Napoli, Gattuso: un trionfo nato da fatica e dolore
La vittoria della Coppa Italia arriva dopo un periodo delicatissimo del tecnico, che però nonostante il dolore per la morte della sorella ha dato tutto se stesso nel lavoro per la squadra
Martedì 2 giugno Rino Gattuso era arrivato di buon mattino al centro di allenamento del Napoli, a Castel Volturno: c'era da preparare il ritorno in campo dopo l'interminabile pausa per pandemia, la strana Coppa Italia senza pubblico da provare a vincere con mille pensieri in testa. Uno era terribile: Francesca, la sorella minore che sentiva al telefono ogni sera, chiusa in una stanza dell'ospedale di Busto Arsizio a combattere col diabete. Era una chiamata fissa, dolce e straziante. La chiamata di mamma Costanza, mentre lui studiava come innescare Insigne e Mertens, come eliminare l'Inter di Conte e qualificarsi per la finale, non lo colse impreparato: sapeva che prima o poi sarebbe successo.
A febbraio il dolore si era già incastrato in mezzo alle partite, dopo la partita con la Sampdoria a Genova: avevano operato Francesca e c'era da correre da lei. Anche stavolta c'era da infilarsi in macchina, però con un viaggio più lungo e con la consapevolezza dell'irrimediabile. Il vice Gigi Riccio, un fratello aggiunto come si chiamano tra loro, restava a incitare la squadra ammutolita: "Correte, non fermatevi, il Mister vuole così".Nel primo pomeriggio Rino era già a casa, a Gallarate, a confortare gli altri con la sua stessa presenza, Mister anche in famiglia, punto di riferimento, il pilastro che regge tutto, mentre più di milleduecento messaggi di solidarietà gli intasavano il telefonino: l'intero arco costituzionale del calcio mondiale, dal presidente dell'Uefa Ceferin a quello della Fifa Infantino, a Conte e Sarri, i due colleghi ai quali avrebbe negato la Coppa Italia, ma ancora nessuno lo sapeva.
Il pomeriggio di giovedì 4 giugno era di nuovo a Napoli e venerdì 5 a Castel Volturno dalla squadra: un minuto di silenzio prima dell'allenamento e poi corse senza fermarsi, come e più del solito, così vuole il Mister. Venerdì pomeriggio, il giorno del funerale, era nella parrocchia di Schiavonea, il paese da cui partì ragazzino per il provino a Perugia, quando Francesca era una bambina di otto anni. Sabato 6 era di ritorno a Napoli: gli striscioni dei tifosi, in giro per la città, erano gli abbracci virtuali, in tempi di Covid: "Ringhio, vicini al tuo dolore".
Una sola settimana dopo, sabato 13 giugno al San Paolo deserto, eliminava l'Inter di Conte: questa squadra sa soffrire, il commento generale, e mai come stavolta non era solo un luogo comune. Rino aveva alzato gli occhi al cielo, dedica pudica quanto esplicita e chiarissima a chiunque.
Mercoledì 17 giugno ha vinto la Coppa Italia, ingabbiando la Juventus di Sarri già idolo di Napoli. Quando in campo ha brevemente arringato la squadra con De Laurentiis accanto, richiamando tutti al proprio dovere, erano passati appena sedici giorni dalla drammatica mattina di Castel Volturno. Sono stati sedici giorni lunghi, in cui l'Italia frastornata dalla pandemia ha trovato un uomo in cui identificarsi. Sedici giorni da Mister
L'elogio della serietà
Il messaggio più importante del primo trofeo di Rino Gattuso allenatore è il suo elogio della fatica e della serietà. Per raccontare la Coppa Italia appena vinta, ha detto subito una frase semplice e tuttavia non banale, ingoiando le lacrime al ricordo ancora lacerante di Francesca, che non c'è più e che per lui c'è sempre, ogni volta che socchiude gli occhi e pensa a lei: "Se fai le cose per bene, raccogli i frutti". In tempi di tuttologia sui social, mondo al quale è per il momento refrattario, e di facili slogan per compiacere chi ascolta, prassi alla quale è da sempre allergico, l'equazione tra il lavoro duro e i risultati è quasi un concetto rivoluzionario: nessuno ti regala qualcosa, nella vita, ma il premio alla serietà alla fine arriva. Rino ha sempre rispettato gli altri, ma soprattutto ha rispettato e rispetta il lavoro, come hanno insegnato a lui e alle sorelle Ida e Francesca papà Franco e mamma Costanza, fin da quando era piccolo a Schiavonea, la marina di Corigliano Calabro, e non immaginava che dal Perugia di Gaucci ai Rangers Glasgow di Gascoigne alla Salernitana di Aliberti avrebbe spiccato il volo verso il Milan di Berlusconi, allora sì grande. Non lo immaginava perché conviene non immaginare, conviene fare. Pochi minuti dopo avere accarezzato la coppa, pensava già alle 12 partite di campionato che rimangono al Napoli, e alla Champions col Barcellona: ecco il pugno a un altro stereotipo, quello del terrone scansafatiche. Se Sarri, con la sua lunghissima carriera a tappe dai dilettanti in su, è l'emblema di chi si è davvero fatto da sé, Gattuso è il simbolo della gavetta, che pure avrebbe potuto evitare, essendo uno tra i ventitré campioni del mondo di Lippi, un eroe di Berlino 2006: "Fare l'allenatore è un altro mestiere. Bisogna ripartire daccapo. Non ci si improvvisa mai, in nessun ambito". Lo disse il 27 febbraio 2013, giorno del suo debutto vincente in panchina da allenatore-giocatore col Sion, in Coppa di Svizzera contro il Losanna, un 2-0 che non sarebbe passato alla storia. Non se n'è mai dimenticato.
Tutto cominciò a Losanna
Il campione del mondo non si è affatto improvvisato. Anche se ha 42 anni, età giovane per un tecnico, allena ormai da 7 abbondanti. E da quella partita a Losanna allo Stade de la Pontaise, con le chiazze di neve a bordocampo e duemila spettatori scarsi, di stadi di provincia o semideserti ne ha visti parecchi. In fondo l'Olimpico chiuso al pubblico la sera della sua prima coppa vinta, con l'eco dei suoi urlacci amplificati dal vuoto delle tribune, pare quasi un richiamo subliminale alla scarnificazione del calcio, che per passione si pratica spesso negli scenari più sperduti e in assenza di pompose sovrastrutture. La gavetta di Rino cominciò in contesto alpino, quando chiuse la carriera da calciatore in Svizzera, dove si era trasferito, dopo la malattia agli occhi, per sottrarsi a un'uscita di scena che considerava troppo precoce, rifiutando di entrare nello staff di Allegri al Milan. Al Sion giocò un ottimo girone d'andata, chiuso al secondo posto, ma il percorso era già un altro. Il presidente Constantin, architetto con fama di divora-allenatori, lo volle in panchina salvo mangiarselo subito. La strada, comunque, era tracciata, anche se lo aspettava al Palermo l'altro divoratore di mister per definizione: Maurizio Zamparini, estate 2013: "Come faccio a dire di no a una piazza del genere?". L'epilogo era scritto: contribuì alla costruzione della squadra che sarebbe poi stata promossa in serie A con Iachini, ma durò 8 partite. Saltò ai primi, inevitabili dissidi su tattica e formazione col presidente: "I consigli li ascolto e il datore di lavoro è lei, ma la formazione la faccio io".
A Creta e Pisa dirigente suo malgrado
La gavetta di Rino è fissata in alcuni fotogrammi folgoranti. A Palermo, in un giorno libero, si mette in testa col suo vice, l'amico di adolescenza Gigi Riccio, di recuperare una palestra in dotazione al club, abbandonata al degrado con tanto di attrezzi in disuso. Ci riusciranno e non sarà la sola eredità, come dimostra il lungo abbraccio in campo all'Olimpico con lo juventino Dybala, che non ancora ventenne, in Sicilia, fu brevemente allenato da lui. All'epoca Rino gli disse che doveva svegliarsi e fare sempre la differenza, perché era un campione: quell'invito non è rimasto evidentemente inascoltato. Secondo fotogramma a Creta, autunno 2014: il presidente dell'Ofi, Mantos Poulinakis, suona al citofono del piccolo appartamento in affitto sul lungomare di Heraklion, si apparta con lui sul balcone e lo implora di non dimettersi. Rino non ha avuto paura a rimettersi in gioco in un campionato periferico e ignoto, però ha scoperto presto che non ci sono soldi. I calciatori non greci (metà squadra) vorrebbero mollare, lui paga alcuni mesi di stipendio e si dimette ancora, ma stavolta sono gli ultrà a implorarlo sotto le finestre. Finché, al rientro dalla sosta natalizia, non trova più metà rosa, capisce che non c'è proprio niente da fare e se ne va due mesi prima del fallimento del club.
Terzo fotogramma, settembre 2015. Serie C col Pisa, stadio di Arezzo, derby toscano non privo di aculei. Un tifoso avversario non sa più come insultarlo: "Gattuso, sei più basso di Capuano!", gli esce dando un'occhiata a Eziolino, mister dell'Arezzo, che non è esattamente un gigante. A Rino scappa un sorriso storto, sotto la barba: finirà 1-1. Sorriderà anche a fine campionato, dopo la promozione in B ai play-off contro il Foggia di De Zerbi. Ma il quarto fotogramma, del 2016, è meno allegro: altra crisi societaria profonda, altri stipendi aleatori, altra crisi gestita da dirigente e non solo da allenatore, con l'aiuto imprescindibile del segretario Piero Baffa e dell'inseparabile Riccio. La retrocessione del Pisa, per quanto dignitosa e a lungo con la migliore difesa del campionato, è inevitabile. L'eredità, grazie al puntiglio di Gattuso nell'evitare ambigui passaggi di proprietà, sarà l'arrivo della famiglia Corrado. E la gratitudine dei tifosi e dei calciatori di quella stagione.
La Primavera del Milan: un passaggio decisivo
Quinto fotogramma, fine estate 2017. Stadio di Solbiate Arno, a un paio di chilometri da Milanello. Gattuso, chiamato dal ds Mirabelli, ha appena accettato di guidare la Primavera del discusso Milan cinese di Yonghong Li e Fassone: "Perché mi manca ancora qualcosa, nel percorso di crescita: devo lavorare coi giovani". Sarà, ma è come passare dalle Maldive all'Idroscalo, per uno che in maglia rossonera ha vinto proprio tutto e che lancia urlacci stereofonici nel vuoto di quello stadietto coi gradoni in cemento e poche decine di spettatori, dove a volte lui resta dopo la partita ad affinare la tecnica di ragazzotti che spesso potranno fare al massimo la Serie C. Invece no. Invece sono 12 partite preziosissime, queste con la Primavera. Ne escono rafforzate umanità e sensibilità, dote innata che il mondo del calcio gli ha riconosciuto in occasione del recente lutto. A Solbiate c'è sempre la famiglia sui gradoni: la moglie Monica, i figli Gabriela e Francesco, la cugine Rossella, l'amico d'infanzia Salvatore suo braccio destro, Piero ormai suo consulente di fiducia e il socio Andrea. E poi Francesca, col piccolo Alessandro e il marito Marco. Sesto fotogramma: Francesca che lo saluta dal cancello, lui che prende in braccio Alessandro. Il resto non è più gavetta. Il Milan vero al posto di Montella. La terza media punti dopo Allegri e Sarri. Le finali di Coppa Italia e di Supercoppa perse con la Juventus. La qualificazione alla Champions smarrita per un solo punto in meno di Inter e Atalanta. L'addio, lasciando due anni di stipendio all'ad Gazidis (che chissà se sta capendo chi si è fatto sfuggire).
L'approdo al Napoli al posto di Ancelotti. O forse sì, forse è ancora gavetta, perché per chi tesse l'elogio della fatica la gavetta non finisce mai. Settimo fotogramma. L'abbraccio fortissimo, dopo la Coppa Italia, con Gigi Riccio, napoletano, ex centrocampista di Piacenza, Ternana e Sassuolo. Si sono conosciuti da ragazzi, nel convitto del Perugia, e insieme hanno vissuto parte dell'avventura a Glasgow. Di rado, durante la partita, si vede un'intesa simile tra un allenatore e il suo vice: insieme all'affiatato staff, studiano e preparano tutto con assoluta meticolosità, insistendo sul principio del passaggio immediato dalla fase difensiva a quella offensiva e viceversa. Non c'è nulla di casuale nel gioco del Napoli, né tanto meno la vocazione al catenaccio. L'abusata etichetta di Gattuso allenatore tutto cuore e grinta, trasposizione impropria del mediano campione del mondo peraltro non privo di tecnica, è smentita dal sofisticato equilibrio tattico esibito in Coppa Italia contro Inter e Juventus e dalla vittoria sfiorata in Champions contro il Barcellona. Ma soffrire bisogna, teorizza Rino, e non ci fa più caso. Basta che parli il campo.
La vittoria della Coppa Italia arriva dopo un periodo delicatissimo del tecnico, che però nonostante il dolore per la morte della sorella ha dato tutto se stesso nel lavoro per la squadra
Martedì 2 giugno Rino Gattuso era arrivato di buon mattino al centro di allenamento del Napoli, a Castel Volturno: c'era da preparare il ritorno in campo dopo l'interminabile pausa per pandemia, la strana Coppa Italia senza pubblico da provare a vincere con mille pensieri in testa. Uno era terribile: Francesca, la sorella minore che sentiva al telefono ogni sera, chiusa in una stanza dell'ospedale di Busto Arsizio a combattere col diabete. Era una chiamata fissa, dolce e straziante. La chiamata di mamma Costanza, mentre lui studiava come innescare Insigne e Mertens, come eliminare l'Inter di Conte e qualificarsi per la finale, non lo colse impreparato: sapeva che prima o poi sarebbe successo.
A febbraio il dolore si era già incastrato in mezzo alle partite, dopo la partita con la Sampdoria a Genova: avevano operato Francesca e c'era da correre da lei. Anche stavolta c'era da infilarsi in macchina, però con un viaggio più lungo e con la consapevolezza dell'irrimediabile. Il vice Gigi Riccio, un fratello aggiunto come si chiamano tra loro, restava a incitare la squadra ammutolita: "Correte, non fermatevi, il Mister vuole così".Nel primo pomeriggio Rino era già a casa, a Gallarate, a confortare gli altri con la sua stessa presenza, Mister anche in famiglia, punto di riferimento, il pilastro che regge tutto, mentre più di milleduecento messaggi di solidarietà gli intasavano il telefonino: l'intero arco costituzionale del calcio mondiale, dal presidente dell'Uefa Ceferin a quello della Fifa Infantino, a Conte e Sarri, i due colleghi ai quali avrebbe negato la Coppa Italia, ma ancora nessuno lo sapeva.
Il pomeriggio di giovedì 4 giugno era di nuovo a Napoli e venerdì 5 a Castel Volturno dalla squadra: un minuto di silenzio prima dell'allenamento e poi corse senza fermarsi, come e più del solito, così vuole il Mister. Venerdì pomeriggio, il giorno del funerale, era nella parrocchia di Schiavonea, il paese da cui partì ragazzino per il provino a Perugia, quando Francesca era una bambina di otto anni. Sabato 6 era di ritorno a Napoli: gli striscioni dei tifosi, in giro per la città, erano gli abbracci virtuali, in tempi di Covid: "Ringhio, vicini al tuo dolore".
Una sola settimana dopo, sabato 13 giugno al San Paolo deserto, eliminava l'Inter di Conte: questa squadra sa soffrire, il commento generale, e mai come stavolta non era solo un luogo comune. Rino aveva alzato gli occhi al cielo, dedica pudica quanto esplicita e chiarissima a chiunque.
Mercoledì 17 giugno ha vinto la Coppa Italia, ingabbiando la Juventus di Sarri già idolo di Napoli. Quando in campo ha brevemente arringato la squadra con De Laurentiis accanto, richiamando tutti al proprio dovere, erano passati appena sedici giorni dalla drammatica mattina di Castel Volturno. Sono stati sedici giorni lunghi, in cui l'Italia frastornata dalla pandemia ha trovato un uomo in cui identificarsi. Sedici giorni da Mister
L'elogio della serietà
Il messaggio più importante del primo trofeo di Rino Gattuso allenatore è il suo elogio della fatica e della serietà. Per raccontare la Coppa Italia appena vinta, ha detto subito una frase semplice e tuttavia non banale, ingoiando le lacrime al ricordo ancora lacerante di Francesca, che non c'è più e che per lui c'è sempre, ogni volta che socchiude gli occhi e pensa a lei: "Se fai le cose per bene, raccogli i frutti". In tempi di tuttologia sui social, mondo al quale è per il momento refrattario, e di facili slogan per compiacere chi ascolta, prassi alla quale è da sempre allergico, l'equazione tra il lavoro duro e i risultati è quasi un concetto rivoluzionario: nessuno ti regala qualcosa, nella vita, ma il premio alla serietà alla fine arriva. Rino ha sempre rispettato gli altri, ma soprattutto ha rispettato e rispetta il lavoro, come hanno insegnato a lui e alle sorelle Ida e Francesca papà Franco e mamma Costanza, fin da quando era piccolo a Schiavonea, la marina di Corigliano Calabro, e non immaginava che dal Perugia di Gaucci ai Rangers Glasgow di Gascoigne alla Salernitana di Aliberti avrebbe spiccato il volo verso il Milan di Berlusconi, allora sì grande. Non lo immaginava perché conviene non immaginare, conviene fare. Pochi minuti dopo avere accarezzato la coppa, pensava già alle 12 partite di campionato che rimangono al Napoli, e alla Champions col Barcellona: ecco il pugno a un altro stereotipo, quello del terrone scansafatiche. Se Sarri, con la sua lunghissima carriera a tappe dai dilettanti in su, è l'emblema di chi si è davvero fatto da sé, Gattuso è il simbolo della gavetta, che pure avrebbe potuto evitare, essendo uno tra i ventitré campioni del mondo di Lippi, un eroe di Berlino 2006: "Fare l'allenatore è un altro mestiere. Bisogna ripartire daccapo. Non ci si improvvisa mai, in nessun ambito". Lo disse il 27 febbraio 2013, giorno del suo debutto vincente in panchina da allenatore-giocatore col Sion, in Coppa di Svizzera contro il Losanna, un 2-0 che non sarebbe passato alla storia. Non se n'è mai dimenticato.
Tutto cominciò a Losanna
Il campione del mondo non si è affatto improvvisato. Anche se ha 42 anni, età giovane per un tecnico, allena ormai da 7 abbondanti. E da quella partita a Losanna allo Stade de la Pontaise, con le chiazze di neve a bordocampo e duemila spettatori scarsi, di stadi di provincia o semideserti ne ha visti parecchi. In fondo l'Olimpico chiuso al pubblico la sera della sua prima coppa vinta, con l'eco dei suoi urlacci amplificati dal vuoto delle tribune, pare quasi un richiamo subliminale alla scarnificazione del calcio, che per passione si pratica spesso negli scenari più sperduti e in assenza di pompose sovrastrutture. La gavetta di Rino cominciò in contesto alpino, quando chiuse la carriera da calciatore in Svizzera, dove si era trasferito, dopo la malattia agli occhi, per sottrarsi a un'uscita di scena che considerava troppo precoce, rifiutando di entrare nello staff di Allegri al Milan. Al Sion giocò un ottimo girone d'andata, chiuso al secondo posto, ma il percorso era già un altro. Il presidente Constantin, architetto con fama di divora-allenatori, lo volle in panchina salvo mangiarselo subito. La strada, comunque, era tracciata, anche se lo aspettava al Palermo l'altro divoratore di mister per definizione: Maurizio Zamparini, estate 2013: "Come faccio a dire di no a una piazza del genere?". L'epilogo era scritto: contribuì alla costruzione della squadra che sarebbe poi stata promossa in serie A con Iachini, ma durò 8 partite. Saltò ai primi, inevitabili dissidi su tattica e formazione col presidente: "I consigli li ascolto e il datore di lavoro è lei, ma la formazione la faccio io".
A Creta e Pisa dirigente suo malgrado
La gavetta di Rino è fissata in alcuni fotogrammi folgoranti. A Palermo, in un giorno libero, si mette in testa col suo vice, l'amico di adolescenza Gigi Riccio, di recuperare una palestra in dotazione al club, abbandonata al degrado con tanto di attrezzi in disuso. Ci riusciranno e non sarà la sola eredità, come dimostra il lungo abbraccio in campo all'Olimpico con lo juventino Dybala, che non ancora ventenne, in Sicilia, fu brevemente allenato da lui. All'epoca Rino gli disse che doveva svegliarsi e fare sempre la differenza, perché era un campione: quell'invito non è rimasto evidentemente inascoltato. Secondo fotogramma a Creta, autunno 2014: il presidente dell'Ofi, Mantos Poulinakis, suona al citofono del piccolo appartamento in affitto sul lungomare di Heraklion, si apparta con lui sul balcone e lo implora di non dimettersi. Rino non ha avuto paura a rimettersi in gioco in un campionato periferico e ignoto, però ha scoperto presto che non ci sono soldi. I calciatori non greci (metà squadra) vorrebbero mollare, lui paga alcuni mesi di stipendio e si dimette ancora, ma stavolta sono gli ultrà a implorarlo sotto le finestre. Finché, al rientro dalla sosta natalizia, non trova più metà rosa, capisce che non c'è proprio niente da fare e se ne va due mesi prima del fallimento del club.
Terzo fotogramma, settembre 2015. Serie C col Pisa, stadio di Arezzo, derby toscano non privo di aculei. Un tifoso avversario non sa più come insultarlo: "Gattuso, sei più basso di Capuano!", gli esce dando un'occhiata a Eziolino, mister dell'Arezzo, che non è esattamente un gigante. A Rino scappa un sorriso storto, sotto la barba: finirà 1-1. Sorriderà anche a fine campionato, dopo la promozione in B ai play-off contro il Foggia di De Zerbi. Ma il quarto fotogramma, del 2016, è meno allegro: altra crisi societaria profonda, altri stipendi aleatori, altra crisi gestita da dirigente e non solo da allenatore, con l'aiuto imprescindibile del segretario Piero Baffa e dell'inseparabile Riccio. La retrocessione del Pisa, per quanto dignitosa e a lungo con la migliore difesa del campionato, è inevitabile. L'eredità, grazie al puntiglio di Gattuso nell'evitare ambigui passaggi di proprietà, sarà l'arrivo della famiglia Corrado. E la gratitudine dei tifosi e dei calciatori di quella stagione.
La Primavera del Milan: un passaggio decisivo
Quinto fotogramma, fine estate 2017. Stadio di Solbiate Arno, a un paio di chilometri da Milanello. Gattuso, chiamato dal ds Mirabelli, ha appena accettato di guidare la Primavera del discusso Milan cinese di Yonghong Li e Fassone: "Perché mi manca ancora qualcosa, nel percorso di crescita: devo lavorare coi giovani". Sarà, ma è come passare dalle Maldive all'Idroscalo, per uno che in maglia rossonera ha vinto proprio tutto e che lancia urlacci stereofonici nel vuoto di quello stadietto coi gradoni in cemento e poche decine di spettatori, dove a volte lui resta dopo la partita ad affinare la tecnica di ragazzotti che spesso potranno fare al massimo la Serie C. Invece no. Invece sono 12 partite preziosissime, queste con la Primavera. Ne escono rafforzate umanità e sensibilità, dote innata che il mondo del calcio gli ha riconosciuto in occasione del recente lutto. A Solbiate c'è sempre la famiglia sui gradoni: la moglie Monica, i figli Gabriela e Francesco, la cugine Rossella, l'amico d'infanzia Salvatore suo braccio destro, Piero ormai suo consulente di fiducia e il socio Andrea. E poi Francesca, col piccolo Alessandro e il marito Marco. Sesto fotogramma: Francesca che lo saluta dal cancello, lui che prende in braccio Alessandro. Il resto non è più gavetta. Il Milan vero al posto di Montella. La terza media punti dopo Allegri e Sarri. Le finali di Coppa Italia e di Supercoppa perse con la Juventus. La qualificazione alla Champions smarrita per un solo punto in meno di Inter e Atalanta. L'addio, lasciando due anni di stipendio all'ad Gazidis (che chissà se sta capendo chi si è fatto sfuggire).
L'approdo al Napoli al posto di Ancelotti. O forse sì, forse è ancora gavetta, perché per chi tesse l'elogio della fatica la gavetta non finisce mai. Settimo fotogramma. L'abbraccio fortissimo, dopo la Coppa Italia, con Gigi Riccio, napoletano, ex centrocampista di Piacenza, Ternana e Sassuolo. Si sono conosciuti da ragazzi, nel convitto del Perugia, e insieme hanno vissuto parte dell'avventura a Glasgow. Di rado, durante la partita, si vede un'intesa simile tra un allenatore e il suo vice: insieme all'affiatato staff, studiano e preparano tutto con assoluta meticolosità, insistendo sul principio del passaggio immediato dalla fase difensiva a quella offensiva e viceversa. Non c'è nulla di casuale nel gioco del Napoli, né tanto meno la vocazione al catenaccio. L'abusata etichetta di Gattuso allenatore tutto cuore e grinta, trasposizione impropria del mediano campione del mondo peraltro non privo di tecnica, è smentita dal sofisticato equilibrio tattico esibito in Coppa Italia contro Inter e Juventus e dalla vittoria sfiorata in Champions contro il Barcellona. Ma soffrire bisogna, teorizza Rino, e non ci fa più caso. Basta che parli il campo.
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