Originariamente Scritto da Sly83
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Camera dei Deputati 14 dicembre 1978, discorso di Napolitano:
(…) Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, di ripartire dalla posizione assunta da noi di fronte alle indicazioni scaturite questa estate dalla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione. Guardammo allora con interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale, per accelerare lo sviluppo delle economie europee, combattere la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui l’euro avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fin dall’inizio. Quello delle garanzie da conseguire affinché l’euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell’Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico.
Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia: “Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea”.
Ma dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E’ così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione.
Queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di principio favorevole e che escludesse l’entrata dal primo gennaio nell’euro, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata?
No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi a una risoluzione che assume le caratteristiche ristrette di una unione monetaria, le cui caratteristiche rischiano per lo più di creare gravi problemi ai Paesi più deboli che entrino a farne parte. Naturalmente non sottovalutiamo l’importanza degli sforzi rivolti a creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità, è vero anche che esse sono il riflesso di squilibri profondi all’interno dei singoli Paesi.
La verità è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è finito per mettere il “carro” di un accordo monetario davanti ai “buoi” di un accordo per le economie.
Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco fa anche il collega Cicchitto) delle sollecitazioni e delle assicurazioni pervenuteci da governi amici. Queste sollecitazioni confermano l’esistenza di un reale e forte interesse degli altri Paesi membri della Comunità ad avere l’Italia al più presto presente nell’euro. Si sarebbe, dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando adesione immediata, per portare avanti un serio negoziato. Ma se ci si vuole, onorevoli colleghi, confrontare con i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, bisogna sbarazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico e di maniera. Si è giunti a sostenere che “l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni se appartenere o meno all’euro, ma se recidere” – dico recidere – “o meno i suoi legami con i Paesi dell’Europa occidentale, sul terreno economico e sul terreno politico”. Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non poggia su alcun argomento razionale e si colloca, invece, nel quadro di una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era davanti tal nostro Paese.
Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra – eludendo la difficile strada della ricerca del consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della sua linea ispiratrice, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario“.
(…) Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, di ripartire dalla posizione assunta da noi di fronte alle indicazioni scaturite questa estate dalla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione. Guardammo allora con interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale, per accelerare lo sviluppo delle economie europee, combattere la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui l’euro avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fin dall’inizio. Quello delle garanzie da conseguire affinché l’euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell’Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico.
Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia: “Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea”.
Ma dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E’ così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione.
Queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di principio favorevole e che escludesse l’entrata dal primo gennaio nell’euro, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata?
No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi a una risoluzione che assume le caratteristiche ristrette di una unione monetaria, le cui caratteristiche rischiano per lo più di creare gravi problemi ai Paesi più deboli che entrino a farne parte. Naturalmente non sottovalutiamo l’importanza degli sforzi rivolti a creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità, è vero anche che esse sono il riflesso di squilibri profondi all’interno dei singoli Paesi.
La verità è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è finito per mettere il “carro” di un accordo monetario davanti ai “buoi” di un accordo per le economie.
Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco fa anche il collega Cicchitto) delle sollecitazioni e delle assicurazioni pervenuteci da governi amici. Queste sollecitazioni confermano l’esistenza di un reale e forte interesse degli altri Paesi membri della Comunità ad avere l’Italia al più presto presente nell’euro. Si sarebbe, dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando adesione immediata, per portare avanti un serio negoziato. Ma se ci si vuole, onorevoli colleghi, confrontare con i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, bisogna sbarazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico e di maniera. Si è giunti a sostenere che “l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni se appartenere o meno all’euro, ma se recidere” – dico recidere – “o meno i suoi legami con i Paesi dell’Europa occidentale, sul terreno economico e sul terreno politico”. Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non poggia su alcun argomento razionale e si colloca, invece, nel quadro di una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era davanti tal nostro Paese.
Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra – eludendo la difficile strada della ricerca del consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della sua linea ispiratrice, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario“.
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