Conte teme trappole: «O questo governo o le elezioni anticipate. Girerò casa per casa»
L’idea di andare avanti anche con meno di 161 voti al Senato. E a chi gli consiglia di ricucire con Iv replica: non se ne parla
Giuseppe Conte — nonostante gli scenari che parlano di numeri a rischio, e di centristi che si sfilano da un possibile sostegno al Senato — si è convinto di avere stretto con i leader dei partiti un «patto di ferro» o il suo governo, o le elezioni. E il sottotitolo dell’intesa è lapidario: «Nessun accordo con Renzi». A sera, dopo una giornata segnata dall’addio di Mastella e dalla bruciante defezione dell’Udc, da Palazzo Chigi trapela la nuova linea: il governo va avanti, perché nel mezzo della pandemia l’Italia non può permettersi un vuoto di potere. Un messaggio concordato con il Pd e i 5 Stelle per allontanare la grande paura montata nelle ultime ore e rimuovere le bucce di banana su cui l’avvocato pugliese rischia, tra domani e martedì, di rompersi l’osso del collo.
Senza i quattro voti dei centristi di Lorenzo Cesa, che si è tirato fuori dai «giochi di palazzo» dopo le pressioni della destra sovranista, la situazione si è «molto complicata», per ammissione dello stesso premier. Nel soccorso «bianco» Conte ci aveva sperato parecchio. Il simbolo dell’Udc, ancorato al Ppe, sarebbe stata per il giurista pugliese una conquista preziosa. Non solo un amo per pescare senatori di Forza Italia, ma anche la prima pietra della nuova casa politica, liberal democratica ed europeista, che Conte va offrendo agli aspiranti «costruttori» di stabilità. «Peccato, era una cosa bella — ci è rimasto male il premier —. Ora è tutto più difficile. Ma io non mi arrendo, ho fretta di chiudere e rimettermi al lavoro».
Adesso tocca aggiustare in corsa la strategia, senza cambiare rotta. Già venerdì sera nelle stanze del premier si sono accorti che l’aria era cambiata in peggio. Conte si è collegato via zoom con Zingaretti, Di Maio e i capi delegazione dei partiti, ha ammesso problemi con il pallottoliere e anche con parte dei 5 Stelle, contrari a promettere troppe poltrone ai novelli responsabili. Che fare? Rinunciare alle comunicazioni e limitarsi a una informativa, così da evitare la conta in aula? E poi salire al Quirinale per le dimissioni e aprire una crisi al buio? Il Conte ter è una strada, certo, ma il presidente la ritiene troppo pericolosa. E pare che i «big» del Pd non gli abbiano addolcito troppo la pillola: «Fai bene ad aver paura, Giuseppe...». Il timore del trappolone c’è. Tanto che da Palazzo Chigi, per assicurarsi numeri solidi, non partono solo le telefonate del premier e del capo di Gabinetto Alessandro Goracci, ma anche quelle del giovane segretario particolare Andrea Benvenuti, 28 anni. Il problema è che i responsabili non si fidano, vogliono vedere i numeri e per ora il pallottoliere è fermo a 154.
Insomma, raccontano sottovoce i dem che sarebbe stato il capo delegazione del Pd, Dario Franceschini, a suggerire a Conte la via maestra. Portare la crisi in aula «alla luce del sole», spiegare al Paese che è stato Renzi a volere la rottura e chiamare deputati e senatori a una forte assunzione di responsabilità in nome dell’Italia, del Recovery e dei miliardi dello scostamento di bilancio. «Se prendo la fiducia anche con qualche voto in meno dei 161, il governo continua il suo viaggio — ha preso atto Conte — Ma sarà un governo debole». Il contrario di quello che il Quirinale spera. Eppure anche il premier, come i dem, pensa che il tema più importante sia la continuità. E il ministro Gualtieri lo ha rassicurato sul fatto che l’Europa, attraverso il commissario Paolo Gentiloni, è pronta a sostenere anche a un governo che avesse la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato.
Conte, la cui storia politica è solo all’inizio, ha espresso tutte le sue preoccupazioni e Zingaretti e Franceschini lo hanno rassicurato: «La fiducia la prendi, il tema è con quanti voti... Pensiamo a vincere e poi si rafforzerà la maggioranza, dal programma, alla squadra, ai voti in Parlamento». E se tutto va male? Se finisce clamorosamente bocciato, come accadde a Romano Prodi? In virtù del «patto di ferro» che il premier è sicuro di aver stretto con i leader dei partiti, non resterebbe che prepararsi al voto anticipato a giugno. Anche il M5S lo ha rassicurato: «Niente accordi con Renzi, niente governi politici senza di te, niente governi tecnici».
E dunque Conte già studia la sua resurrezione. «Se non prendo la fiducia il governo cadrà in Parlamento, davanti agli occhi degli italiani - ragiona a porte chiuse —. E se a giugno si vota, la vittoria della destra è tutt’altro che scontata. Girerò l’Italia città per città, paesino per paesino...». Il progetto della lista «Insieme» c’è. E se è lecito dubitare che il M5S sia pronto a consegnare una fetta del suo elettorato al nascente partito di Conte, a Palazzo Chigi sono fiduciosi: «Da Di Maio, a Di Battista, a Fico e Taverna, i 5 Stelle non sono mai stati così compatti».
Ma intanto il rischio più concreto è che la crisi si allunghi, con il virus che corre e voti con fondamentali che incombono. Lo scostamento di bilancio da 32 miliardi, per cominciare, dove i 161 sì al Senato sono necessari. «Basta un trappolone parlamentare e andiamo tutti a casa», scuote la testa un dirigente del Pd che ancora consiglia di ricucire con Renzi. Ma questo per Conte è un totem: «Non se ne parla».
CorSera
L’idea di andare avanti anche con meno di 161 voti al Senato. E a chi gli consiglia di ricucire con Iv replica: non se ne parla
Giuseppe Conte — nonostante gli scenari che parlano di numeri a rischio, e di centristi che si sfilano da un possibile sostegno al Senato — si è convinto di avere stretto con i leader dei partiti un «patto di ferro» o il suo governo, o le elezioni. E il sottotitolo dell’intesa è lapidario: «Nessun accordo con Renzi». A sera, dopo una giornata segnata dall’addio di Mastella e dalla bruciante defezione dell’Udc, da Palazzo Chigi trapela la nuova linea: il governo va avanti, perché nel mezzo della pandemia l’Italia non può permettersi un vuoto di potere. Un messaggio concordato con il Pd e i 5 Stelle per allontanare la grande paura montata nelle ultime ore e rimuovere le bucce di banana su cui l’avvocato pugliese rischia, tra domani e martedì, di rompersi l’osso del collo.
Senza i quattro voti dei centristi di Lorenzo Cesa, che si è tirato fuori dai «giochi di palazzo» dopo le pressioni della destra sovranista, la situazione si è «molto complicata», per ammissione dello stesso premier. Nel soccorso «bianco» Conte ci aveva sperato parecchio. Il simbolo dell’Udc, ancorato al Ppe, sarebbe stata per il giurista pugliese una conquista preziosa. Non solo un amo per pescare senatori di Forza Italia, ma anche la prima pietra della nuova casa politica, liberal democratica ed europeista, che Conte va offrendo agli aspiranti «costruttori» di stabilità. «Peccato, era una cosa bella — ci è rimasto male il premier —. Ora è tutto più difficile. Ma io non mi arrendo, ho fretta di chiudere e rimettermi al lavoro».
Adesso tocca aggiustare in corsa la strategia, senza cambiare rotta. Già venerdì sera nelle stanze del premier si sono accorti che l’aria era cambiata in peggio. Conte si è collegato via zoom con Zingaretti, Di Maio e i capi delegazione dei partiti, ha ammesso problemi con il pallottoliere e anche con parte dei 5 Stelle, contrari a promettere troppe poltrone ai novelli responsabili. Che fare? Rinunciare alle comunicazioni e limitarsi a una informativa, così da evitare la conta in aula? E poi salire al Quirinale per le dimissioni e aprire una crisi al buio? Il Conte ter è una strada, certo, ma il presidente la ritiene troppo pericolosa. E pare che i «big» del Pd non gli abbiano addolcito troppo la pillola: «Fai bene ad aver paura, Giuseppe...». Il timore del trappolone c’è. Tanto che da Palazzo Chigi, per assicurarsi numeri solidi, non partono solo le telefonate del premier e del capo di Gabinetto Alessandro Goracci, ma anche quelle del giovane segretario particolare Andrea Benvenuti, 28 anni. Il problema è che i responsabili non si fidano, vogliono vedere i numeri e per ora il pallottoliere è fermo a 154.
Insomma, raccontano sottovoce i dem che sarebbe stato il capo delegazione del Pd, Dario Franceschini, a suggerire a Conte la via maestra. Portare la crisi in aula «alla luce del sole», spiegare al Paese che è stato Renzi a volere la rottura e chiamare deputati e senatori a una forte assunzione di responsabilità in nome dell’Italia, del Recovery e dei miliardi dello scostamento di bilancio. «Se prendo la fiducia anche con qualche voto in meno dei 161, il governo continua il suo viaggio — ha preso atto Conte — Ma sarà un governo debole». Il contrario di quello che il Quirinale spera. Eppure anche il premier, come i dem, pensa che il tema più importante sia la continuità. E il ministro Gualtieri lo ha rassicurato sul fatto che l’Europa, attraverso il commissario Paolo Gentiloni, è pronta a sostenere anche a un governo che avesse la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato.
Conte, la cui storia politica è solo all’inizio, ha espresso tutte le sue preoccupazioni e Zingaretti e Franceschini lo hanno rassicurato: «La fiducia la prendi, il tema è con quanti voti... Pensiamo a vincere e poi si rafforzerà la maggioranza, dal programma, alla squadra, ai voti in Parlamento». E se tutto va male? Se finisce clamorosamente bocciato, come accadde a Romano Prodi? In virtù del «patto di ferro» che il premier è sicuro di aver stretto con i leader dei partiti, non resterebbe che prepararsi al voto anticipato a giugno. Anche il M5S lo ha rassicurato: «Niente accordi con Renzi, niente governi politici senza di te, niente governi tecnici».
E dunque Conte già studia la sua resurrezione. «Se non prendo la fiducia il governo cadrà in Parlamento, davanti agli occhi degli italiani - ragiona a porte chiuse —. E se a giugno si vota, la vittoria della destra è tutt’altro che scontata. Girerò l’Italia città per città, paesino per paesino...». Il progetto della lista «Insieme» c’è. E se è lecito dubitare che il M5S sia pronto a consegnare una fetta del suo elettorato al nascente partito di Conte, a Palazzo Chigi sono fiduciosi: «Da Di Maio, a Di Battista, a Fico e Taverna, i 5 Stelle non sono mai stati così compatti».
Ma intanto il rischio più concreto è che la crisi si allunghi, con il virus che corre e voti con fondamentali che incombono. Lo scostamento di bilancio da 32 miliardi, per cominciare, dove i 161 sì al Senato sono necessari. «Basta un trappolone parlamentare e andiamo tutti a casa», scuote la testa un dirigente del Pd che ancora consiglia di ricucire con Renzi. Ma questo per Conte è un totem: «Non se ne parla».
CorSera
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