Caso Yara: il dilemma del presunto assassino
Senza una confessione piena del presunto assassino di Yara Gambirasio, la sola traccia di dna è sufficiente a sostenere l’accusa in giudizio fino a sentenza di condanna? Questa la domanda che ci si pone il giorno dopo l’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, che nel primo interrogatorio davanti al pubblico ministero Letizia Ruggeri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Oltre alla prova genetica, contro di lui gioca la cella telefonica agganciata dal suo telefonino la sera della scomparsa della tredicenne di Brembate, ma in questo caso il legale di Bossetti avrà gioco facile nel sostenere che il suo assistito era a casa, poco distante dal luogo della scomparsa. Quindi si torna alla prova regina.
Qui bisogna essere precisi: il profilo del dna di Bossetti è stato ricavato da una traccia di sangue importante trovata addosso a Yara Gambirasio. Non in un posto qualsiasi, come il giubbotto, dove il rischio contaminazione sarebbe molto alto, ma sui leggins e nella parte interna delle mutandine: insomma, una zona compatibile con la dinamica dell’omicidio e dove le probabilità di contatto sono nulle.
Le prossime ore saranno decisive. Massimo Giuseppe Bossetti è davanti a un bivio, dovrà decidere alla svelta che strada prendere, e la sua scelta sarà a quel punto irreversibile e segnerà per sempre la sua vita. Fondamentale sarà il ruolo del suo legale, che lo indirizzerà in un senso piuttosto che un altro. Per capirci, il punto in cui si trova oggi è questo: dalle risultanze delle indagini medico scientifiche emerge come l’assassino, probabilmente, non volesse uccidere Yara, i segni di lama sul corpo della piccola ginnasta sono superficiali, confusi e non espressione di una chiara volontà di commettere un omicidio. Se mai avesse voluto ucciderla, non è stato in grado di farlo.
Inoltre, l’assassino non ha trascinato la ragazza nel campo per nasconderla, ma l’ha lasciata lì dopo che la situazione gli è sfuggita di mano. Yara è arrivata con i suoi piedi nel punto in cui è stata ritrovata, fosse stata più vicina al bordo della strada qualcuno l’avrebbe vista. Invece è morta di freddo. Insomma, l’assassino potrà sempre dire: non volevo, non l’ho fatto apposta, non avevo coscienza che potesse rimanere e morire lì.
Ecco il bivio di Bossetti. Può decidere di negare tutto, affidarsi al miglior genetista mondiale, strapagarlo, e aggredire il dna per andare al muro contro muro con la procura in giudizio. È la strada più rischiosa, tutto o niente, dove il tutto sarebbe una condanna anche al massimo della pena, senza attenuanti. Oppure, optare per la via più ragionevole: confessare, scegliere il rito abbreviato con una accusa di omicidio preterintenzionale, e puntare a chiudere il processo con una condanna a dieci anni di carcere. Chissà cosa passa nella testa del presunto assassino.
Senza una confessione piena del presunto assassino di Yara Gambirasio, la sola traccia di dna è sufficiente a sostenere l’accusa in giudizio fino a sentenza di condanna? Questa la domanda che ci si pone il giorno dopo l’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, che nel primo interrogatorio davanti al pubblico ministero Letizia Ruggeri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Oltre alla prova genetica, contro di lui gioca la cella telefonica agganciata dal suo telefonino la sera della scomparsa della tredicenne di Brembate, ma in questo caso il legale di Bossetti avrà gioco facile nel sostenere che il suo assistito era a casa, poco distante dal luogo della scomparsa. Quindi si torna alla prova regina.
Qui bisogna essere precisi: il profilo del dna di Bossetti è stato ricavato da una traccia di sangue importante trovata addosso a Yara Gambirasio. Non in un posto qualsiasi, come il giubbotto, dove il rischio contaminazione sarebbe molto alto, ma sui leggins e nella parte interna delle mutandine: insomma, una zona compatibile con la dinamica dell’omicidio e dove le probabilità di contatto sono nulle.
Le prossime ore saranno decisive. Massimo Giuseppe Bossetti è davanti a un bivio, dovrà decidere alla svelta che strada prendere, e la sua scelta sarà a quel punto irreversibile e segnerà per sempre la sua vita. Fondamentale sarà il ruolo del suo legale, che lo indirizzerà in un senso piuttosto che un altro. Per capirci, il punto in cui si trova oggi è questo: dalle risultanze delle indagini medico scientifiche emerge come l’assassino, probabilmente, non volesse uccidere Yara, i segni di lama sul corpo della piccola ginnasta sono superficiali, confusi e non espressione di una chiara volontà di commettere un omicidio. Se mai avesse voluto ucciderla, non è stato in grado di farlo.
Inoltre, l’assassino non ha trascinato la ragazza nel campo per nasconderla, ma l’ha lasciata lì dopo che la situazione gli è sfuggita di mano. Yara è arrivata con i suoi piedi nel punto in cui è stata ritrovata, fosse stata più vicina al bordo della strada qualcuno l’avrebbe vista. Invece è morta di freddo. Insomma, l’assassino potrà sempre dire: non volevo, non l’ho fatto apposta, non avevo coscienza che potesse rimanere e morire lì.
Ecco il bivio di Bossetti. Può decidere di negare tutto, affidarsi al miglior genetista mondiale, strapagarlo, e aggredire il dna per andare al muro contro muro con la procura in giudizio. È la strada più rischiosa, tutto o niente, dove il tutto sarebbe una condanna anche al massimo della pena, senza attenuanti. Oppure, optare per la via più ragionevole: confessare, scegliere il rito abbreviato con una accusa di omicidio preterintenzionale, e puntare a chiudere il processo con una condanna a dieci anni di carcere. Chissà cosa passa nella testa del presunto assassino.
Commenta