Originariamente Scritto da Sly83
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La crisi del 1929 secondo Groucho Marx
Affari ben più sensazionali di quelli dello spettacolo attrassero
presto la mia attenzione, e quella di tutto il paese. Parlo di una
cosetta chiamata Borsa. Feci la sua conoscenza intorno al 1926, e
fu una piacevole sorpresa scoprire che ero un giocatore piuttosto
scaltro. O almeno cosi sembrava, perché tutto ciò che compravo
aumentava di valore. Non avevo consulenti Finanziari. Che bisogno
c'era? Bastava chiudere gli occhi, puntare il dito su un punto
qualsiasi del tabellone, e i titoli che compravi cominciavano a
salire. Non incassavo mai: sembrava assurdo vendere un'azione a
trenta quando sapevi che nel giro di un anno sarebbe raddoppiata o
triplicata.
Per Cocoanuts la mia paga era sui duemila dollari a settimana, ma
erano noccioline in confronto alla grana che teoricamente facevo a
Wall Street. Badate bene, lavorare in quello spettacolo mi piaceva
molto, ma la paga m'interessava pochissimo. Prendevo dritte sul
mercato azionario da tutti. Oggi è difficile crederci, ma in quel
periodo casi come i seguenti erano normalissimi.
Ero in ascensore, al Copley Plaza Hotel di Boston. Il lift mi
riconobbe e disse: "Sa, signor Marx, poco fa qui sono saliti due
tizi. Pezzi grossi! Col vestito a doppio petto e un garofano
all'occhiello. Parlavano di Borsa, e creda a me, avevano l'aria di
saperla lunga. Non hanno pensato che li stavo a sentire, ma io
quando manovro l'ascensore tengo sempre le orecchie aperte. Non ho
mica voglia di mandare su e giù queste scatole tutta la vita!
Comunque," continuò "ho sentito che uno diceva all'altro: "Metti
tutti i soldi che puoi nelle United Corporation".
"Come si chiamava il titolo?" domandai.
Mi guardo con aria sprezzante. "Che c'è, fratello? Qualche guasto
alle orecchie? Gliel'ho detto. United Corporation".
Gli diedi cinque dollari e corsi in camera di Harpo, a informarlo
senza indugio della potenziale miniera d'oro in cui mi ero
imbattuto in ascensore. Harpo stava finendo di far colazione ed era
ancora in accappatoio.
"Giù nell'atrio dell'albergo c'è l'ufficio di un agente di Borsa"
disse. "Aspetta che mi vesto e scendiamo a acciuffare queste azioni
prima che la notizia si diffonda".
"Harpo," dissi io sei matto? Se aspettiamo che ti vesti, le azioni
possono salire di dieci punti!". Sicché io in soprabito e Harpo in
accappatoio ci precipitammo giù dall'agente a arraffare
centosessantamila dollari di azioni United Corporation, con un
deposito del venticinque per cento.
Per i pochi fortunati che nel '29 non sono andati in rovina e non
sanno nulla di Wall Street, lasciatemi spiegare cosa vuol dire
deposito del venticinque per cento. Per esempio, se uno comprava
ottantamila dollari di azioni, bastava che versasse ventimila
dollari in contanti. Il saldo lo anticipava il broker. Era come
rubare i soldi.
Un mercoledì pomeriggio Chico incontrò a Broadway un drittaiolo di
Wall Street, che gli disse sottovoce: "Chico, vengo adesso da Wall
Street, e là non si parla che delle Anaconda Copper. Si vendono a
centotrentotto dollari l'una, e corre voce che andranno a
cinquecento! Prendile prima che sia troppo tardi! E una dritta
sicura, ci puoi scommettere!".
Chico, notorio scommettitore, venne di corsa in teatro con
l'annuncio di questa pacchia. Avevamo una diurna, e aspettammo
mezz'ora ad alzare il sipario finché il nostro agente ci assicurò
che eravamo stati tanto fortunati da accaparrarci seicento azioni.
Andammo in estasi! Chico, Harpo e io possedevamo duecento azioni
ciascuno di quel titolo mirabile. Anche l'agente si congratulò con
noi: "Non capita spesso, di investire al momento giusto in una
società come l'Anaconda!".
La Borsa saliva, saliva. Quando eravamo in tournee, Max Gordon, il
produttore teatrale. mi faceva ogni mattina un'interurbana da New
York, per darmi le quotazioni e le sue previsioni sulla giornata.
Il pronostico non cambiava mai. Era sempre: "Su, su, su!". Fino
allora non avevo mai immaginato che si potesse diventar ricchi
senza lavorare.
Una mattina Max mi telefono dicendomi di comprare i titoli Auburn.
Era un'azienda automobilistica, ora defunta. "Marx," disse "questo
è un titolo che galoppa. Farà balzi da canguro. Prendilo adesso
finché sei in tempo".
Poi, come per un ripensamento, aggiunse: "Perché non pianti
Cocoanuts e non lasci perdere quei miseri duemila alla settimana?
Sono spiccioli. Da come maneggi le tue finanze, direi che puoi fare
più soldi in un'ora seduto nell'ufficio di un agente di Borsa che
strapazzandoti per otto rappresentazioni settimanali a Broadway".
"Max," risposi "il tuo è senza dubbio un buon consiglio. Ma
dopotutto ho certi obblighi verso Kaufman, Ryskind, Irving Berlin e
verso il mio produttore, Sam Harris".
Allora non sapevo che Kaufman, Ryskind, Berlin e Harris compravano
anche loro a deposito, e che alla fine, ridendo e scherzando,
sarebbero stati ripuliti dai loro consiglieri finanziari. Comunque,
su consiglio di Max, telefonai subito al mio agente e lo incaricai
di comprarmi cinquecento azioni della Auburn Motor Company.
Qualche settimana dopo gironzolavo sui prati rasi del country club
con Max Gordon. Dalle nostre labbra penzolavano grossi e costosi
sigari Avana. Il mondo andava a meraviglia e negli occhi di Max
c'era una luce celestiale (e anche un paio di simboli del dollaro).
Appena il giorno prima le Auburn erano balzate su di trentotto
punti. Mi volsi al mio compagno di golf e dissi "Max, da quanto
tempo va avanti questa storia?".
"Fratello" rispose Max, soffiando una battuta a Al Jolson "ancora
non hai visto niente!"
La cosa più stupefacente del mercato di Borsa del '29 era che
nessuno vendeva mai un titolo. La gente continuava a comprare. Un
giorno interrogai timidamente il mio agente di Great Neck su questo
fenomeno speculativo. "Io di Wall Street non so molto," cominciai
in tono di scusa "ma da che dipende che queste azioni continuano a
salire? Non ci dovrebbe essere qualche rapporto tra i guadagni di
una compagnia, i dividendi e il prezzo di vendita dei titoli?"
Lui mi passò con gli occhi sopra la testa, guardando una nuova
vittima che entrava nell'ufficio, e disse: "Signor Marx, ne ha da
imparare sul mercato di Borsa. Con quello che lei non sa sui titoli
azionari si riempirebbe un libro". "Senta, buon uomo" replicai,
"Sono venuto qui a chiedere un parere. Se lei non è capace di
parlare civilmente, vedrò di provvedere ai miei affari altrove.
Dunque, cosa stava dicendo?".
Debitamente redarguito e con la coda tra le gambe, rispose: "Signor
Marx, forse lei non se ne rende conto, ma questo non e più un
mercato nazionale. Siamo in un mercato mondiale. Riceviamo ordini
d'acquisto da tutti i paesi d'Europa, dal Sudamerica e perfino
dall'Oriente. Non più tardi di stamattina abbiamo avuto un ordine
dalI'Indostan per l'acquisto di mille azioni della Crane Impianti
Igienici". Con una certa diffidenza, chiesi: "Pensa che sia un buon
affare?".
"Niente di meglio. Se c'è una cosa che dobbiamo usare tutti, sono
gli impianti igienici". (A me venivano in mente varie altre cose,
ma non ero sicuro che fossero quotate in Borsa).
"Ridicolo" dissi. "Nel South Dakota ho degli amici indiani che
impianti igienici non ne anno. Risi di cuore alla mia battuta, ma
lui no, sicché proseguii. "Lei dice che ordinano le Crane
dall'Indostan? Hmmm. Se usano gli impianti igienici fin là
nell'Indostan, si vede che sanno il fatto loro. Mi segni per
duecento azioni. No, faccia trecento".
Col mercato che continuava a salire a rotta di collo, cominciai a
innervosirmi. Quel po' di giudizio che avevo mi diceva di vendere,
ma come tutti gli altri beoti ero avido. Mi ripugnava dare via
azioni che in pochi mesi sarebbero di sicuro raddoppiate di valore.
Oggi leggo spesso sui giornali di gente che va a teatro e si lagna
di aver dovuto pagare cento dollari per due biglietti di My Fair
Lady (personalmente, penso che i cento li vale). Be', io una volta
ho pagato trentottomila dollari per vedere Eddie Cantor al Palace.
Sappiamo tutti che Eddie è un comico formidabile. Anche lui non
esita ad ammetterlo. Faceva uno spettacolo stupendo Cantava
"Margie, Now's the Time to Fall in love", e "If You Knew Susie".
Raccontava storielle d'attualità da far torcere il pubblico, e
terminava cantando "Whoopee". Insomma, era uno schianto. Aveva quel
non so che di magnetico che distingue la grande star dalla mezza
cartuccia cronica.
Cantor era mio vicino di casa a Great Neck. Da vecchio amico, al
termine dello spettacolo andai a trovarlo dietro le quinte. Eddie è
un parlatore molto persuasivo, e prima che io potessi dirgli quanto
mi era piaciuta la sua interpretazione mi tirò in camerino, chiuse
in fretta la porta, diede un'occhiata alla stanza vuota per vedere
se ci fosse qualcuno in ascolto e disse: "Groucho, ti adoro!". In
questo saluto non c'era niente di strano. E' solo il modo in cui si
parla tra gente di spettacolo. In teatro, una tacita legge impone
che quando due si incontrano (attore e attrice, attrice e attrice,
attore e attore, e tutte le altre varianti o deviazioni sessuali)
evitino rigorosamente i soliti saluti barattati dalle persone
normali. I due, invece, devono bersagliarsi a vicenda con
espressioni di tenerezza che in altri ambiti sociali sono riservate
di solito alla camera da letto.
"Dolcezza mia," continuò Cantor "ti è piaciuto il mio numero?".
Mi guardai attorno, caso mai alle mie spalle ci fosse una ragazza.
Purtroppo non c'era e capii che Cantor diceva a me. "Eddie,
carissimo" risposi con sincero entusiasmo "sei stato superbo!".
Stavo per lanciargli altri mazzolini quando lui mi scrutò con quei
suoi occhioni scintillanti, mi appoggio le mani aperte sul petto e
disse: "Bel giovane, ne hai di Goldman-Sachs?".
"Tesoro," risposi "a questo gioco ci so fare anch'io "non solo non
ne ho, ma non so cosa sia. Goldman-Sachs? E' un tipo di cipria?".
Mi afferrò per i risvolti e mi attiro a sé. Per un attimo pensai
che volesse baciarmi. "Non mi dire che non hai mai sentito nominare
la GoldmanSachs!" esclamo incredulo. "E' la holding, più
sensazionale del tabellone!".
Guardò l'orologio. "Hmmm" disse. "Per oggi è troppo tardi. La Borsa
è chiusa. Ma domattina, bimbo, per prima cosa prendi il cappello,
corri dal tuo agente e acchiappa duecento azioni della
Goldman-Sachs. Mi pare che oggi hanno chiuso a centocinquantasei...
e a centocinquantasei sono regalate!". Poi Eddie mi dette un
colpetto sulla guancia, io un colpetto sulla sua e ci separamrno.
Caspita, com'ero contento di essere andato in camerino a trovare
Cantor! Pensate un po', se quel pomeriggio non fossi andato al
Palace non avrei mai avuto questa dritta. L'indomani mattina, prima
di colazione, mi precipitai dal mio agente all'apertura della
Borsa. Sganciai il venticinque per cento di trentottomila dollari e
diventai il fortunato possessore di duecento azioni della
Goldman-Sachs, la più grande holding d'America.
Cominciai a passare le mattine negli uffici degli agenti di Borsa,
a fissare un tabellone pullulante di simboli che non capivo. Se non
ci andavo per tempo non riuscivo nemmeno a entrare: certe agenzie
di Borsa avevano più avventori di molti teatri di Broadway.
Sembrava che quasi tutti i miei conoscenti fossero scesi in lizza.
Non si parlava che di quanto aveva guadagnato il tale la settimana
scorsa o del titolo talaltro che presto sarebbe stato frazionato
tre a uno. Stagnai, gelatai, macellai, panettieri, tutti con
l'anelito di arricchire, riversavano su Wall Street le loro esigue
sostanze, spesso i risparmi di una vita. A volte il mercato
vacillava, ma poi si scrollava di dosso le remore dei ribassisti e
del buonsenso e riprendeva la sua ascesa implacabile.
Di tanto in tanto, qualche veggente finanziario dava voce a cupi
presagi, ammonendo che i prezzi erano fuori da ogni proporzione con
i valori effettivi, e ricordando che tutto ciò che sale è destinato
a scendere. Ma nessuno dava retta a questi insulsi posapiano e ai
loro stolidi consigli di prudenza. Anche Barney Baruch, il Socrate
di Central Park, il mago dell'economia americana, disse una parola
di monito. Non ricordo i termini esatti, ma il senso pressappoco
era questo: "Quando la Borsa diventa notizia da prima pagina, è ora
di squagliarsela".
Io non c'ero al tempo della Febbre dell'Oro del '49 (intendo il
1849), ma immagino che fosse una febbre molto simile a quella che
stava contagiando tutto il paese. Il presidente Hoover andava a
pesca, e il resto del governo federale sembrava completamente
ignaro di ciò che accadeva. Se il governo ci avesse messo il naso,
non sono sicuro che sarebbe servito a qualcosa; comunque sia, il
mercato continuò a galoppare allegramente verso il suo destino.
Un certo giorno, il mercato cominciò a tentennare. Alcuni dei
clienti più apprensivi si impaurirono, e presero a vendere. Sono
passati quasi tent'anni, e non ricordo le varie fasi della
catastrofe che ci rovinò addosso, ma così come all'inizio
dell'impennata tutti volevano comprare, adesso, col diffondersi del
panico, tutti si diedero a vendere.
Dapprima le vendite si svolsero con ordine ma presto la paura prese
a calci il buonsenso e tutti, per salvare il salvabile, si misero a
buttare i loro titoli sulla piazza, ora mutata in un pozzo.
La paura contagiò gli agenti di Borsa che cominciarono a reclamare
versamenti d'acconto supplementari. Stavano freschi, perché la
maggior parte dei clienti erano rimasti senza soldi; e gli agenti
si misero a dar via i titoli a qualunque prezzo. Io fui uno dei più
gonzi.
Disgraziatamente, avevo ancora denaro in banca; onde evitare la
svendita dei miei titoli mi diedi a firmare febbrilmente assegni
per reintegrare gli acconti che si liquefacevano rapidamente. Poi,
un martedì sensazionale, Wall Street gettò la spugna e crollò. La
spugna veniva a proposito, perché a questo punto il paese era un
lago di lacrime.
Certi miei conoscenti persero milioni. Io fui più fortunato: persi
solo duecentoquarantamila dollari (ossia centoventi settimane di
lavoro a duemila la settimana). Avrei perso di più, ma quelli erano
tutti i soldi che avevo. Il giorno convulso del collasso finale, il
mio amico Marc Gordon, già mio consulente finanziario e scaltro
operatore, mi telefonò da New York. In cinque parole, fece una
dichiarazione che in futuro, penso, reggerà bene il confronto con
le frasi più memorabili della storia americana. Mi riferisco a
detti imperituri quali "Non mollate la nave", "Non sparate finché
non vedete il bianco degli occhi", "Datemi la libertà o la morte",
"Ho solo una vita da donare alla patria". Queste parole sprofondano
in una relativa banalità accanto al motto lapidario di Max. Mai
incline a frivole chiacchiere, questa volta egli tralasciò anche il
"Pronto" di prammatica. Disse soltanto: "Marx, la festa è finita!".
E prima che potessi rispondere riagganciò.
Nel gran bailamme di cose scritte dagli studiosi delle leggi di
mercato, mi sembra che nessuno abbia riassunto quello sconquasso
con la concisione del mio amico Gordon. Le sue cinque parole
dicevano tutto. La festa era proprio finita. Credo che la sola
ragione per cui continuai a vivere fu il conforto di sapere che
tutti i miei amici erano sulla stessa barca. Anche in campo
finanziario, come altrove mal comune mezzo gaudio.
Se l'agente avesse svenduto i miei titoli quando cominciavano a
franare, avrei risparmiato una vera fortuna; ma poiché non potevo
concepire che scendessero più in basso di così, mi misi a prendere
soldi in prestito dalla banca per coprire i depositi d'acconto che
si dileguavano rapidamente. Le Anaconda Copper (ricordate il
sipario alzato con mezz'ora di ritardo, per acciuffarle?) si
liquefecero come le nevi del Kilimangiaro (l'ho letto anch'io
Hemingway, cosa credete), e alla fine precipitarono a due dollari e
mezzo. Le United Corporation, provenienti dalla soffiata
dell'ascensorista di Boston, finirono a tre; le avevamo comprate a
sessanta. La diurna di Cantor al Palace era stata splendida, degna
del miglior Broadway. Ma le Goldman-Sachs a centocinquantasei
dollari? Eddie, tesoro, come hai potuto? A fine crisi si poteva
averle a un dollaro l'una!
Affari ben più sensazionali di quelli dello spettacolo attrassero
presto la mia attenzione, e quella di tutto il paese. Parlo di una
cosetta chiamata Borsa. Feci la sua conoscenza intorno al 1926, e
fu una piacevole sorpresa scoprire che ero un giocatore piuttosto
scaltro. O almeno cosi sembrava, perché tutto ciò che compravo
aumentava di valore. Non avevo consulenti Finanziari. Che bisogno
c'era? Bastava chiudere gli occhi, puntare il dito su un punto
qualsiasi del tabellone, e i titoli che compravi cominciavano a
salire. Non incassavo mai: sembrava assurdo vendere un'azione a
trenta quando sapevi che nel giro di un anno sarebbe raddoppiata o
triplicata.
Per Cocoanuts la mia paga era sui duemila dollari a settimana, ma
erano noccioline in confronto alla grana che teoricamente facevo a
Wall Street. Badate bene, lavorare in quello spettacolo mi piaceva
molto, ma la paga m'interessava pochissimo. Prendevo dritte sul
mercato azionario da tutti. Oggi è difficile crederci, ma in quel
periodo casi come i seguenti erano normalissimi.
Ero in ascensore, al Copley Plaza Hotel di Boston. Il lift mi
riconobbe e disse: "Sa, signor Marx, poco fa qui sono saliti due
tizi. Pezzi grossi! Col vestito a doppio petto e un garofano
all'occhiello. Parlavano di Borsa, e creda a me, avevano l'aria di
saperla lunga. Non hanno pensato che li stavo a sentire, ma io
quando manovro l'ascensore tengo sempre le orecchie aperte. Non ho
mica voglia di mandare su e giù queste scatole tutta la vita!
Comunque," continuò "ho sentito che uno diceva all'altro: "Metti
tutti i soldi che puoi nelle United Corporation".
"Come si chiamava il titolo?" domandai.
Mi guardo con aria sprezzante. "Che c'è, fratello? Qualche guasto
alle orecchie? Gliel'ho detto. United Corporation".
Gli diedi cinque dollari e corsi in camera di Harpo, a informarlo
senza indugio della potenziale miniera d'oro in cui mi ero
imbattuto in ascensore. Harpo stava finendo di far colazione ed era
ancora in accappatoio.
"Giù nell'atrio dell'albergo c'è l'ufficio di un agente di Borsa"
disse. "Aspetta che mi vesto e scendiamo a acciuffare queste azioni
prima che la notizia si diffonda".
"Harpo," dissi io sei matto? Se aspettiamo che ti vesti, le azioni
possono salire di dieci punti!". Sicché io in soprabito e Harpo in
accappatoio ci precipitammo giù dall'agente a arraffare
centosessantamila dollari di azioni United Corporation, con un
deposito del venticinque per cento.
Per i pochi fortunati che nel '29 non sono andati in rovina e non
sanno nulla di Wall Street, lasciatemi spiegare cosa vuol dire
deposito del venticinque per cento. Per esempio, se uno comprava
ottantamila dollari di azioni, bastava che versasse ventimila
dollari in contanti. Il saldo lo anticipava il broker. Era come
rubare i soldi.
Un mercoledì pomeriggio Chico incontrò a Broadway un drittaiolo di
Wall Street, che gli disse sottovoce: "Chico, vengo adesso da Wall
Street, e là non si parla che delle Anaconda Copper. Si vendono a
centotrentotto dollari l'una, e corre voce che andranno a
cinquecento! Prendile prima che sia troppo tardi! E una dritta
sicura, ci puoi scommettere!".
Chico, notorio scommettitore, venne di corsa in teatro con
l'annuncio di questa pacchia. Avevamo una diurna, e aspettammo
mezz'ora ad alzare il sipario finché il nostro agente ci assicurò
che eravamo stati tanto fortunati da accaparrarci seicento azioni.
Andammo in estasi! Chico, Harpo e io possedevamo duecento azioni
ciascuno di quel titolo mirabile. Anche l'agente si congratulò con
noi: "Non capita spesso, di investire al momento giusto in una
società come l'Anaconda!".
La Borsa saliva, saliva. Quando eravamo in tournee, Max Gordon, il
produttore teatrale. mi faceva ogni mattina un'interurbana da New
York, per darmi le quotazioni e le sue previsioni sulla giornata.
Il pronostico non cambiava mai. Era sempre: "Su, su, su!". Fino
allora non avevo mai immaginato che si potesse diventar ricchi
senza lavorare.
Una mattina Max mi telefono dicendomi di comprare i titoli Auburn.
Era un'azienda automobilistica, ora defunta. "Marx," disse "questo
è un titolo che galoppa. Farà balzi da canguro. Prendilo adesso
finché sei in tempo".
Poi, come per un ripensamento, aggiunse: "Perché non pianti
Cocoanuts e non lasci perdere quei miseri duemila alla settimana?
Sono spiccioli. Da come maneggi le tue finanze, direi che puoi fare
più soldi in un'ora seduto nell'ufficio di un agente di Borsa che
strapazzandoti per otto rappresentazioni settimanali a Broadway".
"Max," risposi "il tuo è senza dubbio un buon consiglio. Ma
dopotutto ho certi obblighi verso Kaufman, Ryskind, Irving Berlin e
verso il mio produttore, Sam Harris".
Allora non sapevo che Kaufman, Ryskind, Berlin e Harris compravano
anche loro a deposito, e che alla fine, ridendo e scherzando,
sarebbero stati ripuliti dai loro consiglieri finanziari. Comunque,
su consiglio di Max, telefonai subito al mio agente e lo incaricai
di comprarmi cinquecento azioni della Auburn Motor Company.
Qualche settimana dopo gironzolavo sui prati rasi del country club
con Max Gordon. Dalle nostre labbra penzolavano grossi e costosi
sigari Avana. Il mondo andava a meraviglia e negli occhi di Max
c'era una luce celestiale (e anche un paio di simboli del dollaro).
Appena il giorno prima le Auburn erano balzate su di trentotto
punti. Mi volsi al mio compagno di golf e dissi "Max, da quanto
tempo va avanti questa storia?".
"Fratello" rispose Max, soffiando una battuta a Al Jolson "ancora
non hai visto niente!"
La cosa più stupefacente del mercato di Borsa del '29 era che
nessuno vendeva mai un titolo. La gente continuava a comprare. Un
giorno interrogai timidamente il mio agente di Great Neck su questo
fenomeno speculativo. "Io di Wall Street non so molto," cominciai
in tono di scusa "ma da che dipende che queste azioni continuano a
salire? Non ci dovrebbe essere qualche rapporto tra i guadagni di
una compagnia, i dividendi e il prezzo di vendita dei titoli?"
Lui mi passò con gli occhi sopra la testa, guardando una nuova
vittima che entrava nell'ufficio, e disse: "Signor Marx, ne ha da
imparare sul mercato di Borsa. Con quello che lei non sa sui titoli
azionari si riempirebbe un libro". "Senta, buon uomo" replicai,
"Sono venuto qui a chiedere un parere. Se lei non è capace di
parlare civilmente, vedrò di provvedere ai miei affari altrove.
Dunque, cosa stava dicendo?".
Debitamente redarguito e con la coda tra le gambe, rispose: "Signor
Marx, forse lei non se ne rende conto, ma questo non e più un
mercato nazionale. Siamo in un mercato mondiale. Riceviamo ordini
d'acquisto da tutti i paesi d'Europa, dal Sudamerica e perfino
dall'Oriente. Non più tardi di stamattina abbiamo avuto un ordine
dalI'Indostan per l'acquisto di mille azioni della Crane Impianti
Igienici". Con una certa diffidenza, chiesi: "Pensa che sia un buon
affare?".
"Niente di meglio. Se c'è una cosa che dobbiamo usare tutti, sono
gli impianti igienici". (A me venivano in mente varie altre cose,
ma non ero sicuro che fossero quotate in Borsa).
"Ridicolo" dissi. "Nel South Dakota ho degli amici indiani che
impianti igienici non ne anno. Risi di cuore alla mia battuta, ma
lui no, sicché proseguii. "Lei dice che ordinano le Crane
dall'Indostan? Hmmm. Se usano gli impianti igienici fin là
nell'Indostan, si vede che sanno il fatto loro. Mi segni per
duecento azioni. No, faccia trecento".
Col mercato che continuava a salire a rotta di collo, cominciai a
innervosirmi. Quel po' di giudizio che avevo mi diceva di vendere,
ma come tutti gli altri beoti ero avido. Mi ripugnava dare via
azioni che in pochi mesi sarebbero di sicuro raddoppiate di valore.
Oggi leggo spesso sui giornali di gente che va a teatro e si lagna
di aver dovuto pagare cento dollari per due biglietti di My Fair
Lady (personalmente, penso che i cento li vale). Be', io una volta
ho pagato trentottomila dollari per vedere Eddie Cantor al Palace.
Sappiamo tutti che Eddie è un comico formidabile. Anche lui non
esita ad ammetterlo. Faceva uno spettacolo stupendo Cantava
"Margie, Now's the Time to Fall in love", e "If You Knew Susie".
Raccontava storielle d'attualità da far torcere il pubblico, e
terminava cantando "Whoopee". Insomma, era uno schianto. Aveva quel
non so che di magnetico che distingue la grande star dalla mezza
cartuccia cronica.
Cantor era mio vicino di casa a Great Neck. Da vecchio amico, al
termine dello spettacolo andai a trovarlo dietro le quinte. Eddie è
un parlatore molto persuasivo, e prima che io potessi dirgli quanto
mi era piaciuta la sua interpretazione mi tirò in camerino, chiuse
in fretta la porta, diede un'occhiata alla stanza vuota per vedere
se ci fosse qualcuno in ascolto e disse: "Groucho, ti adoro!". In
questo saluto non c'era niente di strano. E' solo il modo in cui si
parla tra gente di spettacolo. In teatro, una tacita legge impone
che quando due si incontrano (attore e attrice, attrice e attrice,
attore e attore, e tutte le altre varianti o deviazioni sessuali)
evitino rigorosamente i soliti saluti barattati dalle persone
normali. I due, invece, devono bersagliarsi a vicenda con
espressioni di tenerezza che in altri ambiti sociali sono riservate
di solito alla camera da letto.
"Dolcezza mia," continuò Cantor "ti è piaciuto il mio numero?".
Mi guardai attorno, caso mai alle mie spalle ci fosse una ragazza.
Purtroppo non c'era e capii che Cantor diceva a me. "Eddie,
carissimo" risposi con sincero entusiasmo "sei stato superbo!".
Stavo per lanciargli altri mazzolini quando lui mi scrutò con quei
suoi occhioni scintillanti, mi appoggio le mani aperte sul petto e
disse: "Bel giovane, ne hai di Goldman-Sachs?".
"Tesoro," risposi "a questo gioco ci so fare anch'io "non solo non
ne ho, ma non so cosa sia. Goldman-Sachs? E' un tipo di cipria?".
Mi afferrò per i risvolti e mi attiro a sé. Per un attimo pensai
che volesse baciarmi. "Non mi dire che non hai mai sentito nominare
la GoldmanSachs!" esclamo incredulo. "E' la holding, più
sensazionale del tabellone!".
Guardò l'orologio. "Hmmm" disse. "Per oggi è troppo tardi. La Borsa
è chiusa. Ma domattina, bimbo, per prima cosa prendi il cappello,
corri dal tuo agente e acchiappa duecento azioni della
Goldman-Sachs. Mi pare che oggi hanno chiuso a centocinquantasei...
e a centocinquantasei sono regalate!". Poi Eddie mi dette un
colpetto sulla guancia, io un colpetto sulla sua e ci separamrno.
Caspita, com'ero contento di essere andato in camerino a trovare
Cantor! Pensate un po', se quel pomeriggio non fossi andato al
Palace non avrei mai avuto questa dritta. L'indomani mattina, prima
di colazione, mi precipitai dal mio agente all'apertura della
Borsa. Sganciai il venticinque per cento di trentottomila dollari e
diventai il fortunato possessore di duecento azioni della
Goldman-Sachs, la più grande holding d'America.
Cominciai a passare le mattine negli uffici degli agenti di Borsa,
a fissare un tabellone pullulante di simboli che non capivo. Se non
ci andavo per tempo non riuscivo nemmeno a entrare: certe agenzie
di Borsa avevano più avventori di molti teatri di Broadway.
Sembrava che quasi tutti i miei conoscenti fossero scesi in lizza.
Non si parlava che di quanto aveva guadagnato il tale la settimana
scorsa o del titolo talaltro che presto sarebbe stato frazionato
tre a uno. Stagnai, gelatai, macellai, panettieri, tutti con
l'anelito di arricchire, riversavano su Wall Street le loro esigue
sostanze, spesso i risparmi di una vita. A volte il mercato
vacillava, ma poi si scrollava di dosso le remore dei ribassisti e
del buonsenso e riprendeva la sua ascesa implacabile.
Di tanto in tanto, qualche veggente finanziario dava voce a cupi
presagi, ammonendo che i prezzi erano fuori da ogni proporzione con
i valori effettivi, e ricordando che tutto ciò che sale è destinato
a scendere. Ma nessuno dava retta a questi insulsi posapiano e ai
loro stolidi consigli di prudenza. Anche Barney Baruch, il Socrate
di Central Park, il mago dell'economia americana, disse una parola
di monito. Non ricordo i termini esatti, ma il senso pressappoco
era questo: "Quando la Borsa diventa notizia da prima pagina, è ora
di squagliarsela".
Io non c'ero al tempo della Febbre dell'Oro del '49 (intendo il
1849), ma immagino che fosse una febbre molto simile a quella che
stava contagiando tutto il paese. Il presidente Hoover andava a
pesca, e il resto del governo federale sembrava completamente
ignaro di ciò che accadeva. Se il governo ci avesse messo il naso,
non sono sicuro che sarebbe servito a qualcosa; comunque sia, il
mercato continuò a galoppare allegramente verso il suo destino.
Un certo giorno, il mercato cominciò a tentennare. Alcuni dei
clienti più apprensivi si impaurirono, e presero a vendere. Sono
passati quasi tent'anni, e non ricordo le varie fasi della
catastrofe che ci rovinò addosso, ma così come all'inizio
dell'impennata tutti volevano comprare, adesso, col diffondersi del
panico, tutti si diedero a vendere.
Dapprima le vendite si svolsero con ordine ma presto la paura prese
a calci il buonsenso e tutti, per salvare il salvabile, si misero a
buttare i loro titoli sulla piazza, ora mutata in un pozzo.
La paura contagiò gli agenti di Borsa che cominciarono a reclamare
versamenti d'acconto supplementari. Stavano freschi, perché la
maggior parte dei clienti erano rimasti senza soldi; e gli agenti
si misero a dar via i titoli a qualunque prezzo. Io fui uno dei più
gonzi.
Disgraziatamente, avevo ancora denaro in banca; onde evitare la
svendita dei miei titoli mi diedi a firmare febbrilmente assegni
per reintegrare gli acconti che si liquefacevano rapidamente. Poi,
un martedì sensazionale, Wall Street gettò la spugna e crollò. La
spugna veniva a proposito, perché a questo punto il paese era un
lago di lacrime.
Certi miei conoscenti persero milioni. Io fui più fortunato: persi
solo duecentoquarantamila dollari (ossia centoventi settimane di
lavoro a duemila la settimana). Avrei perso di più, ma quelli erano
tutti i soldi che avevo. Il giorno convulso del collasso finale, il
mio amico Marc Gordon, già mio consulente finanziario e scaltro
operatore, mi telefonò da New York. In cinque parole, fece una
dichiarazione che in futuro, penso, reggerà bene il confronto con
le frasi più memorabili della storia americana. Mi riferisco a
detti imperituri quali "Non mollate la nave", "Non sparate finché
non vedete il bianco degli occhi", "Datemi la libertà o la morte",
"Ho solo una vita da donare alla patria". Queste parole sprofondano
in una relativa banalità accanto al motto lapidario di Max. Mai
incline a frivole chiacchiere, questa volta egli tralasciò anche il
"Pronto" di prammatica. Disse soltanto: "Marx, la festa è finita!".
E prima che potessi rispondere riagganciò.
Nel gran bailamme di cose scritte dagli studiosi delle leggi di
mercato, mi sembra che nessuno abbia riassunto quello sconquasso
con la concisione del mio amico Gordon. Le sue cinque parole
dicevano tutto. La festa era proprio finita. Credo che la sola
ragione per cui continuai a vivere fu il conforto di sapere che
tutti i miei amici erano sulla stessa barca. Anche in campo
finanziario, come altrove mal comune mezzo gaudio.
Se l'agente avesse svenduto i miei titoli quando cominciavano a
franare, avrei risparmiato una vera fortuna; ma poiché non potevo
concepire che scendessero più in basso di così, mi misi a prendere
soldi in prestito dalla banca per coprire i depositi d'acconto che
si dileguavano rapidamente. Le Anaconda Copper (ricordate il
sipario alzato con mezz'ora di ritardo, per acciuffarle?) si
liquefecero come le nevi del Kilimangiaro (l'ho letto anch'io
Hemingway, cosa credete), e alla fine precipitarono a due dollari e
mezzo. Le United Corporation, provenienti dalla soffiata
dell'ascensorista di Boston, finirono a tre; le avevamo comprate a
sessanta. La diurna di Cantor al Palace era stata splendida, degna
del miglior Broadway. Ma le Goldman-Sachs a centocinquantasei
dollari? Eddie, tesoro, come hai potuto? A fine crisi si poteva
averle a un dollaro l'una!
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