La Fisica quantistica dimostra l'esistenza dell'aldila'.
La morte rappresenta un vero e proprio tabù sociale. Le religioni ipotizzano un Aldilà da vivere secondo meriti e demeriti. L’Aldilà e la moderna fisica quantistica
di Giancarlo Barbadoro
La morte rappresenta un elemento estraneo alla cultura consumistica, un evento che giunge inaspettatamente e scomodamente a disturbare un sistema di vita che non la contempla.
In questo modello di società l’individuo è agganciato alla parvenza di una continuità data dai ritmi produttivi e dai miti sociali in cui trova un surrogato di esistenza e di eternità personale. L’esaltazione dei valori della sfera psichica lo condiziona ad accettare la soggettività della gratificazione della riuscita personale, del potere sugli altri e della ricchezza, giungendo a considerarle come il vero senso della vita.
Chi muore è considerato sfortunato, poiché è sottratto al suo benessere quotidiano per essere annullato o proiettato in un ignoto crudele che lo espone all’orrore e al terrore dell’ignoto.
Meglio evitare l’argomento e tuffarsi nella finzione di eternità dell’ordinario quotidiano. Il tema della morte diviene così un tabù, oggetto di racconti del terrore e del bizzarro. Ovvero, le persone normali e sane di mente non parlano della morte ma si dedicano alle cose dei vivi per dare un senso "reale" alla propria vita.
Sebbene vengano studiati tutti i fenomeni relativi alla sfera umana, la scienza del mondo consumistico ignora il problema della morte. La curiosità dei ricercatori della società ordinaria si è spinta ai limiti dell’impossibile, ma nessun progetto di ricerca è stato mai dedicato seriamente allo studio del campo della morte.
Benché oggi si studino i fenomeni relativi all’evento della nascita, dai test sulla vita uterina alle dissertazioni sull’intelligenza del feto, si trascura clamorosamente di prendere in esame i fenomeni relativi al trapasso.
Probabilmente questo atteggiamento è dovuto al fatto che il problema viene delegato al campo delle religioni, considerate come i soli enti competenti a operare e a indagare nel settore.
Tuttavia la società consumistica si trova spesso di fronte ad una serie di fenomeni che si legano al problema della morte e che suggeriscono l’esistenza di una realtà inesplorata che si affianca al visibile quotidiano. Fenomeni che danno corpo a una inevitabile intuizione dell’ignoto e del mistero che ci accompagna nostro malgrado nella vita.
Esiste infatti una imponente casistica di fenomeni percettivi che si verificano in prossimità del trapasso costituita da sensazioni extracorporee, da visioni di luoghi e di persone defunte che sono in attesa di accogliere i morenti.
Non da meno è la casistica relativa alle apparizioni, nei luoghi e nelle occasioni più disparate, di defunti che sembrano voler comunicare con i viventi.
Le religioni e i Popoli naturali
Le varie religioni esistenti sul pianeta non si avvalgono di metodologie di ricerca sulla realtà e sono sorte basandosi sull’intuitività e sulla speculazione filosofica personale dei loro fondatori. Nel tempo le idee iniziali sono divenute dogmi e queste religioni si sono chiuse in sistemi diversi e conflittuali tra di loro, trascinando milioni di aderenti nelle loro sacche ideologiche.
Al di là dei loro modi di intendere le loro specifiche divinità, per tutte le religioni la morte appare come una porta di accesso al mistero dell’esistenza. In parte rappresentato come l’accesso all’identità personalizzata delle loro corrispettive divinità e in parte come l’ingresso in una dimensione di armonia e benessere.
In ogni caso la morte è mostrata come un evento che dà accesso ad una dimensione compensatrice del disagio vissuto nell’ordinarietà quotidiana e completamento del destino umano, in relazione ai meriti di osservanza dei precetti religiosi.
I Popoli naturali sono un caso a sé. Eredi dell’evoluzione e della storia del pianeta, presenti già in ere antichissime e vitalmente protesi verso il futuro, hanno sviluppato una cultura che non è nata in seno alle religioni storiche e non ha riferimento in esse, ma si è sviluppata in un rapporto con la Natura quale base della loro esperienza. Non solo per il riferimento alle stagioni o all’armonia con l’ambiente, ma anche per il Mistero che traspare attraverso la presenza stessa della Natura. Un mistero che non è relativo alla superstizione, ma alla percezione dell’evento mistico che dà supporto a tutta l’esistenza.
La cultura dei Popoli naturali concepisce la vita degli esseri viventi integrata con la globalità dei fenomeni dell’esistenza. La morte rappresenta un evento che fa parte di questi fenomeni e la sua manifestazione è un elemento dell’ordinarietà quotidiana che si pone su un piano di prospettiva esperienziale riferito al Mistero mistico che permea tutta l’esistenza.
L’ipotesi dell’Aldilà
La constatazione dell’evento della morte ha portato inevitabilmente a chiedersi che cosa possa accadere al defunto dopo il trapasso.
E’ facile osservare nell’atto della morte lo spegnersi delle qualità psicofisiche con cui gli individui si rapportano al mondo sensibile dei viventi. La persona che ci appariva in grado di interagire con noi, ad un certo momento, dopo il trapasso, diviene un oggetto inanimato simile a com’era prima solamente nella forma. Forma che poco alla volta tende a deteriorarsi e a scomparire, disperdendosi anonimamente nella natura.
E’ inevitabile chiedersi di fronte a questa constatazione se l’evento corrisponda anche allo spegnimento delle qualità coscienti e volitive dell’individuo. Ci si chiede come sia possibile che una personalità e una capacità interattiva come quella che abbiamo conosciuto fino a pochi attimi prima, possa spegnersi insieme al suo corpo. Anzi, se rapportiamo questa esperienza a noi stessi, ci possiamo chiedere con maggior forza come possa accadere che la nostra consapevolezza possa effettivamente svanire ed essere cancellata con tanta indifferenza dalla morte.
Vediamo il nostro corpo invecchiare e possiamo accettare l’idea che il nostro fisico ad un certo punto si debiliti al punto di morire. Ma la nostra percezione interiore di consapevolezza non sembra seguire questo cammino. Anzi, mano a mano che invecchiamo ci arricchiamo sempre più di esperienza e se guardiamo nel nostro specchio interiore non vediamo alcun segno della vecchiaia che colpisce e infiacchisce il corpo. Come possiamo immaginare che il nostro essere, consapevole di esistere e di sviluppare una sua capacità volitiva e creativa, possa a un certo punto accettare di spegnersi al pari del corpo fisico?
Sulla risposta a questa domanda i filosofi di ogni tempo si sono divisi. Alcuni, prospettando una meccanicità cieca dell’individuo e togliendo ogni possibile ipotesi di disegno formativo da parte dell’esistenza, hanno ipotizzato che l’individuo alla sua morte scompaia come una macchina a cui sono venute a mancare le risorse vitali.
Anche se questa risposta può sembrare ragionevole, non sono da meno altri filosofi che hanno ipotizzato per contro che l’individuo non muoia sul piano del suo stato di consapevolezza e che una forma di vita possa continuare anche dopo la morte.
Del resto esistono possibili dati che sembrerebbero confortare questa ultima considerazione. Ad esempio si può osservare come durante la meditazione accada che il meditante non si sente venir meno nella sua percezione personale, sebbene le funzioni vitali del cervello tendano a spegnersi tanto da far registrare all’EEG le onde theta manifeste in lesioni irreversibili dell’apparato cerebrale, ma al contrario egli rimane presente a se stesso e lucidamente cosciente nella sua identità.
L’idea che l’individuo possa sopravvivere alla morte ha portato a concepire l’esistenza di un "aldilà", una ulteriore dimensione di esistenza in grado di accogliere il defunto e di consentirgli di continuare ad esercitare la propria capacità consapevole e volitiva.
In ogni caso, in un modo o nell’altro, l’idea di un “aldilà” appartiene al luogo comune di tutta l’umanità. E’ difficile stabilire se questo sia dovuto all’influenza delle religioni che si sono radicate nella cultura del pianeta da millenni, e che sponsorizzano l’“aldilà” come premio o come castigo per i loro affiliati, oppure se risponda alla naturale percezione personale di uno stato effettivo di cose da parte degli individui.
Rimane il fatto che la maggior parte delle persone individua questa dimensione come una alternativa alla vita ordinaria a cui si accede dopo la morte e considera possibile una esperienza di incontro occasionale con i defunti che vi dimorerebbero.
Le esperienze moderne sui fenomeni che accompagnano la morte, effettuate da ricercatori come Raymond Moody e Michael Sabom, hanno consentito di razionalizzare l’esperienza del trapasso sul piano scientifico con specifici dati di osservazione che sembrano mostrare la prosecuzione della vita dopo la morte. Dati riguardanti fenomeni che possono essere imputabili anche allo specifico funzionamento del cervello, che nell’esperienza estrema del trapasso potrebbe agire in forma consolatoria per il morente o produrre allucinazioni sotto l’azione dei farmaci somministrati.
In ogni caso questi dati, fino a prova contraria, possono anche suggerire l’ipotesi razionale che la vita possa effettivamente proseguire oltre la morte e che addirittura possa esistere una dimensione in cui i defunti continuino ad esistere e a mantenere la loro capacità volitiva e creativa.
I modelli cosmologici dell’Aldilà
Nel tempo le varie religioni e correnti di pensiero hanno ideato modelli cosmologici in cui è stato inserito il problema della morte. Modelli che vanno al di là della cosmologia ordinaria con cui viene descritto l’universo in cui viviamo e che tracimano in una percezione mistica dell’esistenza che salda il visibile quotidiano ad una natura invisibile dell’universo stesso.
Nell’antico Egitto era previsto il concetto della sopravvivenza dell’anima dopo la morte e la conquista di una condizione di immortalità. L’Aldilà degli antichi egizi prevedeva una sorta di Paradiso, chiamato "Giardino dei giunchi", sede del mondo degli dei, riferibile ad una proprietà di godimento individuale per i defunti che vi giungevano. Il suo accesso era un privilegio esclusivo del Faraone, ma partecipavano a questo privilegio anche gli Iniziati che si erano preparati spiritualmente durante la vita terrena.
L’accesso al "Giardino dei giunchi" per il resto del popolo era lasciato alle capacità della conquista personale da realizzare dopo la morte. Il defunto doveva percorrere un lungo cammino attraverso l’Aldilà in un viaggio avventuroso che lo avrebbe portato verso la sua meta. Il suo percorso era delimitato da un preciso sentiero e, sotto la minaccia costante delle seduzioni e degli assalti di mostri e di altri pericoli sconosciuti che potevano spingerlo ad abbandonare la via, correva il pericolo dell’annientamento della sua anima e rischiava di perdersi per sempre.
Il rapporto con l’Aldilà era codificato dal "Libro dei Morti". Questo prevedeva che il defunto, prima di poter accedere al Giardino dei Giunchi, era soggetto al Giudizio di Osiride attraverso il rito della pesatura dell’anima. Se risultava idoneo poteva giungere ad acquisire il rango di divinità.
La cosmologia mistica degli antichi egizi distingueva l’individuo in tre competenze esperienziali: il corpo fisico, il Khat; il corpo psichico o identità psichica, a sua volta suddivisa in tre parti (il Ka, inteso come funzioni vitali, il Khaibit, identificato nelle emozioni e il Ba, identificato nelle funzioni del ragionamento) e infine lo spirito o Sahu. Nella morte cessava di esistere il corpo fisico, mentre sopravviveva per qualche tempo nell’Aldilà quello psichico. Solamente lo spirito era in grado di raggiungere il "Giardino dei giunchi".
Nella cultura tibetana è previsto un Aldilà in cui l’individuo deve riuscire a trovare il giusto cammino per raggiungere la grande luce oltre la quale può trovare il suo compimento esperienziale e ottenere la felicità eterna. Il rapporto con l’Aldilà viene codificato dal Libro dei Morti, il Bardo Todol. In esso si trovano le raccomandazioni da sussurrare nell’orecchio dei defunti dai sacerdoti al fine di realizzare il giusto trapasso e il conseguimento dell’idonea via nell’Aldilà.
Il Bardo Todol parla delle esperienze vissute dal morente nella fase del trapasso, dal rumore della cascata di tuono alle volte descritto come un acuto fischio, allo specchio in cui rivede la sua vita, alla possibilità di muoversi a suo piacere nell’ambiente fisico. Dà anche un prospetto della sua esperienza nella dimensione dopo la morte, dove può incontrare altri defunti come lui o entità mostruose da cui deve fuggire.
Platone proponeva l’idea che esistesse un’anima immortale prigioniera del corpo e limitata dall’illusione dei cinque sensi. Al momento della morte l’anima otterrebbe un risveglio e potrebbe conoscere le cose sul piano della realtà dei fenomeni. Secondo Platone, l’anima dopo la morte sarebbe sottoposta a una sorta di giudizio, e quelle che non lo superano sarebbero destinate a reincarnarsi mentre le altre raggiungerebbero una condizione di felicità eterna.
La cosmologia della morte nella religione di Israele si sviluppa su più piani di interpretazione dottrinale. In principio prevaleva la concezione di un’anima non immortale. L’Aldilà era lo She’ol, ovvero il nulla, dove i morti erano dimenticati per sempre nel loro annullamento cosmico. Era possibile realizzare il paradiso solamente in terra. Yahvé era visto unicamente come il dio dei viventi. Chi osservava i suoi comandamenti era premiato con la salute, la ricchezza e il potere. Nel I secolo a.C. venne aggiunto che dopo la permanenza nello She’ol, alla fine dei tempi, avverrebbe la resurrezione fisica dei morti.
Nel XI secolo d.C. viene effettuata una ulteriore aggiunta: viene inserita la dottrina della Qabbalah, che prevede la realizzazione dell’unione con dio dopo la morte e nella quale vengono indicati i mezzi necessari per poter ottenere tale realizzazione, attraverso una serie di pratiche esoteriche.
Nella Roma antica, società equiparabile a quella consumistica dei nostri tempi, la morte non trovava un preciso posto. In genere i romani avevano un sacro terrore nei confronti dei defunti e li temevano per paura di essere tormentati. Era concepito un luogo, l’Ade, dipinto a fosche tinte, tanto che spingeva in alternativa a godere della vita terrena.
Erano previsti i "mani familiari", spiriti che dimoravano le abitazioni e che erano considerati i protettori della casa abitata in vita. La loro possibile pericolosità veniva placata con offerte e vari riti. Per il resto, era in uso l’evocazione dei morti per le pratiche negromantiche relative a fatti d’amore e di salute, e anche per procurare la morte dei nemici.
Nella religione dell’Induismo tutto l’universo, visibile e invisibile, era considerato una emanazione di Brahma, dimensione a cui gli uomini giungevano dopo la morte. Si prevedevano due vie di accesso all’Aldilà: la Deva Yana, o via degli dei, riservata agli Iniziati che potevano giungere alle Dimore luminose, e la Pitri Yana, la via degli Antenati, per tutti gli altri, che giungevano alle Dimore oscure.
Nella religione cristiana predomina la Rivelazione come continuazione della dottrina ebraica. In essa è prevista un’anima immortale che giunge all’Aldilà dopo la morte. Essa è vincolata comunque all’osservanza di un codice morale in vita che la sottopone ad un premio o a un castigo eterno. Per tale motivo l’Aldilà è suddiviso in Inferno, Paradiso e Purgatorio.
Nella cultura celtica dominava il concetto dell’esistenza di un "mondo reale", lo Shan, interpretato dalle creature viventi come una proprietà invisibile dell’esistenza, definita come mistero, al cui interno sussisteva, ad esso dipendente, il "mondo primario" o "sensibile" in cui tutte le creature viventi si trovavano ad interagire. Gli individui da parte loro vivevano in una condizione di "mondo di sogno" che li portava a distinguersi gli uni dagli altri in una visione soggettiva e personalizzata della propria esistenza.
L’individuo e tutte le varie creature viventi non erano disgiunti dalla sostanzialità fenomenica della natura e dalle finalità del piano reale dell’esistenza. L’individuo non era altro che la manifestazione transitoria di un processo evolutivo che incominciava prima ancora della sua nascita e proseguiva oltre la morte, accedendo a piani superiori di esistenza, sino a giungere a partecipare alla causa prima del “tutto”, centro mistico dell’esistenza.
La cosmologia mistica del druidismo, legata al concetto di via evolutiva, concepiva la globalità dello Shan suddivisibile, secondo le sue funzioni evolutive, in quattro qualità esistenziali: l’Annwin (la base dell’evoluzione, sede della sostanza esistenziale inanimata), il Mondo di Abred (il nostro mondo sensibile suddiviso in Nara, la materia, e in Matchka, l’Aldilà dei morti), il Mondo di Gwenved o il mondo dei Viventi (a cui giungevano i defunti che superavano l’esperienza della Matchka) e infine il cerchio vuoto di Keugant, sede dalla manifestazione dell’Oiw, la Causa Prima e il centro mistico del “tutto”.
La cosmologia mistica degli antichi druidi distingueva tre competenze esperienziali dell’individuo: il corpo fisico, l’identità psichica della mente e infine lo spirito. Nella morte cessava di esistere il corpo fisico, mentre sopravviveva per qualche tempo nell’Aldilà l’impronta psichica. Solamente lo spirito, se riusciva a sottrarsi all’identificazione dell’impronta psichica, era in grado di raggiungere il Mondo di Gwenved.
L’iniziato, nella Matchka, affrontava ancora due morti dopo quella terrena e procedeva all’accesso del mondo spirituale della Luce bianca di Gwenved, da cui avrebbe potuto affacciarsi per contemplare il Mistero rappresentato dall’Oiw.
L’Aldilà prevedeva la dimensione di Avalon, abitato dai defunti che erano morti nella vita terrena del Mondo del Nara, e il Sidh, abitato da creature specifiche autoctone della dimensione della Matchka.
I druidi insegnavano la meditazione come un percorso interiore che consentiva agli esseri viventi di accedere all’interpretazione esperienziale della cosmologia mistica dello Shan. La meditazione permetteva, attraverso un percorso interiore, di accedere al Mondo spirituale di Gwenved e di portare nel mondo ordinario, il mondo di Abred, la conoscenza acquisita. Esperienza che poteva consentire ai meditanti di edificare il "regno dei cieli" in terra per poter trovare pace e armonia, vivendo nella prospettiva della natura reale dell’esistenza, secondo il proprio bisogno e seguendo i principi druidici di Fratellanza, Libertà e Conoscenza.
L’Aldilà e la scienza quantistica
La teoria dei "wormholes" o "cunicoli dei vermi" è nata nel 1935 quando i fisici Einstein e Rosen formularono il modello matematico per spiegare vari aspetti fenomenici dell’universo ancora irrisolti. Questa teoria prevedeva che nello spazio potessero esistere dei collegamenti, appunto i wormholes, in grado di unire regioni dello spazio-tempo lontane tra di loro nell’universo, se non addirittura costituire una porta di accesso su altri universi paralleli.
Quando viene fatta la descrizione di un wormhole, così come può apparire agli occhi di un osservatore, lo si rappresenta come un cerchio che dà su un cunicolo scuro da cui si intravvede, all’altra estremità, un altro cerchio luminoso che si apre sul paesaggio del mondo su cui si affaccia il wormhole.
La similitudine con quanto è riportato dai testimoni citati da Raymond Moody nella sua ricerca nel campo delle esperienze N.D.E. (Near Death Experiences) è assolutamente sorprendente.
Molti testimoni di esperienze post mortem affermano infatti di essersi trovati, dopo il decesso, in una sorta di tunnel circolare, vorticante e nero, e di aver scorto in fondo ad esso una apertura circolare luminosa.
Una testimonianza diretta e molto preziosa per questa circostanza è quella di un ragazzo che, dopo essere deceduto per una emorragia interna, al suo risveglio raccontò di essersi trovato in questo tunnel e di averlo percorso con estrema rapidità sino all’imboccatura circolare estrema. Qui, dopo averla oltrepassata, si sarebbe trovato su un altro mondo molto simile alla terra, con praterie verdissime e abitazioni in legno.
Il paragone con la descrizione dei wormholes e il loro possibile utilizzo è indubbiamente suggestivo. L’Aldilà potrebbe essere una regione dell’universo lontana dalla nostra nel tempo e nello spazio, e soprattutto diversa da quella a cui siamo abituati a vivere. Una zona dell’universo in cui la manifestazione della materia potrebbe risultare sostanzialmente diversa e che potrebbe trovarsi in una dimensione spazio-temporale a se stante. Un vero e proprio universo parallelo, ordinariamente irraggiungibile, a cui si accederebbe solamente attraverso la porta costituita da un wormhole.
Una dimensione che potremmo raggiungere solo dopo la morte, ovvero dopo che la dimensione cosciente non è più vincolata dal suo legame con il corpo, costituito dalla specifica materia che contraddistingue la qualità fisica della regione spazio-temporale in cui viviamo.
Del resto, la cosmologia dell’antico druidismo affermava che l’Aldilà non era altro che una diversa regione dell’esistente sorto dopo il Big Bang. Nara e Matchka sarebbero divisi solo dalla qualità con cui si manifesta la materia, ma farebbero entrambi parte dello stesso universo ospitato dal Vuoto da cui è sorta l’energia che ha dato vita a tutte le cose che conosciamo e che interpretiamo.
La morte come esperienza
I filosofi e i mistici di ogni tempo hanno da sempre sostenuto che il contatto con la dimensione della morte può portare l’individuo a una esaustiva percezione dell’esistenza. Una percezione a mezzo della quale è possibile coglierne la vera natura e penetrare la conoscenza che essa manifesta in se stessa sul piano reale.
E’ l’esperienza della "Visione" che la cultura dei Popoli naturali propone come mezzo esperienziale che consente l’accesso e la partecipazione al piano reale, altrimenti invisibile, del Mistero che permea e dà significato alla natura.
Questa esperienza è anche l’elemento portante utilizzato in alcuni ordini monastici operanti in seno al cristianesimo dove viene invocata la contingenza della morte nella vita dell’individuo per evocare il senso di fede che può attivare il rapporto con il mistero della divinità. E’ pratica abituale ad esempio, di notte nei monasteri, il bussare alla porta delle celle dei monaci con l’invito a ricordare che si deve morire. Non per ricordare l’orrore che la morte suscita nel mondo ordinario. In questa esperienza monastica come in quella della Visione dei Popoli naturali si tende a sollevare il velo delle apparenze sensoriali per far apparire l’Invisibile a cui tutti apparteniamo e tutto appartiene, oltre il quale non c’è altra logica esperienziale se non quella della sua conoscenza.
Chi proviene dalla cultura del mondo ordinario, nell’esperienza autoscopica della morte ha modo di affrontare tutto l’arco dell’ignoranza umana: dall’attaccamento alle proprie cose e alle proprie convinzioni, al confronto con un plagio che vuole ritagliare via l’uomo dalla sua partecipazione reale alla natura dell’esistenza.
Pensare e immedesimarsi nell’esperienza della morte significa affrontare infatti una prima fase fatta di indifferenza, di distacco, come se la cosa non dovesse riguardare chi sta introiettando il dato. Quando, insistendo, viene superata questa indifferenza, subentra un terrore irrazionale che sconvolge dalle viscere al più profondo dell’animo, dove la morte appare come un incontro con l’ignoto di chi è strappato via da una normalità e dai suoi interessi per essere gettato in una condizione che non c’entra più nulla con i valori conosciuti e adottati, e si è in preda alla solitudine e al buio dell’incognito. In questa fase, chi sta conducendo questo esercizio di riflessione finisce spesso per lasciar perdere e corre a tuffarsi nelle vicende del quotidiano per stordirsi con emozioni che lo facciano sentire “vivo”.
Ma il coraggioso che non retrocede dalle sue intenzioni e continua nella sua esperienza, se si lascia sommergere da questa irrefrenabile paura avrà la sorpresa di vedere che questa poco alla volta tenderà a sbiadire per lasciare posto a sua volta ad una percezione di serenità e di chiarezza interiore.
Non solo, si scoprirà di acquisire la percezione di una dimensione di esistenza fuori dall’ordinario quotidiano, esperienza che possiede una sua precisa qualità esperienziale, colma di una serenità che certamente poco prima non si poteva immaginare, in cui si mostrano con chiarezza le risposte a molte domande fondamentali della propria vita e attraverso cui si può dare risposta a molti problemi che assillano nel quotidiano.
Purtroppo nella società consumistica, o maggioritaria, il problema della morte non è mai stato affrontato come un punto di partenza per una qualsiasi seria analisi filosofica. La società maggioritaria si è caratterizzata come una cultura che sviluppa la sua identità al di fuori della realtà ignorando le prospettive filosofiche implicite nell’elemento della morte, implosa e chiusa dentro i propri miti e i propri riti sociali.
Nella cultura maggioritaria l’individuo non ha la possibilità di prendere atto dell’effettiva incombenza esperienziale della morte. Non si è portati a chiederci se ci sia un senso nel fatto di essere nati e nel fatto che si debba morire. Non si prende a riferimento l’evento della morte per costruire una metafisica pragmatica che vada al di là della superstizione delle religioni o dell’ottusità del materialismo. Non si prende a riferimento l’evento della morte come una provocazione esperienziale con cui dare una dimensione più autentica alla propria esistenza, relativizzando i miti della società consumistica che producono sofferenza.
La cultura maggioritaria non aiuta a intravedere nell’evento della morte un messaggio di armonia e di libertà che ci possa affrancare dalla schiavitù del desiderio e delle morali, fattori che producono un inevitabile disagio esistenziale.
Si potrebbe dire che nella sua architettura filosofica, la cultura della società maggioritaria non abbia mai dato importanza effettiva al fatto che gli individui devono morire.
Anzi, sembra considerare la morte come un evento spiacevole, un incidente che può capitare, ma che è bene evitare...
La morte rappresenta un vero e proprio tabù sociale. Le religioni ipotizzano un Aldilà da vivere secondo meriti e demeriti. L’Aldilà e la moderna fisica quantistica
di Giancarlo Barbadoro
La morte rappresenta un elemento estraneo alla cultura consumistica, un evento che giunge inaspettatamente e scomodamente a disturbare un sistema di vita che non la contempla.
In questo modello di società l’individuo è agganciato alla parvenza di una continuità data dai ritmi produttivi e dai miti sociali in cui trova un surrogato di esistenza e di eternità personale. L’esaltazione dei valori della sfera psichica lo condiziona ad accettare la soggettività della gratificazione della riuscita personale, del potere sugli altri e della ricchezza, giungendo a considerarle come il vero senso della vita.
Chi muore è considerato sfortunato, poiché è sottratto al suo benessere quotidiano per essere annullato o proiettato in un ignoto crudele che lo espone all’orrore e al terrore dell’ignoto.
Meglio evitare l’argomento e tuffarsi nella finzione di eternità dell’ordinario quotidiano. Il tema della morte diviene così un tabù, oggetto di racconti del terrore e del bizzarro. Ovvero, le persone normali e sane di mente non parlano della morte ma si dedicano alle cose dei vivi per dare un senso "reale" alla propria vita.
Sebbene vengano studiati tutti i fenomeni relativi alla sfera umana, la scienza del mondo consumistico ignora il problema della morte. La curiosità dei ricercatori della società ordinaria si è spinta ai limiti dell’impossibile, ma nessun progetto di ricerca è stato mai dedicato seriamente allo studio del campo della morte.
Benché oggi si studino i fenomeni relativi all’evento della nascita, dai test sulla vita uterina alle dissertazioni sull’intelligenza del feto, si trascura clamorosamente di prendere in esame i fenomeni relativi al trapasso.
Probabilmente questo atteggiamento è dovuto al fatto che il problema viene delegato al campo delle religioni, considerate come i soli enti competenti a operare e a indagare nel settore.
Tuttavia la società consumistica si trova spesso di fronte ad una serie di fenomeni che si legano al problema della morte e che suggeriscono l’esistenza di una realtà inesplorata che si affianca al visibile quotidiano. Fenomeni che danno corpo a una inevitabile intuizione dell’ignoto e del mistero che ci accompagna nostro malgrado nella vita.
Esiste infatti una imponente casistica di fenomeni percettivi che si verificano in prossimità del trapasso costituita da sensazioni extracorporee, da visioni di luoghi e di persone defunte che sono in attesa di accogliere i morenti.
Non da meno è la casistica relativa alle apparizioni, nei luoghi e nelle occasioni più disparate, di defunti che sembrano voler comunicare con i viventi.
Le religioni e i Popoli naturali
Le varie religioni esistenti sul pianeta non si avvalgono di metodologie di ricerca sulla realtà e sono sorte basandosi sull’intuitività e sulla speculazione filosofica personale dei loro fondatori. Nel tempo le idee iniziali sono divenute dogmi e queste religioni si sono chiuse in sistemi diversi e conflittuali tra di loro, trascinando milioni di aderenti nelle loro sacche ideologiche.
Al di là dei loro modi di intendere le loro specifiche divinità, per tutte le religioni la morte appare come una porta di accesso al mistero dell’esistenza. In parte rappresentato come l’accesso all’identità personalizzata delle loro corrispettive divinità e in parte come l’ingresso in una dimensione di armonia e benessere.
In ogni caso la morte è mostrata come un evento che dà accesso ad una dimensione compensatrice del disagio vissuto nell’ordinarietà quotidiana e completamento del destino umano, in relazione ai meriti di osservanza dei precetti religiosi.
I Popoli naturali sono un caso a sé. Eredi dell’evoluzione e della storia del pianeta, presenti già in ere antichissime e vitalmente protesi verso il futuro, hanno sviluppato una cultura che non è nata in seno alle religioni storiche e non ha riferimento in esse, ma si è sviluppata in un rapporto con la Natura quale base della loro esperienza. Non solo per il riferimento alle stagioni o all’armonia con l’ambiente, ma anche per il Mistero che traspare attraverso la presenza stessa della Natura. Un mistero che non è relativo alla superstizione, ma alla percezione dell’evento mistico che dà supporto a tutta l’esistenza.
La cultura dei Popoli naturali concepisce la vita degli esseri viventi integrata con la globalità dei fenomeni dell’esistenza. La morte rappresenta un evento che fa parte di questi fenomeni e la sua manifestazione è un elemento dell’ordinarietà quotidiana che si pone su un piano di prospettiva esperienziale riferito al Mistero mistico che permea tutta l’esistenza.
L’ipotesi dell’Aldilà
La constatazione dell’evento della morte ha portato inevitabilmente a chiedersi che cosa possa accadere al defunto dopo il trapasso.
E’ facile osservare nell’atto della morte lo spegnersi delle qualità psicofisiche con cui gli individui si rapportano al mondo sensibile dei viventi. La persona che ci appariva in grado di interagire con noi, ad un certo momento, dopo il trapasso, diviene un oggetto inanimato simile a com’era prima solamente nella forma. Forma che poco alla volta tende a deteriorarsi e a scomparire, disperdendosi anonimamente nella natura.
E’ inevitabile chiedersi di fronte a questa constatazione se l’evento corrisponda anche allo spegnimento delle qualità coscienti e volitive dell’individuo. Ci si chiede come sia possibile che una personalità e una capacità interattiva come quella che abbiamo conosciuto fino a pochi attimi prima, possa spegnersi insieme al suo corpo. Anzi, se rapportiamo questa esperienza a noi stessi, ci possiamo chiedere con maggior forza come possa accadere che la nostra consapevolezza possa effettivamente svanire ed essere cancellata con tanta indifferenza dalla morte.
Vediamo il nostro corpo invecchiare e possiamo accettare l’idea che il nostro fisico ad un certo punto si debiliti al punto di morire. Ma la nostra percezione interiore di consapevolezza non sembra seguire questo cammino. Anzi, mano a mano che invecchiamo ci arricchiamo sempre più di esperienza e se guardiamo nel nostro specchio interiore non vediamo alcun segno della vecchiaia che colpisce e infiacchisce il corpo. Come possiamo immaginare che il nostro essere, consapevole di esistere e di sviluppare una sua capacità volitiva e creativa, possa a un certo punto accettare di spegnersi al pari del corpo fisico?
Sulla risposta a questa domanda i filosofi di ogni tempo si sono divisi. Alcuni, prospettando una meccanicità cieca dell’individuo e togliendo ogni possibile ipotesi di disegno formativo da parte dell’esistenza, hanno ipotizzato che l’individuo alla sua morte scompaia come una macchina a cui sono venute a mancare le risorse vitali.
Anche se questa risposta può sembrare ragionevole, non sono da meno altri filosofi che hanno ipotizzato per contro che l’individuo non muoia sul piano del suo stato di consapevolezza e che una forma di vita possa continuare anche dopo la morte.
Del resto esistono possibili dati che sembrerebbero confortare questa ultima considerazione. Ad esempio si può osservare come durante la meditazione accada che il meditante non si sente venir meno nella sua percezione personale, sebbene le funzioni vitali del cervello tendano a spegnersi tanto da far registrare all’EEG le onde theta manifeste in lesioni irreversibili dell’apparato cerebrale, ma al contrario egli rimane presente a se stesso e lucidamente cosciente nella sua identità.
L’idea che l’individuo possa sopravvivere alla morte ha portato a concepire l’esistenza di un "aldilà", una ulteriore dimensione di esistenza in grado di accogliere il defunto e di consentirgli di continuare ad esercitare la propria capacità consapevole e volitiva.
In ogni caso, in un modo o nell’altro, l’idea di un “aldilà” appartiene al luogo comune di tutta l’umanità. E’ difficile stabilire se questo sia dovuto all’influenza delle religioni che si sono radicate nella cultura del pianeta da millenni, e che sponsorizzano l’“aldilà” come premio o come castigo per i loro affiliati, oppure se risponda alla naturale percezione personale di uno stato effettivo di cose da parte degli individui.
Rimane il fatto che la maggior parte delle persone individua questa dimensione come una alternativa alla vita ordinaria a cui si accede dopo la morte e considera possibile una esperienza di incontro occasionale con i defunti che vi dimorerebbero.
Le esperienze moderne sui fenomeni che accompagnano la morte, effettuate da ricercatori come Raymond Moody e Michael Sabom, hanno consentito di razionalizzare l’esperienza del trapasso sul piano scientifico con specifici dati di osservazione che sembrano mostrare la prosecuzione della vita dopo la morte. Dati riguardanti fenomeni che possono essere imputabili anche allo specifico funzionamento del cervello, che nell’esperienza estrema del trapasso potrebbe agire in forma consolatoria per il morente o produrre allucinazioni sotto l’azione dei farmaci somministrati.
In ogni caso questi dati, fino a prova contraria, possono anche suggerire l’ipotesi razionale che la vita possa effettivamente proseguire oltre la morte e che addirittura possa esistere una dimensione in cui i defunti continuino ad esistere e a mantenere la loro capacità volitiva e creativa.
I modelli cosmologici dell’Aldilà
Nel tempo le varie religioni e correnti di pensiero hanno ideato modelli cosmologici in cui è stato inserito il problema della morte. Modelli che vanno al di là della cosmologia ordinaria con cui viene descritto l’universo in cui viviamo e che tracimano in una percezione mistica dell’esistenza che salda il visibile quotidiano ad una natura invisibile dell’universo stesso.
Nell’antico Egitto era previsto il concetto della sopravvivenza dell’anima dopo la morte e la conquista di una condizione di immortalità. L’Aldilà degli antichi egizi prevedeva una sorta di Paradiso, chiamato "Giardino dei giunchi", sede del mondo degli dei, riferibile ad una proprietà di godimento individuale per i defunti che vi giungevano. Il suo accesso era un privilegio esclusivo del Faraone, ma partecipavano a questo privilegio anche gli Iniziati che si erano preparati spiritualmente durante la vita terrena.
L’accesso al "Giardino dei giunchi" per il resto del popolo era lasciato alle capacità della conquista personale da realizzare dopo la morte. Il defunto doveva percorrere un lungo cammino attraverso l’Aldilà in un viaggio avventuroso che lo avrebbe portato verso la sua meta. Il suo percorso era delimitato da un preciso sentiero e, sotto la minaccia costante delle seduzioni e degli assalti di mostri e di altri pericoli sconosciuti che potevano spingerlo ad abbandonare la via, correva il pericolo dell’annientamento della sua anima e rischiava di perdersi per sempre.
Il rapporto con l’Aldilà era codificato dal "Libro dei Morti". Questo prevedeva che il defunto, prima di poter accedere al Giardino dei Giunchi, era soggetto al Giudizio di Osiride attraverso il rito della pesatura dell’anima. Se risultava idoneo poteva giungere ad acquisire il rango di divinità.
La cosmologia mistica degli antichi egizi distingueva l’individuo in tre competenze esperienziali: il corpo fisico, il Khat; il corpo psichico o identità psichica, a sua volta suddivisa in tre parti (il Ka, inteso come funzioni vitali, il Khaibit, identificato nelle emozioni e il Ba, identificato nelle funzioni del ragionamento) e infine lo spirito o Sahu. Nella morte cessava di esistere il corpo fisico, mentre sopravviveva per qualche tempo nell’Aldilà quello psichico. Solamente lo spirito era in grado di raggiungere il "Giardino dei giunchi".
Nella cultura tibetana è previsto un Aldilà in cui l’individuo deve riuscire a trovare il giusto cammino per raggiungere la grande luce oltre la quale può trovare il suo compimento esperienziale e ottenere la felicità eterna. Il rapporto con l’Aldilà viene codificato dal Libro dei Morti, il Bardo Todol. In esso si trovano le raccomandazioni da sussurrare nell’orecchio dei defunti dai sacerdoti al fine di realizzare il giusto trapasso e il conseguimento dell’idonea via nell’Aldilà.
Il Bardo Todol parla delle esperienze vissute dal morente nella fase del trapasso, dal rumore della cascata di tuono alle volte descritto come un acuto fischio, allo specchio in cui rivede la sua vita, alla possibilità di muoversi a suo piacere nell’ambiente fisico. Dà anche un prospetto della sua esperienza nella dimensione dopo la morte, dove può incontrare altri defunti come lui o entità mostruose da cui deve fuggire.
Platone proponeva l’idea che esistesse un’anima immortale prigioniera del corpo e limitata dall’illusione dei cinque sensi. Al momento della morte l’anima otterrebbe un risveglio e potrebbe conoscere le cose sul piano della realtà dei fenomeni. Secondo Platone, l’anima dopo la morte sarebbe sottoposta a una sorta di giudizio, e quelle che non lo superano sarebbero destinate a reincarnarsi mentre le altre raggiungerebbero una condizione di felicità eterna.
La cosmologia della morte nella religione di Israele si sviluppa su più piani di interpretazione dottrinale. In principio prevaleva la concezione di un’anima non immortale. L’Aldilà era lo She’ol, ovvero il nulla, dove i morti erano dimenticati per sempre nel loro annullamento cosmico. Era possibile realizzare il paradiso solamente in terra. Yahvé era visto unicamente come il dio dei viventi. Chi osservava i suoi comandamenti era premiato con la salute, la ricchezza e il potere. Nel I secolo a.C. venne aggiunto che dopo la permanenza nello She’ol, alla fine dei tempi, avverrebbe la resurrezione fisica dei morti.
Nel XI secolo d.C. viene effettuata una ulteriore aggiunta: viene inserita la dottrina della Qabbalah, che prevede la realizzazione dell’unione con dio dopo la morte e nella quale vengono indicati i mezzi necessari per poter ottenere tale realizzazione, attraverso una serie di pratiche esoteriche.
Nella Roma antica, società equiparabile a quella consumistica dei nostri tempi, la morte non trovava un preciso posto. In genere i romani avevano un sacro terrore nei confronti dei defunti e li temevano per paura di essere tormentati. Era concepito un luogo, l’Ade, dipinto a fosche tinte, tanto che spingeva in alternativa a godere della vita terrena.
Erano previsti i "mani familiari", spiriti che dimoravano le abitazioni e che erano considerati i protettori della casa abitata in vita. La loro possibile pericolosità veniva placata con offerte e vari riti. Per il resto, era in uso l’evocazione dei morti per le pratiche negromantiche relative a fatti d’amore e di salute, e anche per procurare la morte dei nemici.
Nella religione dell’Induismo tutto l’universo, visibile e invisibile, era considerato una emanazione di Brahma, dimensione a cui gli uomini giungevano dopo la morte. Si prevedevano due vie di accesso all’Aldilà: la Deva Yana, o via degli dei, riservata agli Iniziati che potevano giungere alle Dimore luminose, e la Pitri Yana, la via degli Antenati, per tutti gli altri, che giungevano alle Dimore oscure.
Nella religione cristiana predomina la Rivelazione come continuazione della dottrina ebraica. In essa è prevista un’anima immortale che giunge all’Aldilà dopo la morte. Essa è vincolata comunque all’osservanza di un codice morale in vita che la sottopone ad un premio o a un castigo eterno. Per tale motivo l’Aldilà è suddiviso in Inferno, Paradiso e Purgatorio.
Nella cultura celtica dominava il concetto dell’esistenza di un "mondo reale", lo Shan, interpretato dalle creature viventi come una proprietà invisibile dell’esistenza, definita come mistero, al cui interno sussisteva, ad esso dipendente, il "mondo primario" o "sensibile" in cui tutte le creature viventi si trovavano ad interagire. Gli individui da parte loro vivevano in una condizione di "mondo di sogno" che li portava a distinguersi gli uni dagli altri in una visione soggettiva e personalizzata della propria esistenza.
L’individuo e tutte le varie creature viventi non erano disgiunti dalla sostanzialità fenomenica della natura e dalle finalità del piano reale dell’esistenza. L’individuo non era altro che la manifestazione transitoria di un processo evolutivo che incominciava prima ancora della sua nascita e proseguiva oltre la morte, accedendo a piani superiori di esistenza, sino a giungere a partecipare alla causa prima del “tutto”, centro mistico dell’esistenza.
La cosmologia mistica del druidismo, legata al concetto di via evolutiva, concepiva la globalità dello Shan suddivisibile, secondo le sue funzioni evolutive, in quattro qualità esistenziali: l’Annwin (la base dell’evoluzione, sede della sostanza esistenziale inanimata), il Mondo di Abred (il nostro mondo sensibile suddiviso in Nara, la materia, e in Matchka, l’Aldilà dei morti), il Mondo di Gwenved o il mondo dei Viventi (a cui giungevano i defunti che superavano l’esperienza della Matchka) e infine il cerchio vuoto di Keugant, sede dalla manifestazione dell’Oiw, la Causa Prima e il centro mistico del “tutto”.
La cosmologia mistica degli antichi druidi distingueva tre competenze esperienziali dell’individuo: il corpo fisico, l’identità psichica della mente e infine lo spirito. Nella morte cessava di esistere il corpo fisico, mentre sopravviveva per qualche tempo nell’Aldilà l’impronta psichica. Solamente lo spirito, se riusciva a sottrarsi all’identificazione dell’impronta psichica, era in grado di raggiungere il Mondo di Gwenved.
L’iniziato, nella Matchka, affrontava ancora due morti dopo quella terrena e procedeva all’accesso del mondo spirituale della Luce bianca di Gwenved, da cui avrebbe potuto affacciarsi per contemplare il Mistero rappresentato dall’Oiw.
L’Aldilà prevedeva la dimensione di Avalon, abitato dai defunti che erano morti nella vita terrena del Mondo del Nara, e il Sidh, abitato da creature specifiche autoctone della dimensione della Matchka.
I druidi insegnavano la meditazione come un percorso interiore che consentiva agli esseri viventi di accedere all’interpretazione esperienziale della cosmologia mistica dello Shan. La meditazione permetteva, attraverso un percorso interiore, di accedere al Mondo spirituale di Gwenved e di portare nel mondo ordinario, il mondo di Abred, la conoscenza acquisita. Esperienza che poteva consentire ai meditanti di edificare il "regno dei cieli" in terra per poter trovare pace e armonia, vivendo nella prospettiva della natura reale dell’esistenza, secondo il proprio bisogno e seguendo i principi druidici di Fratellanza, Libertà e Conoscenza.
L’Aldilà e la scienza quantistica
La teoria dei "wormholes" o "cunicoli dei vermi" è nata nel 1935 quando i fisici Einstein e Rosen formularono il modello matematico per spiegare vari aspetti fenomenici dell’universo ancora irrisolti. Questa teoria prevedeva che nello spazio potessero esistere dei collegamenti, appunto i wormholes, in grado di unire regioni dello spazio-tempo lontane tra di loro nell’universo, se non addirittura costituire una porta di accesso su altri universi paralleli.
Quando viene fatta la descrizione di un wormhole, così come può apparire agli occhi di un osservatore, lo si rappresenta come un cerchio che dà su un cunicolo scuro da cui si intravvede, all’altra estremità, un altro cerchio luminoso che si apre sul paesaggio del mondo su cui si affaccia il wormhole.
La similitudine con quanto è riportato dai testimoni citati da Raymond Moody nella sua ricerca nel campo delle esperienze N.D.E. (Near Death Experiences) è assolutamente sorprendente.
Molti testimoni di esperienze post mortem affermano infatti di essersi trovati, dopo il decesso, in una sorta di tunnel circolare, vorticante e nero, e di aver scorto in fondo ad esso una apertura circolare luminosa.
Una testimonianza diretta e molto preziosa per questa circostanza è quella di un ragazzo che, dopo essere deceduto per una emorragia interna, al suo risveglio raccontò di essersi trovato in questo tunnel e di averlo percorso con estrema rapidità sino all’imboccatura circolare estrema. Qui, dopo averla oltrepassata, si sarebbe trovato su un altro mondo molto simile alla terra, con praterie verdissime e abitazioni in legno.
Il paragone con la descrizione dei wormholes e il loro possibile utilizzo è indubbiamente suggestivo. L’Aldilà potrebbe essere una regione dell’universo lontana dalla nostra nel tempo e nello spazio, e soprattutto diversa da quella a cui siamo abituati a vivere. Una zona dell’universo in cui la manifestazione della materia potrebbe risultare sostanzialmente diversa e che potrebbe trovarsi in una dimensione spazio-temporale a se stante. Un vero e proprio universo parallelo, ordinariamente irraggiungibile, a cui si accederebbe solamente attraverso la porta costituita da un wormhole.
Una dimensione che potremmo raggiungere solo dopo la morte, ovvero dopo che la dimensione cosciente non è più vincolata dal suo legame con il corpo, costituito dalla specifica materia che contraddistingue la qualità fisica della regione spazio-temporale in cui viviamo.
Del resto, la cosmologia dell’antico druidismo affermava che l’Aldilà non era altro che una diversa regione dell’esistente sorto dopo il Big Bang. Nara e Matchka sarebbero divisi solo dalla qualità con cui si manifesta la materia, ma farebbero entrambi parte dello stesso universo ospitato dal Vuoto da cui è sorta l’energia che ha dato vita a tutte le cose che conosciamo e che interpretiamo.
La morte come esperienza
I filosofi e i mistici di ogni tempo hanno da sempre sostenuto che il contatto con la dimensione della morte può portare l’individuo a una esaustiva percezione dell’esistenza. Una percezione a mezzo della quale è possibile coglierne la vera natura e penetrare la conoscenza che essa manifesta in se stessa sul piano reale.
E’ l’esperienza della "Visione" che la cultura dei Popoli naturali propone come mezzo esperienziale che consente l’accesso e la partecipazione al piano reale, altrimenti invisibile, del Mistero che permea e dà significato alla natura.
Questa esperienza è anche l’elemento portante utilizzato in alcuni ordini monastici operanti in seno al cristianesimo dove viene invocata la contingenza della morte nella vita dell’individuo per evocare il senso di fede che può attivare il rapporto con il mistero della divinità. E’ pratica abituale ad esempio, di notte nei monasteri, il bussare alla porta delle celle dei monaci con l’invito a ricordare che si deve morire. Non per ricordare l’orrore che la morte suscita nel mondo ordinario. In questa esperienza monastica come in quella della Visione dei Popoli naturali si tende a sollevare il velo delle apparenze sensoriali per far apparire l’Invisibile a cui tutti apparteniamo e tutto appartiene, oltre il quale non c’è altra logica esperienziale se non quella della sua conoscenza.
Chi proviene dalla cultura del mondo ordinario, nell’esperienza autoscopica della morte ha modo di affrontare tutto l’arco dell’ignoranza umana: dall’attaccamento alle proprie cose e alle proprie convinzioni, al confronto con un plagio che vuole ritagliare via l’uomo dalla sua partecipazione reale alla natura dell’esistenza.
Pensare e immedesimarsi nell’esperienza della morte significa affrontare infatti una prima fase fatta di indifferenza, di distacco, come se la cosa non dovesse riguardare chi sta introiettando il dato. Quando, insistendo, viene superata questa indifferenza, subentra un terrore irrazionale che sconvolge dalle viscere al più profondo dell’animo, dove la morte appare come un incontro con l’ignoto di chi è strappato via da una normalità e dai suoi interessi per essere gettato in una condizione che non c’entra più nulla con i valori conosciuti e adottati, e si è in preda alla solitudine e al buio dell’incognito. In questa fase, chi sta conducendo questo esercizio di riflessione finisce spesso per lasciar perdere e corre a tuffarsi nelle vicende del quotidiano per stordirsi con emozioni che lo facciano sentire “vivo”.
Ma il coraggioso che non retrocede dalle sue intenzioni e continua nella sua esperienza, se si lascia sommergere da questa irrefrenabile paura avrà la sorpresa di vedere che questa poco alla volta tenderà a sbiadire per lasciare posto a sua volta ad una percezione di serenità e di chiarezza interiore.
Non solo, si scoprirà di acquisire la percezione di una dimensione di esistenza fuori dall’ordinario quotidiano, esperienza che possiede una sua precisa qualità esperienziale, colma di una serenità che certamente poco prima non si poteva immaginare, in cui si mostrano con chiarezza le risposte a molte domande fondamentali della propria vita e attraverso cui si può dare risposta a molti problemi che assillano nel quotidiano.
Purtroppo nella società consumistica, o maggioritaria, il problema della morte non è mai stato affrontato come un punto di partenza per una qualsiasi seria analisi filosofica. La società maggioritaria si è caratterizzata come una cultura che sviluppa la sua identità al di fuori della realtà ignorando le prospettive filosofiche implicite nell’elemento della morte, implosa e chiusa dentro i propri miti e i propri riti sociali.
Nella cultura maggioritaria l’individuo non ha la possibilità di prendere atto dell’effettiva incombenza esperienziale della morte. Non si è portati a chiederci se ci sia un senso nel fatto di essere nati e nel fatto che si debba morire. Non si prende a riferimento l’evento della morte per costruire una metafisica pragmatica che vada al di là della superstizione delle religioni o dell’ottusità del materialismo. Non si prende a riferimento l’evento della morte come una provocazione esperienziale con cui dare una dimensione più autentica alla propria esistenza, relativizzando i miti della società consumistica che producono sofferenza.
La cultura maggioritaria non aiuta a intravedere nell’evento della morte un messaggio di armonia e di libertà che ci possa affrancare dalla schiavitù del desiderio e delle morali, fattori che producono un inevitabile disagio esistenziale.
Si potrebbe dire che nella sua architettura filosofica, la cultura della società maggioritaria non abbia mai dato importanza effettiva al fatto che gli individui devono morire.
Anzi, sembra considerare la morte come un evento spiacevole, un incidente che può capitare, ma che è bene evitare...
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