allegri non è stato crocifisso tanto per le risposte quanto per il gioco di merda che non stuzzicava adani
Attenzione: Calcio Inside! Parte III
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Originariamente Scritto da SPANATEMELAparliamo della mezzasega pipita e del suo golllaaaaaaaaaaaaazzzoooooooooooooooooo contro la rubentusOriginariamente Scritto da GoodBoy!ma non si era detto che espressioni tipo rube lanzie riommers dovevano essere sanzionate col rosso?
grazie.
PROFEZZOREZZAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
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Originariamente Scritto da Sean Visualizza MessaggioAllegri in tutta la sua carriera (pure nell'ultimo Milan) non è mai e dico mai stato trombato ai gironi di champions.
Quando sento dire che come allenatore non è bravo come Conte non so se ridere o piangere.
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Originariamente Scritto da INFILATEMELO Visualizza Messaggioallegri non è stato crocifisso tanto per le risposte quanto per il gioco di merda che non stuzzicava adani
Prima della partita con l'Ajax ci fu la rimonta con l'Atletico, uno dei capolavori di Allegri: credo che ogni critica sia legittima purchè rispettosa dell'intelocutore. Inoltre, come vediamo anche con Conte, si giustifica certo nervosismo col clima del dopopartita...un tatto che con Allegri non è stato usato....ma di noi
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C. Campo - Moriremo Lontani
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Originariamente Scritto da Zbigniew Visualizza Messaggio@Nasser
Ieri sera si è verificata la premessa maggiore. A giudicare poi da come Conte si è presentato ai microfoni di Sky si potrebbe a breve verificare la premessa minore.
E in quel caso vedremo a giugno se ho avuto ragione.
Se l'avrò, vorrebbe dire che sai volare.
domanda per te, faresti a scambio dybala per pogba? serio.(ride)
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Milan Olè!!!
"Pensare alla morte, pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane.
Io non l'ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:
vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori".
(L. Pirandello)
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Leao è entrato in campo con la sua solita voglia di sbranare il mondo...
"Pensare alla morte, pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane.
Io non l'ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:
vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori".
(L. Pirandello)
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Certo che fare un triennale da 12 milioni all'anno ad uno che 9 su 10 non supera i gironi di Champions....
Mamma miaOriginariamente Scritto da Marco pli 200 kg di massimale non siano così irraggiungibili in arco di tempo ragionevole per uno mediamente dotato.Originariamente Scritto da master wallaceIO? Mai masturbato.Originariamente Scritto da master wallaceIo sono drogato..
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Originariamente Scritto da germanomosconi Visualizza MessaggioCerto che fare un triennale da 12 milioni all'anno ad uno che 9 su 10 non supera i gironi di Champions....
Mamma mia
Quanto cavolo è sopravvalutato , madonna santa
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Originariamente Scritto da Sean Visualizza MessaggioSì, però allora ad Adani piace il calcio di Conte? Non mi pare esattamente il calcio bailado che tanto ama commentare Adani comodamente seduto sul suo scranno.
Prima della partita con l'Ajax ci fu la rimonta con l'Atletico, uno dei capolavori di Allegri: credo che ogni critica sia legittima purchè rispettosa dell'intelocutore. Inoltre, come vediamo anche con Conte, si giustifica certo nervosismo col clima del dopopartita...un tatto che con Allegri non è stato usato.
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Il Napoli pareggia 1-1 con la Real Sociedad; il Milan vince 0-1 con lo Sparta Praga a Praga; la Roma perde 3-1 col CSKA di Sofia a Sofia. Tutte e 3 sono comunque qualificate ai sedicesimi di EL....ma di noi
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Conte, nervosismo e delusione. Ora lo scudetto è un obbligo
Il crollo in Champions è un danno economico per la società e fa infuriare i tifosi. L'allenatore assediato deve fare risultato in campionato
Asserragliato nel bunker delle proprie ossessioni, tattiche e nervose. Sempre pronto a snocciolare l'elenco delle sfortune: una volta sono le decisioni arbitrali, quella dopo gli infortuni, la prossima si vedrà. Antonio Conte non ammette responsabilità proprie di fronte a una prima volta storica: mai l'Inter era arrivata ultima in un girone delle coppe europee. Il momento nero dell'ex ct è tutto nelle rispostacce date in diretta Sky ad Anna Billò, giornalista bravissima e gentile a cui nessuno in tv s'era mai rivolto così, e a Fabio Capello, che la Champions l'ha vinta battendo in finale per 4-0 il Barcellona di Stoickov e Romario.
Quel che resta
All'Inter, sbattuta fuori in una sola sera da entrambe le coppe europee, rimane il campionato. Cercare di vincerlo - magari senza nascondersi, ammettendo che è quello l'obiettivo - non è più un'opzione ma un obbligo. Lo stesso vale per la Coppa Italia. Lo esige la proprietà cinese dell'Inter, che in due stagioni ha acquistato giocatori per 290,32 milioni di euro a sostegno del progetto tecnico dell'ex ct. Una valanga di soldi, a cui si somma un monte ingaggi sempre più pesante, anche per il maxi stipendio dell'allenatore da 72 milioni di euro lordi per tre stagioni. E lo sciagurato pareggio di San Siro contro lo Shakhtar di milioni n'è costati altri: la qualificazione agli ottavi di Champions ne avrebbe portati 9,5 più uno di market pool. Averla mancata è una brutta notizia anche per gli sponsor, vecchi e nuovi, con cui il presidente Steven Zhang sta discutendo in questi mesi.
Basta scuse
Nella conferenza stampa della vigilia della partita con lo Shakhtar, Antonio Conte aveva lamentato "la difficoltà nel fare la formazione", per i troppi giocatori in infermeria. All'atto pratico ha invece potuto schierare il miglior undici possibile. Nicolò Barella ha recuperato da un dolore alla caviglia e ha giocato una buona partita. Il solo assente di peso è stato Arturo Vidal, pupillo dell'ex ct, costato con i suoi errori 6 punti nella doppia sfida col Real Madrid. Che sia stato un danno non averlo in campo è da dimostrare. L'avversario, Luis Castro, di titolari indisponibili ne aveva cinque, più due riserve importanti. Davanti a un portiere di 19 anni ha schierato due centrali ragazzini. Eppure, prima della partita, s'era limitato a dire: "Dobbiamo dare il massimo". Ora giocherà in Europa League al posto dell'Inter.
Il futuro
I tanti tifosi che sui social network sfogano la propria rabbia con l'hashtag #ConteOut, auspicando la cacciata dell'allenatore, probabilmente resteranno delusi: un cambio in panchina in corsa è improbabile, anche perché troppo costoso. A gennaio l'Inter, impoverita dall'eliminazione, farà un mercato d'emergenza. E dovrà risolvere la questione Eriksen, per cinque anni di fila miglior uomo assist della premier League, accolto in trionfo a Milano meno di un anno fa, e ieri sera mortificato dall'ennesima entrata in campo a cinque minuti dal novantesimo. Difficile possa restare alla Pinetina, non converrebbe a nessuno: non a lui, giocatore di classe mondiale, non all'Inter, che a ogni panchina vede deprezzare il suo cartellino. Meglio allora prestarlo fino a fine stagione, in attesa di capire cosa succederà. Il contratto di Conte scade il 30 giugno 2021, ma da qui ad allora può succedere di tutto. Compreso che l'allenatore sfoderi il fantomatico "piano B" che ieri non ha voluto svelare nel post partita, timoroso forse che qualcuno possa copiarglielo.
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Inter, Conte sotto processo ma Zhang lo protegge: e ora si parla di scudetto
L’allenatore è blindato, il presidente dalla Cina: «Dobbiamo lottare e dare tutto per il bene dell’Inter. Insieme». E in società non si nascondono più. Vidal: «Vinciamo il campionato»
Perdute Champions e Europa League, all’Inter e ad Antonio Conte restano amarezza, processi e due obiettivi: scudetto e Coppa Italia. Esauriti bonus e alibi, giovedì è stato il giorno di lunghe riflessioni. A un certo punto s’era pure sparsa la voce (infondata) di un esonero, mai in realtà preso in considerazione né mai il tecnico è stato messo in discussione. Nessuno ha intenzione di privarsene.
C’è stato sì un colloquio per analizzare il momento tra l’allenatore e la dirigenza, salita compatta ad Appiano Gentile dopo il pari con lo Shakhtar. Si è parlato di mentalità e di qualità della rosa: tutti concordi, va migliorata. Dalla Cina sono poi arrivate le parole del presidente Steven Zhang. «Eravamo consapevoli delle difficoltà che avremmo potuto incontrare in questa stagione anomala. Insieme abbiamo deciso di affrontarle con coraggio e determinazione. Il nostro obiettivo non cambia, lottare e dare tutto per il bene dell’Inter. Insieme». Un’uscita attesa e doverosa da parte del presidente che qualche settimana fa, parlando agli azionisti, definì Conte «un leader che ha le capacità per creare una mentalità vincente».
Il flop di Champions rimane e non è di facile digestione. La parola crescita è ricorrente nei discorsi della proprietà, l’eliminazione però segna un passo indietro dall’insediamento del gruppo Suning. Dopo la prima disastrosa stagione, c’è stato sempre un avanzamento, stavolta la brutale uscita è un’inchiodata.
Proprio la mentalità vincente di cui parlava Zhang non s’è vista con lo Shakhtar e mai nelle partite decisive. La squadra non riesce ad assorbirla, a fare il salto di qualità, forse perché non ha nel suo dna i geni di cattiveria e vittoria. Negli scontri diretti è sempre mancata: Barcellona, Real Madrid, Borussia Dortmund, Juventus, tutte cadute rovinose. Quando bisogna vincere, l’Inter fallisce.
Conte ha parlato con la squadra, ma già nel post partita con lo Shakhtar aveva detto: «Incredibile non aver segnato un gol in due gare contro gli ucraini». Una mancanza inaccettabile. Una rete non realizzata ha impedito la qualificazione, impensabile passare il girone vincendo una sola partita. La Juventus ha un altro telaio, e anche un’altra mentalità, il 3-0 di Barcellona lo dimostra. Pure l’Atalanta l’ha spuntata in casa di Liverpool e Ajax. Certe gare bisogna saperle vincere, i giocatori dell’Inter non ne sono mai stati capaci per mancanza di abitudine al successo e di qualità. I calciatori devono assumersi le loro responsabilità, non ripararsi sempre sotto comodi parafulmini. La squadra è competitiva per l’Italia, a livello internazionale non regge. «Non siamo da Champions, lo dice il campo», l’ammissione di capitan Handanovic. Da nove stagioni i nerazzurri non approdano agli ottavi di Champions, si sono alternati tecnici, allenatori, dirigenti e presidenti, ma l’Inter sbatte sempre contro lo stesso insormontabile muro.
Se è vero che Conte ha sempre insistito sulla necessità di innalzare la qualità, è vero pure che l’allenatore si porta dietro un carico di aspettative altissime, dovute alla carriera e allo stipendio da 12 milioni. Si pensava colmasse lui il divario mancante per riportare l’Inter al successo. La verità è che non appena Lukaku gioca una partita sotto tono (QUI le pagelle) e se manca la cattiveria di Vidal (a volte fin troppo adrenalinico), il resto del gruppo non riesce a sopperire. E certi atteggiamenti, come il nervosismo di Lautaro quando è stato sostituito, non sono ammissibili.
Conte in Italia, dove il livello è inferiore, riesce a mascherare la mancanza di qualità, in Europa non è lo stesso. In Champions non si fanno miracoli, escono i valori. Vero che il tecnico non ha mai avuto troppa fortuna nella coppa. In cinque partecipazioni tre volte si è fermato ai gironi, una agli ottavi (il suo Chelsea uscì con il Barcellona) e una ai quarti, guarda caso con la Juventus appena ricostruita. Mai avuto grandi corazzate, l’Inter stessa non lo è, però si poteva fare meglio.
Il paradosso, ma pure la speranza, è che l’eliminazione possa lanciare la lotta per scudetto e Coppa Italia (lo dice anche Sconcerti: QUI). L’obbligo, e qui non ci sono più alibi, è arrivare in fondo da protagonisti. Il campionato è l’ultima chiamata per questo gruppo, cui servono tanti correttivi. «Triste aver perso un’occasione per qualificarsi. Ora ce la metteremo tutta per vincere lo scudetto», rilancia Vidal. Frase non banale del cileno, per la prima volta si parla di scudetto e lo fa proprio un uomo vicino a Conte. Il presente è sì nero, del suo futuro l’Inter però è ancora padrona e non può sciuparlo.
CorSera...ma di noi
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Atalanta, la doppia impresa di Gasp e le sirene della Premier
Non solo la qualificazione, vincendo ad Amsterdam il tecnico nerazzurro si è ripreso la squadra e zittito le voci di uno spogliatoio spaccato. Ma i suoi successi internazionali lo "espongono" all'attenzione di tanti club. Il consiglio di Ancelotti
Prima di uscire dalla Cruyff ArenA, in una Amsterdam resa goticamente tetra dal deserto serale figlio della pandemia, Ten Hag, l'allenatore dell'Ajax appena eliminato, ha provato a dare alla sconfitta una spiegazione un po' stereotipata: "L'Atalanta ci ha sorpreso, ha giocato all'italiana". Soltanto la prima metà dell'affermazione è vera, perché l'Atalanta ha in effetti sorpreso l'Ajax ma non ha affatto giocato all'italiana, se nella vetusta accezione del concetto, che andrebbe aggiornato anche alla luce dell'offensivismo praticato dalla Nazionale di Mancini, l'etichetta di italianismo calcistico definisce la volontà di difendere e basta. In realtà Gasperini ha fatto ben altro: ha realizzato la sua ennesima impresa modellando la propria squadra sulle esigenze della partita e facendo tesoro dei problemi dell'andata, ma non ha mai rinunciato a colpire e infatti ha vinto. Era già accaduto col Liverpool, schiantato al ritorno ad Anfield dopo la batosta di Bergamo, ed è appunto successo di nuovo nel decisivo duello olandese, dopo le sofferenze del primo atto. Si tratta di pragmatismo, ma anche di genialità.
Gasperini è un uomo concreto e non parla a vanvera. Quando diceva che la priorità fino a dicembre sarebbe stata la Champions, diceva evidentemente la verità. E se adesso dice che la priorità torna a essere il campionato, devono preoccuparsi tutte le pretendenti allo scudetto. Così come, nell'imminente sorteggio per gli ottavi di finale della Champions, nessuna tra le potenziali e tutte illustri avversarie - Bayern, Real Madrid, Psg, Machester City, Chelsea e Dortmund - sarà felice, se troverà sulla sua strada l'Atalanta e il suo stratega.
Il consiglio di Ancelotti: vieni in Premier
Che Gian Piero Gasperini sia un'eccellenza della panchina lo racconta d'altronde il suo curriculum, dopo la buona carriera da centrocampista solido e creativo, con i picchi di rendimento al Palermo e al Pescara senza però la laurea da campione. Da allenatore, invece, ha luccicato presto e non smette di brillare.
Dal torneo di Viareggio vinto con la Primavera della Juventus nel 2003 alla promozione in B, che consegnò il Crotone al calcio che conta. Dalla promozione in A alla qualificazione in Champions sfiorata col Genoa. Dai due terzi posti alla semifinale di Champions sfumata in extremis con l'Atalanta contro il Psg, nella Final Eight di Lisbona. Fino alla consacrazione massima, per chi fa il suo mestiere: il plebiscito della categoria. Votato appunto dai suoi colleghi, ha conquistato la Panchina d'oro nel 2019 ed è arrivato quinto tra gli allenatori Uefa del 2020 dietro la compagnia tedesca - Flick, Klopp, Nagelsmann e Tuchel - ma a soli 8 punti dal podio. Dove salirà certamente a fine anno, essendo stato inserito nella rosa dei tre migliori allenatori del Globe Soccer Award, insieme a Flick e Klopp, leader del Bayern campione d'Europa e del Liverpool campione del mondo.
Gasperini è in sostanza oggi il tecnico italiano di club con più consenso a livello internazionale e non a caso il gioco della piccola Atalanta, modello tattico d'avanguardia, è assurto a prototipo studiato e imitato anche in Germania e in Inghilterra, che in questo momento rappresentano l'università della panchina: l'una per i successi della scuola tedesca e l'altra perché la Premier League è diventata il variegato consesso degli allenatori più noti e più pagati del mondo.
Ancelotti, che della Premier è ormai un veterano, ha suggerito a Gasperini di provare l'esperienza di un campionato più vicino all'essenza del calcio come sport e più lontano dalle polemiche. La Roma lo ha cercato, la Fiorentina potrebbe, lo United perché no. I tifosi dell'Atalanta fanno gli scongiuri perché non accada niente, mentre chi ha scongiurato almeno in teoria ogni rischio è il presidente, Antonio Percassi, rinnovando il contratto all'allenatore fino al 2023, per una cifra ignota ma non certo da piccolo club. D'altronde Gasperini è un re Mida: ottiene risultati storici, valorizza i calciatori sul mercato e moltiplica gli incassi, come accadrà anche in questa stagione con un minimo di altri 50 milioni di euro dalla Champions.
Luca Percassi e il caso Gomez
Qualche ora prima della partita con l'Ajax, ha dunque creato il panico tra gli atalantini lo scenario prefigurato sui social in forma anonima, come conseguenza dell'accesa discussione da spogliatoio tra Gasperini e il capitano Gomez. Non avevano dubbi gli anonimi analisti via audio: il giocattolo si è rotto, il mister si era dimesso e comunque si dimetterà a fine partita oppure se ne andrà il Papu a gennaio. Nulla di tutto questo è successo e anche le più morbide ricostruzioni della vicenda - la discussione in campo col Midtyilland perché Gasperini voleva Gomez a destra, il no del capitano, i toni concitati nello spogliatoio, Ilicic che prende le parti del Papu, l'allenatore che lo sostituisce proprio con Ilicic, il successivo chiarimento a Zingonia, l'estromissione di Gomez e Ilicic dalla lista dei convocati per domenica scorsa a Udine, la tregua del presidente in funzione Champions, l'appello degli ultras a perseguire il bene della squadra, l'accusa mediatica a Gomez di anteporre la speranza di giocare da titolare nell'Argentina all'Atalanta - sono state annacquate dall'impresa di Amsterdam.
Gasperini ha lasciato la fascia da capitano all'argentino, ma ha chiarito comunque che il capo è lui e che le sue scelte tecniche non possono essere messe in discussione dai giocatori. Gomez ha fatto finta che non fosse accaduto nulla, limitandosi a parlare "di una squadra che fa la storia" e con ciò escludendo l'ipotesi di addio a gennaio per un'altra squadra di serie A o per andare all'estero, dopo il rifiuto della ricca offerta araba estiva. Non ha fatto finta di niente Luca Percassi, l'ad: rilevando che in tutte le famiglie ci sono discussioni quotidiane e che talvolta sono particolarmente accese, ha di fatto ammesso che il battibecco in questione c'è stato e che non è stato certo leggero. Ma ha voluto anche chiudere il caso: resteranno tutti e due, Gasperini e Gomez, ha dichiarato. L'evoluzione della storia si vedrà in campionato: Ilicic ad Amsterdam non è neppure entrato. Il capo dello spogliatoio è l'allenatore: Gasperini su questo non transige. Battendo l'Ajax, è come se avesse vinto due volte.
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I "rivali" di Pablito nella serie A dell'81: Pruzzo, poi Bivi e Chiodi. Bearzot aveva poca scelta...
Quando il ct lo portò in Spagna lo accusarono di essere "fissato" con Pablito. Ma la realtà è che tranne il centravanti della Roma non c'erano giocatori all'altezza
Nel piccolo mondo antico di quarant'anni fa o poco più, dove i ragazzi come Paolo Rossi, crescevano sulla pozzolana e poi buttavano il cuore oltre l'ostacolo, nella vecchia serie A dei primi anni Ottanta, in un momento di cruciale e per certi versi aspetti doloroso passaggio storico, perché Bearzot si era "fissato" con Paolo Rossi? Semplicemente: lo aveva individuato come alternativa al passato, non una certezza, ma una possibilità, un modo per aprirsi al domani. Giocava nel Lanerossi, Pablito, quando Bearzot lo fece debuttare in Nazionale in un'amichevole col Belgio: era il 21 dicembre del 1977. Non fece miracoli. Anzi non fece alcuna impressione, né bella né brutta.
Si muoveva come nessuno o forse per questo nessuno sembrava vederlo. Perdemmo. Così come perdemmo l'amichevole successiva contro la Spagna, ancora con Paolo Rossi al posto di Ciccio Graziani, accanto a Pulici. Il destino e Bearzot lo vollero in Argentina. Dove Rossi giocò la sua terza partita in azzurro, contro la Francia, e segnò. Poi, dopo la squalifica, ancora il destino e la cocciutaggine del ct lo imposero in Spagna nell'82, ai danni, se vogliamo, di Pruzzo. Ma cosa c'era in serie A da quelle parti, negli attacchi, quali erano le teste e i piedi deputati a far gol? Chi formava la squadra trasversale degli attaccanti, a parte Graziani, Altobelli e Rossi che divennero campioni del mondo, unitamente a Selvaggi (allora al Cagliari) che in Spagna però non giocò neanche un minuto? Era, appunto, uno scenario d'altri tempi, un teatro alla buona, con le quinte di cartapesta, molto legato a sistemi di gioco e a qualità individuali che si sarebbero presto dissolte o nella migliore delle ipotesi sarebbero confluite nel nuovo: pioniere del quale fu certamente Arrigo Sacchi e, a lui collegato, un centravanti come Marco Van Basten.
Ma chi erano i "rivali" di Pablito? Quando Pablito era fermo per scontare la pena della sospensione per essersi ritrovato, con la maglia del Perugia addosso, al centro dello scandalo scommesse, l'Italia dei centravanti sembrava il carrozzone di Mangiafuoco. Erano tutti personaggi pittoreschi, ognuno a modo suo. L'Ascoli di Carletto Mazzone proponeva De Ponti, con quella sua andatura strappata, da ribelle che pretendeva di imporre il suo ritmo al calcio, non riuscendovi quasi mai. L'Avellino di Vinicio, accanto all'emergente Juary, doveva contentarsi di Vito Chimenti, un calciatore di tutto rispetto, ma di categoria. Le speranze del Bologna erano legate al rendimento di Stefano Chiodi, reduce da uno scudetto col Milan e dai complimenti, puntualmente esagerati, del suo ex allenatore Liedholm. Chiodi era famoso per sbagliare reti già fatte (forse soltanto Calloni aveva saputo far di meglio con la maglia rossonera).
Qualche assist, al Bologna, gli arrivava da un giovanissimo: un certo Roberto Mancini. Borghi e Bivi si giocavano la maglia numero nove del Catanzaro, dove in campo gli "anziani" erano Santarini e Ranieri. Più classico, ma poco interessante per Bearzot, era l'austriaco Schachner, figlio della tradizione alla tedesca del "bomber" alla Hrubesch e punta di diamante del Cesena. Il Como aveva Nicoletti, un lungagnone, ma di rimbalzo poteva sempre contare sul "perduto" Calloni di cui sopra. Se non c'era Graziani, la Fiorentina poteva sempre offrire, in alternativa, Paolo Monelli. Tenete presente che in quegli anni, in serie A, si segnava poco. E forse un motivo c'era. Più d'uno magari. Nel Genoa il centravanti era Massimo Briaschi, che stava al Vicenza con Rossi e che poi avrebbe avuto un assaggio di Juventus, nemmeno tanto da buttare. La riserva di Altobelli, nell'Inter, era Aldo Serena, che aveva 21 anni. Al centro dell'attacco della Juventus di Trapattoni svettava Pietro Paolo Virdis, nel Milan Joe Jordan, lo scozzese sdentato e appena prelevato dal Manchester United. A Napoli non c'era una vera punta, si alternavano Pellegrini, Palanca, che usciva dall'esperienza col Catanzaro con 13 reti nell'ultima stagione minacciando sfracelli, e Musella. La Roma ovviamente aveva Pruzzo. Più una seconda certezza: non c'era nessuno in rosa per sostituirlo. Al Torino, più che consolarsi con la "resilienza" di Pulici, si preoccupavano del vuoto appena lasciato da Graziani. L'Udinese si poteva soltanto permettere Miano. Insomma: che altro poteva fare Bearzot, se non fidarsi al 100% del suo folletto toscano?
I "rivali" di Pablito nella serie A dell'81: Pruzzo, poi Bivi e Chiodi. Bearzot aveva poca scelta...Quando il ct lo portò in Spagna lo accusarono di essere "fissato" con Pablito. Ma la realtà è che tranne il centravanti della Ro…...ma di noi
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Paolo Rossi, l’ultima intervista al Corriere. «Volevo fare l’astronauta, ho messo la famiglia prima di tutto»
Il 2 marzo il grande bomber dell'Italia si raccontava: «Colleziono i cimeli dell'Italia del Mondiale, volevano comprarli tutti ma non li vendo. Ai figli ho insegnato la semplicità»
Il 2 marzo scorso, alla sua maniera, guidando scanzonato tra le colline di Bucine con la linea che andava e veniva, Paolo Rossi ci aveva dato questa intervista. Era destinata a un inserto del Corriere della Sera che, causa lockdown, non ha mai visto la luce. La pubblichiamo perché, dentro, c’è tutto Pablito. Origini, amori, sogni realizzati e ancora da sognare. L’insostenibile leggerezza dell’essere Paolo Rossi: da Prato al mondo senza prendersi troppo sul serio.
«Sono nato in casa di domenica alle tre, mentre mio padre ascoltava la telecronaca della Fiorentina», racconta in «Quanto dura un attimo», la biografia firmata con la moglie Federica Cappelletti. Il destino già scritto di un Paolo Rossi non qualunque. Sono passati 38 anni dal giro di campo al Bernabeu accanto a Zoff serissimo, Causio a petto nudo, Selvaggi e Massaro con la tuta delle riserve, Tardelli rauco per l’urlo, Bergomi baffuto, Bearzot venerabile vecio. La notte più bella della nostra vita. E della sua.
Come è stata l’infanzia di un bambino venuto al mondo il 23 settembre ‘56, l’anno dei Giochi di Cortina, della prima seduta della Corte Costituzionale, dell’Oscar alla Magnani, dell’affondamento dell’Andrea Doria?
«Felicissima. Papà Vittorio ragioniere in una ditta di tessuti, mamma Amelia sarta. La casa era un porto di mare: io entravo e uscivo per andare nel campo di ulivi, lì accanto, a giocare a pallone».
Mai avuta la tentazione di diventare qualcos’altro?
«L’idea di fare l’astronauta l’ho avuta: l’immagine di Neil Armstrong sulla luna, il 20 luglio ‘69, mi rimase scolpita dentro. Avevo 12 anni. Nonno, ma come hanno fatto? E lui: hanno asfaltato la strada e sono andati su… Geniale!».
Che potere esercitò su di lei un pallone che rotola?
«Essere magrolino non è mai stato un impedimento: era un calcio diverso, si poteva sopperire con altre doti. Quando mi sono diplomato in ragioneria, ho letto negli occhi dei miei il desiderio che mi trovassi un posto sicuro, con la tredicesima e la quattordicesima a fine anno: la banca. Ma io volevo il calcio».
Il sacrificio più grande?
«I sacrifici li fa chi lavora in miniera. Il calcio è stato prima un piacere, poi una graditissima professione. Il sacrificio lo fece la mia famiglia: vedermi uscire di casa a 15 anni, senza sapere se e quando sarei tornato. Mia madre so che ha sofferto. Ma lì prevalse il bene per il figlio: lasciamolo fare la sua strada, si disse».
Moderna, mamma.
«Mah in realtà eravamo una famiglia tradizionalista, però i miei non sono mai stati invadenti. Un miracolo, se penso a certi genitori oggi».
Come li ricompensò con i primi guadagni?
«Alla Juve comprai una Fiat 127 per papà, scontata al 50%. Ma il nostro affetto non è mai stato fatto di cose materiali. Si viveva, molto dignitosamente, di quello che c’era».
Quali valori dei suoi genitori ha voluto passare ai figli?
«La semplicità: per me è un valore. I miei erano così facili da leggere, da interpretare: onesti, con principi importanti. E così sono io con i miei tre figli. Da papà ho preso la precisione nel fare le cose, da mamma volontà e bontà».
Paolo Rossi è un papà ingombrante?
«In famiglia ho sempre cercato di sminuire le conquiste dello sport, però senza sentirmi in colpa: mi piaceva il calcio e ho provato a vincere tutto quello che potevo. Alessandro ha 38 anni, è nato nell’anno del Mundial: forse è quello che ha patito di più la mia popolarità. Maria Vittoria e Sofia Elena sono cresciute con il Pallone d’oro come soprammobile, scherzandoci sopra».
Di cosa va più fiero?
«Della famiglia, e non è retorica. Se sei sereno dentro casa, hai tutto. Alla fine è la vita quotidiana che ti riempie, non un Mondiale, per quanto straordinario. Quello evapora. Ho il privilegio di poter fare ciò che mi piace: la scuola calcio, l’agriturismo, il vino, la tv, il cda del Vicenza Calcio».
Il cimelio a cui è più legato?
«La maglia azzurra numero 20 della partita contro il Brasile, quella della tripletta al Mundial. Ho raccolto i cimeli in una mostra itinerante, due tir che vanno in giro per l’Italia. Ho richieste da Dubai!».
Tornando indietro rifarebbe tutto, Paolo?
«Ogni singola cosa. A cercare il pelo nell’uovo vorrei rigiocare il Mondiale ‘78 in Argentina: quell’Italia in finale poteva arrivarci. Però è vero che il Mondiale perso è servito a vincere il titolo nell’82, che tanta gioia ha regalato».
E tra mille anni come vorrebbe essere ricordato?
«Come Pablito. O Paolorossi. Tutto attaccato».
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