Ora i calciatori saranno un po' meno 'ricchissimi'
Le mani in tasca ai calciatori. Ma soprattutto: i calciatori non più intangibili, non più alieni nel loro universo di privilegio (ma stiamo parlando soltanto della serie A, e nemmeno tutta), i calciatori che possono accorgersi della crisi economica che li circonda e li costringe, per la prima volta nella storia, a essere un po’ meno ricchi, anzi un po’ meno “ricchissimi”. Del resto la pandemia sta facendo a pezzi le economie di tutto il mondo, e quello del pallone era già traballante di suo: il calcio italiano era infatti schiacciato da due miliardi e mezzo di euro di debiti ben prima che scendesse in campo il coronavirus. Ora sono a serio rischio anche i diritti tv, e senza quelli non si sopravvive.
In attesa di capire come, se e quando la stagione del calcio potrà eventualmente riprendere (molto difficile), i club stanno per comunicare ai loro dipendenti i tagli in busta paga, che ancora non si possono quantificare con esattezza perché dipenderà dalla durata dello stop, e comunque non dovrebbero superare il 30 per cento annuo. E’ evidente che per Cristiano Ronaldo sarà, o sarebbe (9 milioni in meno?) un po’ diverso che per un terzino del Sassuolo o un centrocampista del Lecce. Ma qui è il principio che conta, e colpisce: il calciatore che diventa in teoria come tutti, lavoratore precario seppure milionario. E infatti il sindacato (sì, anche i giocatori ne hanno uno) fa resistenza. Ci hanno provato anche all’estero, ad esempio le star del Barcellona, ma alla fine dovranno capitolare anche Messi e compagni e nessuno diventerà povero per questo.
Il virus sta dimostrando una cosa ben nota a tutti, fuorché – forse – a certi presidenti di serie A: il calcio italiano vive molto al di sopra delle proprie possibilità. E’ un sistema asimmetrico e precario, illuso dalle ultime ondate di denaro televisivo che hanno nuovamente portato i club a spendere e spandere senza criterio. E poi c’è il meccanismo delle plusvalenze quasi sempre gonfiate: all’ultimo giro di mercato, qualcosa come 727 milioni. Prima o poi dovrà pur arrivare una specie di corte dei conti dello sport a dire che questi sono trucchi e che si deve tornare indietro. Più poveri, forse, ma più solidi.
Se la pandemia toccherà gli stipendi dei campioni senza turbare le loro vite, il blocco totale o parziale del calcio metterà in dubbio la sopravvivenza di moltissime società, quasi l’intera galassia dilettantistica: ci sono circa tremila club a rischio. Ripensare a un meccanismo di vera mutualità può non essere peregrino o retorico. Quante di queste squadre potrebbero essere salvate solo col taglio dello stipendio di Ronaldo, Lukaku, Donnarumma e Mertens?
Le mani in tasca ai calciatori. Ma soprattutto: i calciatori non più intangibili, non più alieni nel loro universo di privilegio (ma stiamo parlando soltanto della serie A, e nemmeno tutta), i calciatori che possono accorgersi della crisi economica che li circonda e li costringe, per la prima volta nella storia, a essere un po’ meno ricchi, anzi un po’ meno “ricchissimi”. Del resto la pandemia sta facendo a pezzi le economie di tutto il mondo, e quello del pallone era già traballante di suo: il calcio italiano era infatti schiacciato da due miliardi e mezzo di euro di debiti ben prima che scendesse in campo il coronavirus. Ora sono a serio rischio anche i diritti tv, e senza quelli non si sopravvive.
In attesa di capire come, se e quando la stagione del calcio potrà eventualmente riprendere (molto difficile), i club stanno per comunicare ai loro dipendenti i tagli in busta paga, che ancora non si possono quantificare con esattezza perché dipenderà dalla durata dello stop, e comunque non dovrebbero superare il 30 per cento annuo. E’ evidente che per Cristiano Ronaldo sarà, o sarebbe (9 milioni in meno?) un po’ diverso che per un terzino del Sassuolo o un centrocampista del Lecce. Ma qui è il principio che conta, e colpisce: il calciatore che diventa in teoria come tutti, lavoratore precario seppure milionario. E infatti il sindacato (sì, anche i giocatori ne hanno uno) fa resistenza. Ci hanno provato anche all’estero, ad esempio le star del Barcellona, ma alla fine dovranno capitolare anche Messi e compagni e nessuno diventerà povero per questo.
Il virus sta dimostrando una cosa ben nota a tutti, fuorché – forse – a certi presidenti di serie A: il calcio italiano vive molto al di sopra delle proprie possibilità. E’ un sistema asimmetrico e precario, illuso dalle ultime ondate di denaro televisivo che hanno nuovamente portato i club a spendere e spandere senza criterio. E poi c’è il meccanismo delle plusvalenze quasi sempre gonfiate: all’ultimo giro di mercato, qualcosa come 727 milioni. Prima o poi dovrà pur arrivare una specie di corte dei conti dello sport a dire che questi sono trucchi e che si deve tornare indietro. Più poveri, forse, ma più solidi.
Se la pandemia toccherà gli stipendi dei campioni senza turbare le loro vite, il blocco totale o parziale del calcio metterà in dubbio la sopravvivenza di moltissime società, quasi l’intera galassia dilettantistica: ci sono circa tremila club a rischio. Ripensare a un meccanismo di vera mutualità può non essere peregrino o retorico. Quante di queste squadre potrebbero essere salvate solo col taglio dello stipendio di Ronaldo, Lukaku, Donnarumma e Mertens?
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