Il bivio di Draghi sui ministri del governo: tecnici o politici?
La sfida per Mario Draghi sarà quella di ottenere una larga maggioranza
Al fondo di una crisi di governo che è soprattutto crisi di sistema, Sergio Mattarella chiama Mario Draghi per un esecutivo «di alto profilo» e «senza formula politica».
È una decisione che il capo dello Stato non aveva preparato con i partiti e che affiderà al voto del Parlamento: lì dove l’ex presidente della Bce dovrà conquistarsi la fiducia. Draghi era consapevole che — in caso di emergenza — sarebbe arrivata la chiamata del capo dello Stato, ed è altrettanto consapevole che il suo compito sarà difficile e delicato: costruire una maggioranza solida, nelle condizioni in cui versano oggi le Camere, sarebbe di per sé un’operazione improba. Ma il messaggio alla nazione del presidente della Repubblica è uno scudo che agevolerà il suo percorso.
Non è un caso che Mattarella abbia evitato di dare una connotazione al tentativo del futuro «incaricato», perché lascerà a lui decidere la formula del suo gabinetto: se cioè affidarsi a una squadra di esterni alla politica o cercare anche la collaborazione di personalità espressione dei partiti. Molti leader di maggioranza e opposizione hanno incontrato Draghi da quando ha lasciato Francoforte, e tutti sanno che il «tecnico» non ha intenzione di radicarsi in politica, che — a fronte di chiari punti programmatici — lascerà poi il campo e il ruolo ai partiti. E i partiti, posti davanti al bivio tra default e reset, dovranno ora scegliere. Altrimenti al capo dello Stato non resterà che varare un governo elettorale per gestire le urne.
Ma quel nome è una «livella» che frantuma gli equilibri. Lo si vede dallo scontro che già divide i grillini, dal modo precipitoso in cui il Pd si è ricacciato in gola l’idea di gridare alle elezioni. E dalle difficoltà a cui è atteso il centrodestra. La mossa di Renzi, la decisione di rompere lo schema a cui i giallorossi tentavano di costringerlo con il Conte 3, ha aperto a uno scenario che già era all’orizzonte. Quando il leader di Iv ha chiesto la sponda della Lega prima di formalizzare la rottura, Salvini gli ha risposto: «Prima fai cadere l’avvocato». Sparigliando, Renzi ha provocato il big bang. Nei Cinquestelle già si delinea la faglia tra l’ala movimentista e Di Maio, che vede in Draghi un passaggio traumatico ma in prospettiva proficuo per la maturazione di M5s. Nel Pd, la perdita del Santo Graal, cioè il progetto di riconquistare il Colle spingerà i democratici a cercare un nuovo baricentro.
Poi c’è l’opposizione. Ed è lì che si sta aprendo un dibattito sul «che fare». Perché fino a quando la crisi è rimasta una sfida all’interno del centrosinistra, è venuto facile trincerarsi dietro la richiesta di voto anticipato. Ma i centristi avevano avvisato per tempo Salvini: se dovesse cambiare il quadro bisognerebbe cambiare schema. Lo schema è cambiato, così come aveva previsto il leghista Giorgetti, sostenitore di un governo di unità nazionale guidato da Draghi. L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che conosce da anni l’ex presidente della Bce, spinge perché il centrodestra appoggi il futuro gabinetto. Ne vede i benefici: una legittimazione internazionale, un posto al tavolo delle riforme e la partecipazione alla scelta del prossimo presidente della Repubblica.
Sono le perplessità della Meloni a trattenere Salvini. Ma Giorgetti è stato chiaro: se non si trovasse una sintesi, la coalizione si spaccherebbe e una parte andrebbe a formare una maggioranza che avrebbe poi i numeri per varare la legge elettorale proporzionale, scegliere il prossimo capo dello Stato e confinare l’area sovranista fuori da un nuovo arco costituzionale. Il passaggio è strategico e imporrà anche a Berlusconi di uscire dall’ambiguità della formula dietro cui si è finora riparato: il «governo dei migliori». Altrimenti Forza Italia si dividerà. Il nome di Draghi preannuncia una sfida da «dentro o fuori» per i partiti, la presa d’atto che non basteranno più solo leader acchiappa voti ma personalità capaci di governare. In una sera è cambiato tutto: appena nata, la Terza Repubblica è già finita.
CorSera
La sfida per Mario Draghi sarà quella di ottenere una larga maggioranza
Al fondo di una crisi di governo che è soprattutto crisi di sistema, Sergio Mattarella chiama Mario Draghi per un esecutivo «di alto profilo» e «senza formula politica».
È una decisione che il capo dello Stato non aveva preparato con i partiti e che affiderà al voto del Parlamento: lì dove l’ex presidente della Bce dovrà conquistarsi la fiducia. Draghi era consapevole che — in caso di emergenza — sarebbe arrivata la chiamata del capo dello Stato, ed è altrettanto consapevole che il suo compito sarà difficile e delicato: costruire una maggioranza solida, nelle condizioni in cui versano oggi le Camere, sarebbe di per sé un’operazione improba. Ma il messaggio alla nazione del presidente della Repubblica è uno scudo che agevolerà il suo percorso.
Non è un caso che Mattarella abbia evitato di dare una connotazione al tentativo del futuro «incaricato», perché lascerà a lui decidere la formula del suo gabinetto: se cioè affidarsi a una squadra di esterni alla politica o cercare anche la collaborazione di personalità espressione dei partiti. Molti leader di maggioranza e opposizione hanno incontrato Draghi da quando ha lasciato Francoforte, e tutti sanno che il «tecnico» non ha intenzione di radicarsi in politica, che — a fronte di chiari punti programmatici — lascerà poi il campo e il ruolo ai partiti. E i partiti, posti davanti al bivio tra default e reset, dovranno ora scegliere. Altrimenti al capo dello Stato non resterà che varare un governo elettorale per gestire le urne.
Ma quel nome è una «livella» che frantuma gli equilibri. Lo si vede dallo scontro che già divide i grillini, dal modo precipitoso in cui il Pd si è ricacciato in gola l’idea di gridare alle elezioni. E dalle difficoltà a cui è atteso il centrodestra. La mossa di Renzi, la decisione di rompere lo schema a cui i giallorossi tentavano di costringerlo con il Conte 3, ha aperto a uno scenario che già era all’orizzonte. Quando il leader di Iv ha chiesto la sponda della Lega prima di formalizzare la rottura, Salvini gli ha risposto: «Prima fai cadere l’avvocato». Sparigliando, Renzi ha provocato il big bang. Nei Cinquestelle già si delinea la faglia tra l’ala movimentista e Di Maio, che vede in Draghi un passaggio traumatico ma in prospettiva proficuo per la maturazione di M5s. Nel Pd, la perdita del Santo Graal, cioè il progetto di riconquistare il Colle spingerà i democratici a cercare un nuovo baricentro.
Poi c’è l’opposizione. Ed è lì che si sta aprendo un dibattito sul «che fare». Perché fino a quando la crisi è rimasta una sfida all’interno del centrosinistra, è venuto facile trincerarsi dietro la richiesta di voto anticipato. Ma i centristi avevano avvisato per tempo Salvini: se dovesse cambiare il quadro bisognerebbe cambiare schema. Lo schema è cambiato, così come aveva previsto il leghista Giorgetti, sostenitore di un governo di unità nazionale guidato da Draghi. L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che conosce da anni l’ex presidente della Bce, spinge perché il centrodestra appoggi il futuro gabinetto. Ne vede i benefici: una legittimazione internazionale, un posto al tavolo delle riforme e la partecipazione alla scelta del prossimo presidente della Repubblica.
Sono le perplessità della Meloni a trattenere Salvini. Ma Giorgetti è stato chiaro: se non si trovasse una sintesi, la coalizione si spaccherebbe e una parte andrebbe a formare una maggioranza che avrebbe poi i numeri per varare la legge elettorale proporzionale, scegliere il prossimo capo dello Stato e confinare l’area sovranista fuori da un nuovo arco costituzionale. Il passaggio è strategico e imporrà anche a Berlusconi di uscire dall’ambiguità della formula dietro cui si è finora riparato: il «governo dei migliori». Altrimenti Forza Italia si dividerà. Il nome di Draghi preannuncia una sfida da «dentro o fuori» per i partiti, la presa d’atto che non basteranno più solo leader acchiappa voti ma personalità capaci di governare. In una sera è cambiato tutto: appena nata, la Terza Repubblica è già finita.
CorSera
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