Facebook batte moneta, Google fa le case: ormai le multinazionali sono i nuovi Stati (con tanti saluti alla democrazia)
Facebook lancia la valuta Libra, Google un piano di edilizia popolare: in questo contesto, sembra lecito immaginare un futuro in cui un pugno di grandi multinazionali governano il mondo. Ma non deve essere necessariamente così
“Non esiste l'America, non esiste la democrazia! Esistono solo IBM, ITT, AT&T, Dupont, DOW, Union Carbide ed Exxon. Sono queste le nazioni del mondo, oggi… Non viviamo più in un mondo di nazioni e di ideologie, signor Beale: il mondo è un insieme di corporazioni, inesorabilmente regolato dalle immutabili, spietate leggi del business.”
Il famoso monologo di Arthur Jensen nel film “Quinto potere” riporta a uno degli scenari preferiti dalla fantascienza, divenuto oramai parte dell’immaginario collettivo da Metropolis a Blade Runner: quello di gigantesche corporazioni planetarie che acquisiscono un potere tale da rivaleggiare in legittimità e ambizione quello dei governi nazionali. Due annunci recenti sembrano ora indicare che uno sviluppo di questo tipo è sempre meno fantastico e sempre più reale.
Facebook ha comunicato che dal 2020 introdurrà una propria moneta, Libra, che gli oltre due miliardi di “cittadini” (o utenti) della piattaforma, e molti altri, potranno utilizzare per acquistare, vendere o scambiare beni e servizi. La scollatura fra moneta e democrazia è qualcosa di già presente nel mondo “reale”, almeno a partire dalla generalizzazione dell’indipendenza – parziale – delle banche centrali dal potere politico. Conosciamo tutti, poi, lo strapotere dei flussi finanziari globali, capaci di piegare gli stati sovrani più diversi, dalle tigri asiatiche alla Grecia.
Ci troviamo ora, però, dinnanzi a un passo successivo: una corporazione fra le più grandi ed influenti del mondo è pronta a battere moneta. E chi prenderà le decisioni su quella che potrebbe velocemente divenire una nuova valuta mondiale? Il Consiglio di amministrazione? Il Ceo? È questo d’altronde uno dei problemi principali di ogni criptovaluta: il pensiero, errato, che la politica monetaria sia un gesto neutrale. E non, invece, uno degli strumenti principali per ripartire ricchezza e povertà.
Contestualmente all’iniziativa di Facebook, Google ha annunciato un piano di investimento in edilizia popolare da un miliardo di dollari nell’area di San Francisco – una cifra paragonabile a quanto programmato in politica abitativa nel bilancio 2019-2020 dell’intera California, uno stato con un Pil superiore a quello italiano. Non si tratta, banalmente, di un campus o di abitazioni per i propri dipendenti, ma di un vero e proprio intervento in pianificazione urbana atto ad affrontare la mancanza cronica di alloggi a buon mercato in un contesto in cui gli stati appaiono sempre meno capaci di garantire il diritto all’abitare.
In entrambi i casi queste nuove “competenze” vanno ad aggiungersi a un vasto arsenale di controllo e indirizzo di cui le due compagnie già dispongono, rendendo lecito immaginare un futuro in cui un pugno di grandi multinazionali possano governare un ecosistema finanziario e comunicativo mondiale. Già oggi dispongono della proprietà dei dati di miliardi di individui: una capacità di conoscere ciascuno di noi, dalla nostra condizione finanziaria alla nostra stabilità psicologica, nonché di indirizzare il nostro pensiero e le nostre azioni, che nessuno stato nazionale è in grado di equiparare.
E proprio qui sta il punto: operazioni di questo tipo vanno a completare un vero e proprio “potere” mondiale con spiccate caratteristiche statuali. È forse lecito parlare della nascita delle prime vere e proprie “nazioni planetarie”? Quasi-stati mondiali e digitali con competenze senz’altro più limitate delle nazioni territoriali ma capaci di abbracciare l’intero pianeta con la loro azione. Quasi-stati che spesso riescono a piegare le vecchie nazioni ai propri desiderata, come tragicamente evidente nel sistema dei paradisi fiscali che permette una gigantesca evasione legalizzata per pochi.
Ciò che un tempo si chiamava sovranità oggi deflagra, si ripartisce a scala planetaria e viene rimescolato in un inedito mosaico di competenze e spazi di controllo intrecciati – alcuni pubblici e alcuni privati. Quel sentimento di “perdita di controllo” che si trova alla base di gran parte dell’insorgenza nazionalista del nostro tempo pare così destinato ad acuirsi, e così la crisi della democrazia. Come l’annuncio di Libra pare completare la separazione fra politica democratica e moneta, il dispiegarsi di nuovi poteri planetari scollegati dagli stati territoriali sembra prefigurare un futuro in cui sempre più il cambiamento del mondo verrà deciso e guidato al di fuori di ogni partecipazione democratica.
È questa la scommessa che abbiamo di fronte: riuscire a sviluppare una nuova politica planetaria capace di riconquistare alla democrazia le grandi scelte del futuro. Ed è qualcosa che si può fare. Quando l’Unione europea ha deciso di sanzionare google, o di imporre uno standard di privacy minimo come il GDPR, l’Unione ha vinto sui quasi-stati planetari. Oltre lo sterile dibattito nostrano sul sovranismo, è forse di questo che dovremmo parlare: come aggiornare la nostra politica democratica ad un mondo già divenuto patria comune.
Facebook lancia la valuta Libra, Google un piano di edilizia popolare: in questo contesto, sembra lecito immaginare un futuro in cui un pugno di grandi multinazionali governano il mondo. Ma non deve essere necessariamente così
“Non esiste l'America, non esiste la democrazia! Esistono solo IBM, ITT, AT&T, Dupont, DOW, Union Carbide ed Exxon. Sono queste le nazioni del mondo, oggi… Non viviamo più in un mondo di nazioni e di ideologie, signor Beale: il mondo è un insieme di corporazioni, inesorabilmente regolato dalle immutabili, spietate leggi del business.”
Il famoso monologo di Arthur Jensen nel film “Quinto potere” riporta a uno degli scenari preferiti dalla fantascienza, divenuto oramai parte dell’immaginario collettivo da Metropolis a Blade Runner: quello di gigantesche corporazioni planetarie che acquisiscono un potere tale da rivaleggiare in legittimità e ambizione quello dei governi nazionali. Due annunci recenti sembrano ora indicare che uno sviluppo di questo tipo è sempre meno fantastico e sempre più reale.
Facebook ha comunicato che dal 2020 introdurrà una propria moneta, Libra, che gli oltre due miliardi di “cittadini” (o utenti) della piattaforma, e molti altri, potranno utilizzare per acquistare, vendere o scambiare beni e servizi. La scollatura fra moneta e democrazia è qualcosa di già presente nel mondo “reale”, almeno a partire dalla generalizzazione dell’indipendenza – parziale – delle banche centrali dal potere politico. Conosciamo tutti, poi, lo strapotere dei flussi finanziari globali, capaci di piegare gli stati sovrani più diversi, dalle tigri asiatiche alla Grecia.
Ci troviamo ora, però, dinnanzi a un passo successivo: una corporazione fra le più grandi ed influenti del mondo è pronta a battere moneta. E chi prenderà le decisioni su quella che potrebbe velocemente divenire una nuova valuta mondiale? Il Consiglio di amministrazione? Il Ceo? È questo d’altronde uno dei problemi principali di ogni criptovaluta: il pensiero, errato, che la politica monetaria sia un gesto neutrale. E non, invece, uno degli strumenti principali per ripartire ricchezza e povertà.
Contestualmente all’iniziativa di Facebook, Google ha annunciato un piano di investimento in edilizia popolare da un miliardo di dollari nell’area di San Francisco – una cifra paragonabile a quanto programmato in politica abitativa nel bilancio 2019-2020 dell’intera California, uno stato con un Pil superiore a quello italiano. Non si tratta, banalmente, di un campus o di abitazioni per i propri dipendenti, ma di un vero e proprio intervento in pianificazione urbana atto ad affrontare la mancanza cronica di alloggi a buon mercato in un contesto in cui gli stati appaiono sempre meno capaci di garantire il diritto all’abitare.
In entrambi i casi queste nuove “competenze” vanno ad aggiungersi a un vasto arsenale di controllo e indirizzo di cui le due compagnie già dispongono, rendendo lecito immaginare un futuro in cui un pugno di grandi multinazionali possano governare un ecosistema finanziario e comunicativo mondiale. Già oggi dispongono della proprietà dei dati di miliardi di individui: una capacità di conoscere ciascuno di noi, dalla nostra condizione finanziaria alla nostra stabilità psicologica, nonché di indirizzare il nostro pensiero e le nostre azioni, che nessuno stato nazionale è in grado di equiparare.
E proprio qui sta il punto: operazioni di questo tipo vanno a completare un vero e proprio “potere” mondiale con spiccate caratteristiche statuali. È forse lecito parlare della nascita delle prime vere e proprie “nazioni planetarie”? Quasi-stati mondiali e digitali con competenze senz’altro più limitate delle nazioni territoriali ma capaci di abbracciare l’intero pianeta con la loro azione. Quasi-stati che spesso riescono a piegare le vecchie nazioni ai propri desiderata, come tragicamente evidente nel sistema dei paradisi fiscali che permette una gigantesca evasione legalizzata per pochi.
Ciò che un tempo si chiamava sovranità oggi deflagra, si ripartisce a scala planetaria e viene rimescolato in un inedito mosaico di competenze e spazi di controllo intrecciati – alcuni pubblici e alcuni privati. Quel sentimento di “perdita di controllo” che si trova alla base di gran parte dell’insorgenza nazionalista del nostro tempo pare così destinato ad acuirsi, e così la crisi della democrazia. Come l’annuncio di Libra pare completare la separazione fra politica democratica e moneta, il dispiegarsi di nuovi poteri planetari scollegati dagli stati territoriali sembra prefigurare un futuro in cui sempre più il cambiamento del mondo verrà deciso e guidato al di fuori di ogni partecipazione democratica.
È questa la scommessa che abbiamo di fronte: riuscire a sviluppare una nuova politica planetaria capace di riconquistare alla democrazia le grandi scelte del futuro. Ed è qualcosa che si può fare. Quando l’Unione europea ha deciso di sanzionare google, o di imporre uno standard di privacy minimo come il GDPR, l’Unione ha vinto sui quasi-stati planetari. Oltre lo sterile dibattito nostrano sul sovranismo, è forse di questo che dovremmo parlare: come aggiornare la nostra politica democratica ad un mondo già divenuto patria comune.
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