Per il primo (e probabilmente ultimo) appuntamento con la rubrica #iostoacasacheduepallemaalmenomileggoilpostdizbigniew, ecco un paio di righe su quello che è stata per me la Finale del 2006.
Alcuni nomi sono di fantasia, anche perché le persone reali non avranno certo voglia di esporsi su di un sito di bodibildi. Comunque, per chi ci tiene, con un cifrario a sostituzione si risale alla verità.
Pronti? Via.
V.V., Z. et Z.Z.
1. V.V.
Virginie “Gigì” Vachtangov è una scrittrice, attrice di teatro e una donna di mirabile fascino.
Qualche anno prima era un’attrice di teatro, una scrittrice titubante e una studentessa sbadata.
Discendente da parte di padre di un beloemigrant il quale, rifugiatosi a Parigi, finì, dopo essersi sposato, a vivere nel centro della Francia rurale, agli inizi del XXI secolo la nostra aveva fatto una strada inversa, per andare prima a Parigi e poi per rifugiarsi in un paese straniero, l’Italia, trovando finalmente una stabilità dinamica nel fare la spola tra Università degli Studi di Siena e quella di Firenze.
La burrasca primaverile, che nell’Aprile del 2006 la sorprese a bighellonare al Bobolino, la spinse a correre giù fino al grande cerchio di fronte a Porta Romana per cercare un riparo, che il pulcino ormai bagnato trovò, vicino alla fermata Ataf, sotto un ombrello color verde bottiglia.
Fu così che V.V. incontrò Z. (e viceversa).
2. Z.
Ai miei amici, gli amici veri, del calcio non è mai importato un tubo. Per cui campionato e coppe non sono mai state argomento di discussione, di risa, di abbracci o di arrabbiature. Però gli appuntamenti importanti della Nazionale cadono d’estate, e allora, se non il motivo precipuo, le partite degli azzurri potevano almeno essere strumentalizzate per avere un casus convivii e ritrovarci, dopo il tramonto, insieme ad accendere il fuoco; e al richiamo primitivo dell’odore di grossi pezzi di carne adagiati su legna ardente non siamo mai stati capaci di opporre rifiuto.
Ma non fu così quell’anno e quell’estate. Quell’estate in cui i suoi coinquilini erano partiti in anticipo, e avevano lasciato a lei sola l’intero casolare posto poco fuori Siena, la passai da Gigì.
3. La sera della Finale - Luglio 2006
Il calcio almeno nei paesi mediterranei e sudamericani, proietta sé in un’onda così lunga che la sua eco raggiunge, per quanto di lontano, anche i soggetti ad esso più distanti. Per cui, se non altro, chiunque, quando vede sullo schermo i colori della rappresentativa della propria Nazionale, sa per quale squadra si deve tenere; ma, seppur anche lei non sfuggisse a questa categoria, e di conseguenza avesse coscienza del patriottico dovere di fare il tifo per les bleus, V., più che alla partita, era interessata al mio interesse per quella.
Forse mi studiava il viso per carpire il segreto dell’attrazione che qualcos’altro sapeva esercitare su di me e, forse, una volta colto, per cercare di usarlo. E non mi spiacevano i suoi tentativi provocatoriamente sfacciati di sviarmi dall’attendere con concentrazione alle fasi del match; semmai mi infastidiva dover rispondere all’occasionale domanda sul cosa stesse n quel momento accadendo sul terreno di gioco, a cui avrei preferito controbattere (anacronisticamente) con una “u” sormontata da un accento circonflesso.
Mentre s’addipanava il filo della partita, venne la sera.
Al rigore di Grosso, stupidamente esausto anch’io, mi lasciai cadere all’indietro sul divano, e avevo le braccia al cielo. Passando sotto la mia sinistra, V. appoggiò la medusa di ricci che aveva in testa sul mio petto, e dopo forse mezzo minuto (ma in verità era molto di più che attendeva) mi disse “on y va?”.
4. La stessa sera. Più tardi.
Lo stereo rimandava la musica che piaceva a Virginie e che venendo in Italia si era portata con sé dal cuore dell’Haute-Loire:
Gli Air (Playground Love), i Groove Armada (My Friends), i Telepopmuzik (L'incertitude d'Heisenberg). O forse mi sbaglio.
Il ricordo, si sa, trasfigura la realtà.
L'amore non era adulto e le lasciavo graffi sui seni.
Il grano era già biondo e non più verde.
Ma soprattutto, l'aria intorno era più nebbia che altro.
Insomma, avete capito.
Le finestre aperte permettevano che una leggera brezza ci accarezzasse e in quel momento, guardando l’incrocio delle volte del soffitto, steso sulle lenzuola rosa del letto di Virginie, prima che lei tornasse con un ciotola colma di uva fresca di frigorifero, pensai: “ma per quale diavolo di motivo l’avrà fatto?”.
Mi riferivo - ça va sans dire - alla capocciata data da Zizou a quello scemo di Materazzi.
5. Z.Z.
L’uomo che dribbla è un uomo solo.
Non mi riferisco all’atto del dribblomane, assoluto e distaccato dal gioco, che, sì, impreziosisce la partita ma in fin dei conti si esaurisce come scelta esclusivamente estetica.
Zidane non era di quelli. In lui la cifra stilistica era innata, e l’eleganza del dribbling, dello scarto sull’avversario, del passaggio con l’esterno del piede, della veronica in corsa, non si riducevano al vezzo dell’ostentazione, al pezzo di bravura esibito.
Era la ricerca del proprio centro. Era la creazione di un varco dentro il campo. Era l’amore verso il gioco.
Chiunque può comprendere la differenza che passa tra lo stare in mezzo per voler fare mostra di sé o perché invece nel profondo si sente irrinunciabile la responsabilità del non nascondersi mai. E allora il nastro di stoffa elastica che stringe il braccio sinistro non è una gala, è una manifestazione del proprio intento, è una promessa.
Forse dirlo è strabordare, ma per me l’Avvocato nel descrivere Zidane non ha colto il segno:
Baggio possedeva nella sua arte la facilità e la claritas di Raffaello, e Del Piero sapeva disegnare traiettorie delicate come i rossori sui volti del Pinturicchio, ma Z. non era un Delacroix. Lui – un non-francese in prestito ai francesi - era Canova.
6. La bussola della purezza
La partita non la ricordo nitidamente. Mi ricordo la tensione, il palpitare, il fiato corto dei supplementari, ma non molto altro.
E anche il dopo, i festeggiamenti, sono ricordi di seconda mano. Immagini viste nei giorni successivi. La TV era già spenta quando Fabio (Cannavaro n.d.r.) ha alzato la coppa al cielo, o quando Totti travestito da comare tricolore si specchiava incredulo nel globo dorato.
La Storia del riscatto di una squadra, la Storia dei vincitori, dovrà per forza raccontarla qualcun altro.
Quella che mi ricordo io è la Storia dell’uomo che si era preso una Nazione sulle spalle, e che ha perso.
E’ la Storia di un campione all’ultima partita della sua carriera, e quest’ultima partita è la Finale della Campionato mondiale di calcio.
E nel culmine del match, a tanto così dall’epilogo di una vita da calciatore, succede quello.
Da cui la domanda: “ma per quale diavolo di motivo l’avrà fatto?”
Voglio dire, è chiaro che in quel momento ha perso la testa, è chiaro che non avrebbe dovuto, è chiaro che ne ha colpa, è chiaro, è chiaro… ma tra il cosa e il perché – anche se fate la tara alle parole di un appassionato - io ci vedo più cose di quante se ne possa sognare la filosofia spicciola del moralista sportivo.
Il gesto non è un gesto meschino, non c’è pilatismo; è un gesto furioso, sì, di furia cieca e irrazionale, ma di cui è immediata l’assunzione di responsabilità, non si nasconde.
Sembra, com’è ovvio, dispiaciuto. Ma a me, per niente ovvio, da l’impressione di un uomo in pace con sé stesso, baricentrato nella sua morale.
Nel suo ultimo giorno da calciatore, Zidane fa quello che farebbe un ragazzo al campetto: da una testata a quello che gli ha offeso la sorella. E basta. Non si lamenta, non cerca di giustificarsi, non dice che è colpa di Materazzi, non si appella alla provocazione.
Sì, sbaglia, ma io - fate la tara -io ci vedo purezza in quel gesto, negazione dell’artifizio, e rispetto per lo spirito profondo del gioco.
Il legame con questa dimensione fanciullesca secondo me accomuna tutti i grandi. Basta un solo esempio (ex multis): Cos’è Ronaldo (Luis Nazario) quando corre palla al piede, se non un ragazzino al parco? E non è vero che ogni ragazzino al parco quando corre sogna di essere Ronaldo (uno qualsiasi dei due)?
Non si entra nell’Olimpo (o altro luogo, sceglietevi la soteriologia che più vi compiace) se non si ritorna come bambini.
Il fatto che la testata se la sia presa quello scemo di Materazzi, non influisce su questa riflessione.
Certo, male non fa.
Alcuni nomi sono di fantasia, anche perché le persone reali non avranno certo voglia di esporsi su di un sito di bodibildi. Comunque, per chi ci tiene, con un cifrario a sostituzione si risale alla verità.
Pronti? Via.
V.V., Z. et Z.Z.
1. V.V.
Virginie “Gigì” Vachtangov è una scrittrice, attrice di teatro e una donna di mirabile fascino.
Qualche anno prima era un’attrice di teatro, una scrittrice titubante e una studentessa sbadata.
Discendente da parte di padre di un beloemigrant il quale, rifugiatosi a Parigi, finì, dopo essersi sposato, a vivere nel centro della Francia rurale, agli inizi del XXI secolo la nostra aveva fatto una strada inversa, per andare prima a Parigi e poi per rifugiarsi in un paese straniero, l’Italia, trovando finalmente una stabilità dinamica nel fare la spola tra Università degli Studi di Siena e quella di Firenze.
La burrasca primaverile, che nell’Aprile del 2006 la sorprese a bighellonare al Bobolino, la spinse a correre giù fino al grande cerchio di fronte a Porta Romana per cercare un riparo, che il pulcino ormai bagnato trovò, vicino alla fermata Ataf, sotto un ombrello color verde bottiglia.
Fu così che V.V. incontrò Z. (e viceversa).
2. Z.
Ai miei amici, gli amici veri, del calcio non è mai importato un tubo. Per cui campionato e coppe non sono mai state argomento di discussione, di risa, di abbracci o di arrabbiature. Però gli appuntamenti importanti della Nazionale cadono d’estate, e allora, se non il motivo precipuo, le partite degli azzurri potevano almeno essere strumentalizzate per avere un casus convivii e ritrovarci, dopo il tramonto, insieme ad accendere il fuoco; e al richiamo primitivo dell’odore di grossi pezzi di carne adagiati su legna ardente non siamo mai stati capaci di opporre rifiuto.
Ma non fu così quell’anno e quell’estate. Quell’estate in cui i suoi coinquilini erano partiti in anticipo, e avevano lasciato a lei sola l’intero casolare posto poco fuori Siena, la passai da Gigì.
3. La sera della Finale - Luglio 2006
Il calcio almeno nei paesi mediterranei e sudamericani, proietta sé in un’onda così lunga che la sua eco raggiunge, per quanto di lontano, anche i soggetti ad esso più distanti. Per cui, se non altro, chiunque, quando vede sullo schermo i colori della rappresentativa della propria Nazionale, sa per quale squadra si deve tenere; ma, seppur anche lei non sfuggisse a questa categoria, e di conseguenza avesse coscienza del patriottico dovere di fare il tifo per les bleus, V., più che alla partita, era interessata al mio interesse per quella.
Forse mi studiava il viso per carpire il segreto dell’attrazione che qualcos’altro sapeva esercitare su di me e, forse, una volta colto, per cercare di usarlo. E non mi spiacevano i suoi tentativi provocatoriamente sfacciati di sviarmi dall’attendere con concentrazione alle fasi del match; semmai mi infastidiva dover rispondere all’occasionale domanda sul cosa stesse n quel momento accadendo sul terreno di gioco, a cui avrei preferito controbattere (anacronisticamente) con una “u” sormontata da un accento circonflesso.
Mentre s’addipanava il filo della partita, venne la sera.
Al rigore di Grosso, stupidamente esausto anch’io, mi lasciai cadere all’indietro sul divano, e avevo le braccia al cielo. Passando sotto la mia sinistra, V. appoggiò la medusa di ricci che aveva in testa sul mio petto, e dopo forse mezzo minuto (ma in verità era molto di più che attendeva) mi disse “on y va?”.
4. La stessa sera. Più tardi.
Lo stereo rimandava la musica che piaceva a Virginie e che venendo in Italia si era portata con sé dal cuore dell’Haute-Loire:
Gli Air (Playground Love), i Groove Armada (My Friends), i Telepopmuzik (L'incertitude d'Heisenberg). O forse mi sbaglio.
Il ricordo, si sa, trasfigura la realtà.
L'amore non era adulto e le lasciavo graffi sui seni.
Il grano era già biondo e non più verde.
Ma soprattutto, l'aria intorno era più nebbia che altro.
Insomma, avete capito.
Le finestre aperte permettevano che una leggera brezza ci accarezzasse e in quel momento, guardando l’incrocio delle volte del soffitto, steso sulle lenzuola rosa del letto di Virginie, prima che lei tornasse con un ciotola colma di uva fresca di frigorifero, pensai: “ma per quale diavolo di motivo l’avrà fatto?”.
Mi riferivo - ça va sans dire - alla capocciata data da Zizou a quello scemo di Materazzi.
5. Z.Z.
L’uomo che dribbla è un uomo solo.
Non mi riferisco all’atto del dribblomane, assoluto e distaccato dal gioco, che, sì, impreziosisce la partita ma in fin dei conti si esaurisce come scelta esclusivamente estetica.
Zidane non era di quelli. In lui la cifra stilistica era innata, e l’eleganza del dribbling, dello scarto sull’avversario, del passaggio con l’esterno del piede, della veronica in corsa, non si riducevano al vezzo dell’ostentazione, al pezzo di bravura esibito.
Era la ricerca del proprio centro. Era la creazione di un varco dentro il campo. Era l’amore verso il gioco.
Chiunque può comprendere la differenza che passa tra lo stare in mezzo per voler fare mostra di sé o perché invece nel profondo si sente irrinunciabile la responsabilità del non nascondersi mai. E allora il nastro di stoffa elastica che stringe il braccio sinistro non è una gala, è una manifestazione del proprio intento, è una promessa.
Forse dirlo è strabordare, ma per me l’Avvocato nel descrivere Zidane non ha colto il segno:
Baggio possedeva nella sua arte la facilità e la claritas di Raffaello, e Del Piero sapeva disegnare traiettorie delicate come i rossori sui volti del Pinturicchio, ma Z. non era un Delacroix. Lui – un non-francese in prestito ai francesi - era Canova.
6. La bussola della purezza
La partita non la ricordo nitidamente. Mi ricordo la tensione, il palpitare, il fiato corto dei supplementari, ma non molto altro.
E anche il dopo, i festeggiamenti, sono ricordi di seconda mano. Immagini viste nei giorni successivi. La TV era già spenta quando Fabio (Cannavaro n.d.r.) ha alzato la coppa al cielo, o quando Totti travestito da comare tricolore si specchiava incredulo nel globo dorato.
La Storia del riscatto di una squadra, la Storia dei vincitori, dovrà per forza raccontarla qualcun altro.
Quella che mi ricordo io è la Storia dell’uomo che si era preso una Nazione sulle spalle, e che ha perso.
E’ la Storia di un campione all’ultima partita della sua carriera, e quest’ultima partita è la Finale della Campionato mondiale di calcio.
E nel culmine del match, a tanto così dall’epilogo di una vita da calciatore, succede quello.
Da cui la domanda: “ma per quale diavolo di motivo l’avrà fatto?”
Voglio dire, è chiaro che in quel momento ha perso la testa, è chiaro che non avrebbe dovuto, è chiaro che ne ha colpa, è chiaro, è chiaro… ma tra il cosa e il perché – anche se fate la tara alle parole di un appassionato - io ci vedo più cose di quante se ne possa sognare la filosofia spicciola del moralista sportivo.
Il gesto non è un gesto meschino, non c’è pilatismo; è un gesto furioso, sì, di furia cieca e irrazionale, ma di cui è immediata l’assunzione di responsabilità, non si nasconde.
Sembra, com’è ovvio, dispiaciuto. Ma a me, per niente ovvio, da l’impressione di un uomo in pace con sé stesso, baricentrato nella sua morale.
Nel suo ultimo giorno da calciatore, Zidane fa quello che farebbe un ragazzo al campetto: da una testata a quello che gli ha offeso la sorella. E basta. Non si lamenta, non cerca di giustificarsi, non dice che è colpa di Materazzi, non si appella alla provocazione.
Sì, sbaglia, ma io - fate la tara -io ci vedo purezza in quel gesto, negazione dell’artifizio, e rispetto per lo spirito profondo del gioco.
Il legame con questa dimensione fanciullesca secondo me accomuna tutti i grandi. Basta un solo esempio (ex multis): Cos’è Ronaldo (Luis Nazario) quando corre palla al piede, se non un ragazzino al parco? E non è vero che ogni ragazzino al parco quando corre sogna di essere Ronaldo (uno qualsiasi dei due)?
Non si entra nell’Olimpo (o altro luogo, sceglietevi la soteriologia che più vi compiace) se non si ritorna come bambini.
Il fatto che la testata se la sia presa quello scemo di Materazzi, non influisce su questa riflessione.
Certo, male non fa.
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