stampa, perché sapevo che avrebbero scrutato i nostri volti in cerca di tristezza. E io voglio mantenere il riserbo sui miei sentimenti». Come molte altre volte (il buio di una stanza, la maglia girata sulla testa) la Pulce occulta il suo pianto; e per un «afasico» come lui, quelle poche frasi hanno la densità di un epos.
La richiesta (impossibile) a Pep
Da allora, Pep e Messi si sono incontrati forse una sola volta, all’inizio del 2013, per il gala del Pallone d’Oro; anche se il loro «dialogo» è proseguito a distanza, attraverso pensieri (ricordi) intimi e periodici, reciproci «esercizi di ammirazione» in pubblico.
Fino alla settimana sorsa, quando la Pulce lo ha chiama «sondando» un passaggio al City già pensato — lo ricordano in pochi — nell’estate 2016, quando Pep sta per approdare a Manchester e Messi e il padre (ancora storditi dalla sentenza per i reati fiscali) annunciano un’uscita dalla Catalogna poi rientrata. Un precedente «attenuato» del tentativo di questi giorni e dei citati piani (almeno in parte) divergenti.
Da quello che si legge e da quello che arriva per fonti non ufficiali, Pep avrebbe programmato di restare a Manchester fino al giugno 2021, secondo contratto (e secondo prassi, visto che ha sempre rispettato i contratti). Il suo obiettivo principale — dopo la conquista di due Premier-monstre contro avversari-monstre come il Liverpool di Klopp, attraverso un gioco non meno esaltante di quello del Barça — è tentare un’ultima volta la conquista della Champions con una seconda squadra; con un team che non sia il Barça di Xavi, Iniesta e Messi stesso, per mostrare di poter vincere in Europa anche senza di loro.
Dopo di che, prenderebbe in considerazione un rientro in Catalogna per varie ragioni: strettamente tecnico-agonistiche (il quinquennio di Manchester è già un record di permanenza e considera il ciclo inglese, di fatto, esaurito); personali-psicologiche (sembra stanco della pioggia di Manchester e vorrebbe ricomporre la famiglia, ora per lunghi momenti separata, con moglie e figlia spesso a Barcellona); e politico-societarie, coll’intento di rinsaldare nel Barça un ritorno del «partito di Cruijff», se alle elezioni del marzo prossimo Bartomeu sembra destinato a soccombere di fronte a candidati comunque della fazione avversaria (Tony Freixa o lo stesso Laporta).
In questo disegno, ritroverebbe la Pulce tra un anno, per «gestirne» il tramonto in un Barça rifondato e tornato all’identità più profonda. Il tutto dando per scontati passaggi che non lo sono affatto (il transito temporaneo di Koeman) e con ulteriori incognite, insieme eccitanti e destabilizzanti: Pep tornerebbe come coach o con incarichi da «supervisore» dirigenziale, favorendo l’innesto di Xavi in panchina?
La Pulce, da parte sua, ha sperato in un ricongiungimento col Maestro per diversi motivi: andare in un team al momento più strutturato e competitivo di un Barça in disfacimento e in caos da diaspora (De Jong dixit); tentare di rivincere la Champions; tentare di vincere ancora uno-due Palloni d’Oro per distanziare definitivamente CR7 (nel Barça attuale non gli sembrano più alla portata); chiudere la carriera andando contro se stesso, cioè uscendo dalla «placenta» protettiva di Barcellona per una sfida che arricchisca il suo cursus e lo completi non solo come calciatore.
Tutto questo, però, avrebbe impattato sul «piano» di Guardiola con una serie di cortocircuiti.
La sua richiesta — pare —di un triennale «protetto» da Pep avrebbe costretto il tecnico a prolungare innaturalmente di due anni un mandato che considera, come detto, in esaurimento.
Inoltre, l’impossibilità da parte del City di corrispondere i 700 milioni della clausola (oltretutto nell’anno della diatriba sul Fairplay finanziario violato) avrebbe costretto la società a uno scambio sanguinoso, con l’uscita di giocatori-cardine all’apice della carriera (vedi Bernardo Silva) e la coazione quasi certa a una panchina corta e carente. In tanti hanno notato come l’acquisizione di Messi — del Messi attuale, va aggiunto, non di un Messi 23 enne — non rappresenti il bisogno primario di una squadra che per arrivare all’agognata Champions dovrà lavorare sulla fase difensiva sia con migliori meccanismi collettivi sia con l’acquisizione di individualità più convincenti (vedi Koulibaly).
Siamo — sia chiaro — alle interpretazioni e alle osservazioni indiziarie. Ma non è improbabile che Pep — pur fortemente tentato dal riabbracciare subito Leo, così come la dirigenza del City, inebriata da un’operazione di così alto valore mediatico-romantico — l’abbia alla fine esortato a un’opzione pragmatico-realistica.
Senza dimenticare due fattori non secondari. Primo: se Pep avesse rivinto (o dovesse rivincere) la Champions di nuovo con Messi, resterebbe per sempre inchiodato, almeno quanto ai risultati, all’addiction dal miglior giocatore allenato; né varrebbe, come contro-argomentazione, il fatto che anche Messi senza Pep ne abbia vinta solo una nel 2015, a tacere dei deragliamenti in Nazionale.
Secondo: da catalano e barcellonista doc, non soffierebbe a cuor leggero il calciatore-mito alla società cui deve tutto, e dove — presto o tardi — tornerà in pianta stabile. Un «tabù» che si sposa — a convergenza — con quello espresso dalla Pulce nel comunicato finale: «Non potrei mai andare in tribunale contro il club della mia vita».
Il destino del «grande argentino» del Barça
Alla fine, la permanenza obtorto collo di Messi a Barcellona — di fatto uno «stand by» annuale — sembrerebbe convenire a tutti. Al City, per i motivi (soprattutto tecnici) di cui s’è detto; a Bartomeu e all’attuale board, che eviteranno di passare direttamente dalla cronaca alla Storia solo per aver perso il più grande calciatore della parabola blaugrana; a Koeman, che al di là delle avventate dichiarazioni iniziali avrà un bisogno disperato della Pulce, specie in un Barça in declino. Forse, il più penalizzato da questa situazione sarà proprio Messi, che — al netto, chi sa, di un’ulteriore «adeguamento» economico — rischia in effetti di sprecare un anno; e un anno, alla sua età agonistica, vale doppio o triplo.
In fondo, però, si può vedere in tutto questo — nell’eventuale costrizione, per Messi, a concludere la carriera in blaugrana —un senso di esattezza, di «necessità», almeno a posteriori.
Dei tre grandi argentini (tre dei primi dieci, secondo molti addirittura dei primi cinque, nel Pantheon globale di sempre) uno ha solo lambito il Barça (Di Stefano, poi diventato emblema del primo Real «galactico») e un altro è transitato brevemente e in modo drammatico (Maradona, poi diventato leggendario in un altro teatro, il San Paolo di Napoli). Non per generico «destino», ma per un intreccio preciso di forze e fattori (la tenacia della Pulce stessa e di chi lo ha sostenuto, Pep in testa; il momento storico del club; la convergenza con altri grandi giocatori blaugrana compatibili con lui), il «grande argentino» del Barça doveva essere lui — nessun altro.
Per approfondire
Guillem Balague, Pulce, Piemme, 2014; edizione aggiornata 2018 nel volume con la biografia di Ronaldo (sempre Piemme).
Johan Cruyff, La mia rivoluzione (L’autobiografia), Bompiani, 2016, in tascabile 2018.
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Originariamente Scritto da Ferdix Visualizza Messaggioanche io vorrei assicurarmi una stagione lautamente pagata con qualche scatto e poi rompermi serenamente...ma di noi
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Diritti tv, la Premier League rompe con Pptv di Suning per una mancata rata da 180 milioni
La Premier League sparisce dalle televisioni cinesi. Il massimo campionato di calcio inglese non verrà più trasmesso da Pptv, l’emittente del network Suning, ovvero della proprietà dell’Inter. La risoluzione dell’accordo è stata annunciata dai vertici stessi della Premier League e le cause sono da ricercare in un mancato pagamento da parte della tv cinese. Una somma pari a circa 180 milioni di euro, quella che non è stata versata nelle casse della Premier come rata finale per la stagione 2019/20. Una somma che Pptv avrebbe dovuto versare già a marzo e che invece, a causa della pandemia di Covid-19, non ha versato nemmeno ora che si è alle soglie della nuova stagione.
“La pandemia ha generato delle sfide che si ripercuotono sulle trattative”, ha replicato Pptv, che poi aggiunge: “Le parti non riescono a trovare un accordo sul prezzo. Abbiamo pagato anticipatamente i diritti come da contratto”. L’accordo, in vigore a partire dalla stagione 2019/20, prevedeva una partnership triennale per complessivi 564 milioni di sterline, pari a oltre 630 milioni di euro. Una cifra che Pptv avrebbe voluto rivedere al ribasso, data la crisi causata dalla pandemia di Covid-19. Sul fronte inglese, invece, la ripresa della stagione a porte chiuse per poter concludere il campionato è stata considerata una ragione valida per pretendere l’intera somma prevista dal contratto. Uno scontro che ha portato così alla definitiva rottura, con la Premier League che si avvia a cominciare senza andare in onda in Cina.
Il contratto con Pptv era il più remunerativo accordo televisivo regionale nella storia del calcio. Il precedente accordo in Cina (con Super Sports Media) aveva un valore di soli 24 milioni di dollari annui, per un totale di circa 145 milioni di dollari previsti dal contratto della durata di sei anni. In generale, la Premier League detiene i contratti più ricchi del mondo nella distribuzione dei diritti all’estero. In particolare i più significativi sono quello da 1 miliardo di dollari in 7 stagioni per il mercato statunitense, ovvero 167 milioni di dollari a stagione, 133 milioni di dollari arrivano invece da Hong Kong dove il contratto triennale è stato siglato a 400 milioni di dollari l’anno. Stesso importo per Medio oriente e Nord Africa, mentre in Francia il triennale vale 110 milioni di dollari all’anno.
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E anche Bellinazzo conferma che è stata la Premier a tagliare i ponti con la società televisiva controllata da Suning....ma di noi
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Originariamente Scritto da Giampo93 Visualizza MessaggioDiciamo che si è chiusa la vena - lo schiaffo dello sceicco, che si è fatto beffe di una clausola che i catalani ritenevano iperbolica, li ha stravolti - ed hanno speso un po' (tanto) random.
A vedere griezzman che taglia in profondità e viene, puntualmente, ignorato, mi piange il cuore quasi quanto al Cholo
Hanno perso la serenità dopo il caso NeymarOriginariamente Scritto da Seanfaccini, kazzi, fike, kuli
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