Originariamente Scritto da naoto
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Soggettivamente, io so di essere. Non è una questione filosofica, è un puro dato di fatto. Io ho consapevolezza, ovvero ho esperienze qualitative. Il rosso per me ha una qualità (esperienza del rosso), a prescindere dal fatto che sia un contenuto mentale stimolato da una certa lunghezza d'onda (o dalla memoria). Invece, non posso avere certezza che un altro utente abbia una coscienza; idealmente, potrebbe essere un sofisticato programma che dà degli output complessi in risposta a stimoli complessi.
Questo non cambia comunque la mia consapevolezza soggettiva.
Una macchina per l'elaborazione degli input non causa automaticamente una coscienza. Un esempio classico è l'argomento della stanza cinese di John Searle. Immaginiamo di costruire un stanza con un terminale di input e uno di output. All'interno della stanza c'è un inglese che non conosce il cinese, a cui sono state date una serie di istruzioni: a seconda della combinazione degli ideogrammi cinesi che gli viene fornita come input, deve dare combinazioni precise di altri simboli come output.
Questa è una semplice macchina: essa è in grado di simulare la conoscenza del cinese, ma il meccanismo non ha nessuna comprensione dei significati che manipola, sa solo applicare sequenze di regole.
Una formica potrebbe agire come un veicolo lunare robotizzato e scegliere il percorso secondo un programma di stimolo-risposta, oppure avere consapevolezza di ciò che sta facendo; il comportamento sarebbe invariato, ma non esiste un passaggio logico che derivi da ciò l'equivalenza tra mente cosciente e sequenza di operazioni stimolo-risposta. Così come prima dicevo che si può simulare il modo di rispondere di una mente cosciente senza che ciò implichi la causazione della coscienza stessa.
Mi ripeto: non esiste un passaggio logico che possa derivare univocamente l'inesistenza della coscienza da ciò; esiste invece la possibilità di concepire un comportamento analogo in presenza o assenza di coscienza, il che dimostra se non altro che può esistere un attributo di coscienza indipendente dalle manifestazioni comportamentali.
Un altro passaggio logico bizzarro proprio del riduzionismo è il seguente. La coscienza dovrebbe nascere come funzione della complessità del programma. Ora, perché? In che modo la complessità dovrebbe causare la coscienza? Questo è un argomento fideistico a priori ed è proprio del fisicalismo. La coscienza come esperienza soggettiva è qualitativa; il metodo scientifico è quantitativo; tutto deve essere spiegato attraverso il metodo scientifico, quindi ogni fenomeno deve essere ridotto in senso quantitativo; ergo, i fenomeni qualitativi sono funzione della complessità dei fenomeni quantitativi. La terza premessa del teorema è assolutamente arbitraria e invalida la conclusione.
il vero problema della posizione riduzionista è comunque la sua incapacità di spiegare l'ontologia in prima persona della coscienza. L'unica risposta che dà è che il passaggio dall'ontologia in terza persona a quella in prima persona è funzione della complessità, senza saper fornire argomenti a sostegno di questa ipotesi.
Infine il riduzionismo ha un ulteriore problema/epitaffio. C'è una dimostrazione logica piuttosto complessa, proposta inizialmente da John Lucas, che dimostra come un sistema per l'elaborazione matematica di informazioni non sia in grado di riprodurre alcune capacità logiche proprie della mente umana, come ad esempio il problema dell'indecidibilità dell'arresto. Capacità che, in effetti, noi invece abbiamo. L'incapacità della macchina prescinde dalla complessità del programma, ovvero non è funzione della potenziale complessità. I problemi di tipo irrisolvibile cadono sempre nella categoria dei problemi autoricorsivi, e finiscono invariabilmente vittime della catastrofe dei metalivelli infiniti. In pratica, la macchina non è in grado di riconoscere quando un problema è indecidibile, e invece che arrestarsi sulla soluzione "è indecidibile" continua a cercare di decidere se sia decidibile o meno all'infinito. Una mente umana invece riconosce immediatamente la ricorsività infinita e decide per l'indecidibilità.
Originariamente Scritto da Dr.Vazzo
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Non ci sono argomenti definitivi per confutare la possibile sopravvivenza di certi attributi della singola coscienza individuale dopo la morte. Per quanto ne sappiamo, cioè nulla, la coscienza potrebbe sopravvivere al corpo fisico.
Il resto è fede.
La mia fede personale è che lo spirito sia la nostra appartenenza all'Uno. Credo che l'attributo coscienza dello spirito sia l'espressione di un principio antientropico, e che una volta che lo spirito si sia differenziato in un'individualità, tale attributo di individualità persista per sempre. Non so come pormi rispetto al rapporto tra spirito, coscienza e personalità, ovvero non so quanto della personalità faccia parte di ciò che trascende la nostra espressione materiale.
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