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Comunismo: i crimini contro l'umanità

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    Comunismo: i crimini contro l'umanità

    Si parla spesso di Olocausto, nazismo, sterminio di una razza ecc..

    Eppure quasi mai dei gulag sovietici, delle atrocità commesse contro gli oppositori del regime e del numero (ancora incerto) di vittime.

    Qualche tempo fa seguivo un documentario su History Channel che riportava fatti raccapriccianti oltre che eventi poco noti:

    a) il tentativo di sterminio degli Ucraini (in un solo anno se ne fecero fuori 7 milioni)

    b) la collaborazione tra nazisti e comunisti (i primi si recarono in russia per apprendere come avrebbe dovuto essere un campo di concentramento , i secondo "spedirono" con l'inganno ebrei e zingari ai tedeschi)

    c) il sanguinoso regime cui fu sottoposta la polonia (migliaia di ufficiali furono giustiziati alla fine degli anni 40, per poi far ricadere la colpa sui nazisti con tanto di manomissione di filmati)


    mi chiedevo di quali e quanti altri crimini foruno commessi dai soviet,
    con particolare interesse alle stime (seppur approssimative).


    Agli storici del forum: scatenatevi
    Last edited by THE ALEX; 19-01-2010, 12:01:52.
    Originariamente Scritto da Leonida
    gary io più ti leggo e più maledico l' alfabetizzazione, la democrazia e la rivoluzione francese, tu dovevi coltivare il tuo manso in padania dietro un affitto che dovevi al tuo signore.
    Originariamente Scritto da Bad Girl
    ho sempre pensato che tu hai proprio bisogno di prenderlo di più,scusami se te lo dico ma ricordi me ai tempi della tristezza..per me puoi cambiare, se ce l'ho fatta io.. puoi farcela anche tu
    Originariamente Scritto da gorgone
    ma manca la verità più vera, le donne non vanno ascoltate, ma virilmente guidate.

    #2
    perchè in trash???
    « Success is my only mothafuckin' option,failure's not.... »

    PRESENTI




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      #3
      dimentichi il Tibet e lo schifo compiuto ancora oggi li dai compagni cinesi.
      « Success is my only mothafuckin' option,failure's not.... »

      PRESENTI




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        #4
        Originariamente Scritto da THE ALEX Visualizza Messaggio
        dimentichi il Tibet e lo schifo compiuto ancora oggi li dai compagni cinesi.
        dai parliamone dettagliatamente, credo ci sia molto da dire, non ultima la questione sul perchè esul come tali atrocità siano state occultate.

        Ancora oggi molti stirici dibattono sulle stime del resto sia sovietici ce cinesi sono molto attenti alla censura, a mistificare fatti e a non lasciar trapelare niente.
        Originariamente Scritto da Leonida
        gary io più ti leggo e più maledico l' alfabetizzazione, la democrazia e la rivoluzione francese, tu dovevi coltivare il tuo manso in padania dietro un affitto che dovevi al tuo signore.
        Originariamente Scritto da Bad Girl
        ho sempre pensato che tu hai proprio bisogno di prenderlo di più,scusami se te lo dico ma ricordi me ai tempi della tristezza..per me puoi cambiare, se ce l'ho fatta io.. puoi farcela anche tu
        Originariamente Scritto da gorgone
        ma manca la verità più vera, le donne non vanno ascoltate, ma virilmente guidate.

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          #5
          cambogia , pol pot
          sigpic
          Originariamente Scritto da zajka
          sicuramente fa finta perché si saltano molti momenti e non si vede nemmeno che ingoia

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            #6
            il silenzio in Italia sui crimini comunisti


            Ha riscosso una grande partecipazione di pubblico il convegno che si è tenuto a Napoli sui crimini negati del comunismo in Italia organizzato dalla Fondazione Campi Flegrei. Grazie anche a relatori di livello assoluto, presenti giornalisti del calibro di Dario Fertilio e Giancarlo Lehner, oltre agli apprezzati De Simone e Nardiello del quotidiano Il Roma, sono stati presentati volumi di grande valore volti a rimuovere quel silenzio non casuale che è calato su pagine ancora oggi inesplorate della nostra storia. In sostanza non si tratta di riscrivere la storia attraverso un'azione revisionista, ma si tratta di scoprire eventi che fino ad oggi sono stati volutamente occultati, manipolati e falsificati. Ma chi è che ha intrapreso questa scientifica e metodologica azione di rimozione del passato? E' stata la domanda alla quale si è cercato di dare una risposta. Innanzitutto con Dario Fertilio, giornalista del Corriere della Sera ed autore de La morte rossa (edito dalla Marsilio), per il quale si sono dette pseudo-verità per occultare la realtà e l'essenza dei fatti. Se alla parola lager corrisponde la definizione di campo militare per addestramento militare, se alla parola foiba corrisponde il significato di cavità carsica più o meno profonda prodotta dalle acque correnti, a quella di gulag si è attribuita la corrispondente traduzione di "campo di rieducazione".
            Due sono gli obiettivi perseguiti in questo modo. Dimenticare, relegare "tra parentesi" esperienze che magari un domani possono consentire di riprendere un discorso lasciato in sospeso; negare, perché di fronte alla negazione dei crimini del comunismo, è più semplice elevare simboli e bandiere di Lenin o di Che Guevara, ovvero simboli di morte e umiliazione dei diritti fondamentali dell'uomo e della sua dignità.
            Il comunismo ha agito in maniera molto simile in tutti i Paesi nei quali ha raggiunto il potere, dall'Unione Sovietica alla Jugoslavia, dai paesi dell'Europa dell'Est all'Albania, da quelli dell'Asia sovietica a quelli dell'America latina, ed ha riprodotto quasi sempre gli stessi scempi che nell'arco di pochi anni si sono compiuti per mano dei regimi nazionalsocialisti. Ma la differenza che ha contraddistinto il comunismo dal nazionalsocialismo è nella menzogna di fondo di cui il comunismo si è dipinto, che pur mantenendo la sua identica forza distruttiva, si travestiva da redentore. Per questo i genocidi comunisti devono essere ricordati e non dimenticati o nascosti come si è fatto fino ad oggi. Alle date del 27 gennaio ed ora del 10 febbraio, che lasciano sovente spazio alla retorica che accompagna la memoria, è doveroso elevare al medesimo rango quella del 7 novembre, anniversario della rivoluzione bolscevica e che è stata proposta come Giornata della memoria delle vittime comuniste (Memento Gulag) grazie all'impegno caparbio dei Comitati per le Libertà (Libertates.org - Liberalismo Resources and Information.This website is for sale!), di cui lo stesso Fertilio è presidente e fondatore.
            A chi ritiene l'anticomunismo come un disco rotto, ha replicato Armando De Simone, autore con Vincenzo Nardiello dell'apprezzato volume di ricerca Appunti per un libro nero del comunismo italiano (ed. Controcorrente), che ha ricordato quale sia lo scandalo che si è perpetrato fino ad oggi. Il vero tradimento degli intellettuali è testimoniato proprio da un convegno come quello di Napoli, dove a parlare di un simile argomento sono stati quattro "giornalisti" e non storici o studiosi. Nessun professore ci ha raccontato di 200 milioni di persone morte, nessuno ha documentato questa che è una storia negata. Ed è lecito indagare sulle ragioni per le quali chi sapeva ha preferito tacere.
            Fino ad oggi non è ancora stato compiuto alcun processo al Partito comunista italiano e questo tema non lo si pone nemmeno oggi, un periodo nel quale retoricamente si fa richiamo spesso al dovere della memoria. Ma a quale memoria ci si fa appello e perché questa deve essere pilotata, circoscritta? Per questo non abbiamo bisogno di mentitori professionisti, ma di comunisti veri, quelli come Massimo D'Alema che in Unione Sovietica c'è stato 47 volte; abbiamo bisogno dei Fassino, che è stato segretario della più grande federazione comunista italiana, quella di Torino, e che oggi si definisce riformista semplicemente perché al congresso dei Ds ha ricordato la figura di Bettino Craxi come una delle più grandi del socialismo europeo. E vogliamo sapere dove sono finiti i piani di insurrezione contenuti in 5 valigie in pelle verde, laddove addirittura Soave ha ammesso che questi piani furono organizzati fino alla fine degli anni '80. Stiamo parlando di attentati alla costituzione, reati imprescrittibili, sui quali nessun magistrato ha voluto indagare. Come è stato possibile tutto questo?
            Stavolta è Vincenzo Nardiello che prova l'impresa di dare una spiegazione, evidenziando come la storia sia stata messa a servizio di un progetto politico, visto che qui non si parla di fatti interpretati male, non conosciuti o posti correttamente, ma di pagine che sono state espulse completamente dal dibattito storico. Pagine che nessuno storico si è preso la briga di raccontare, come quella che vide Palmiro Togliatti invitare ad accogliere i titini come liberatori e di realizzare uno scambio tra Gorizia e Trieste. Perché tutto questo? Una prima risposta è rinvenibile nel fatto che una parte degli storici erano di fatto dirigenti o esponenti comunisti. Ma questi da soli non erano sufficienti per portare a compimento questa impressionante opera mistificatoria. E qui ci viene in soccorso Ernesto Galli della Loggia che recentemente ha ammesso quanto gli storici e gli intellettuali moderati si siano piegati al volere dei comunisti che non gli chiedevano di essere comunisti, ma semplicemente di non essere anticomunisti. Immaginate che cosa sarebbe accaduto, ad esempio, se un agente della CIA avesse seguito Aldo Moro, il segretario del più grosso partito italiano, fino al giorno prima del suo sequestro. E' successo, invece, che sia stato pedinato da un agente del Kgb come dimostrano i documenti ufficiali provenienti dagli archivi dell'Unione Sovietica. Non patacche, ma prove scritte, atti ufficiali, drammaticamente sconcertanti sui quali continua ad aleggiare un silenzio che si fa sempre più assordante.
            Dunque oggi ha senso rileggere la storia nel tentativo di depurarla da questi inaccettabili condizionamenti che hanno fatto sì che alcune verità non venissero alla luce? Ed ha senso dichiararsi ancora anticomunisti, oggi che il Muro di Berlino è crollato ed il regime sovietico si è dissolto?
            Ebbene sì, un simile comportamento è prima di tutto un dovere, perché, come ci ricorda Giancarlo Lehner, autore de La Tragedia dei comunisti italiani, le vittime del Pci in Unione Sovietica (edito per la collana le Scie della Mondadori), essere contro il comunismo non è una contingenza politica, ma è un principio ed un dovere morale. E ricorda anche che il comunismo non lo si combatte con l'anticomunismo urlato ma semplicemente raccontando i fatti e ricercando la verità.
            Del resto basta riportare alcune chicche presenti nel libro del giornalista e storico, direttore de Il Giusto Processo, per rendersi conto di quanto sia stato enorme il lavoro di dissimulazione prodotto fino ad oggi: in una lettera inviata al suo comando firmata da Giorgio Bocca, all'epoca attivista partigiano, è possibile leggere il suo sconcerto per taluni eccessi di partigiani comunisti, come quelli di un comandante partigiano di nome Rocca "specializzato ad uccidere personalmente i prigionieri fascisti squartandoli a colpi di pala". Un Bocca allibito si domandava fino a che punto fosse lecito arrivare. Questo valoroso partigiano, ovviamente, non ha avuto alcun problema per i suoi atti, se non una medaglia d'oro.
            Ma se un tempo erano pagati per disinformare, oggi a sinistra si segnalano professori per la loro imbarazzante ignoranza. E' di pochi giorni fa un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica di Tabucchi, autore tanto in voga e pompato dall'intellighenzia di sinistra, che tranquillamente si è preso il lusso di dichiarare che Gramsci fosse morto in carcere.
            E' evidente che dinanzi a simili mistificazioni si comprende anche perché sia abilmente taciuto da questi "professionisti della menzogna" la vera essenza del patto Molotov-Ribbentrop che nel 1939 ha sancito la nascita dell'asse nazi-comunista e che diede il via libera a Hitler per l'eliminazione degli ebrei. Fu in quel frangente che Stalin, in segno di concordia, si permise di offrire in "regalo" ad Hitler tutti gli ebrei internati nei gulag. Questo è un dato storico, provato, inconfutabile: la persecuzione degli ebrei partì con il benestare di Stalin, dei comunisti. Innegabile a tal punto che nei libri di storia non v'è menzione alcuna. All'epoca, inoltre, Hitler non doveva di certo apparire come un mostro dai "benpensanti rossi", visto che esiste un saggio vergognoso di Palmiro Togliatti per il quale il patto fu la conseguenza dell'aggressione ai danni della Germania compiuta da Francia e Gran Bretagna.
            Possiamo continuare ricordando la storia di don Pietro Leoni che tornò in Italia dopo essersi fatto 10 anni di gulag accusato di un reato che nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era assolutamente vietato: avere rapporti col Vaticano. Certo che per un prete sarebbe stato davvero ostico non averne, ma la tragedia per quest'uomo si materializzò con il suo ritorno nel suo paese natale, Bologna. Qui cominciò a raccontare la sua esperienza, la verità sull'URSS e su come si viveva. Roba da far impazzire il Pci, tanto che i "compagni" italiani arrivarono a dire che il vero prete fosse morto, che quello che parlava era solo un impostore o un sosia. E cosa fece Sacra Romana Chiesa? Pensò bene di spedirlo in Canada perché "era disfunzionale alla strategia del dialogo" intrapresa dal papa buono.
            Ma vi è un documento storico che vale più di mille altre storie raccontate, che inchioda definitivamente Palmiro Togliatti alle sue responsabilità. Sono trascorsi 50 anni di dibattiti, riflessioni e scontri tra gli storici nello stabilire se Togliatti avesse o meno fatto qualcosa in favore degli italiani comunisti arrestati, perseguitati e trucidati in URSS. In realtà si è trattato di un falso problema, perché il vero dilemma è stabilire quanti siano stati gli italiani consegnati direttamente da Togliatti ai sovietici.
            In un documento datato 25 dicembre 1936, catalogato come «segretissimo», al terzo paragrafo c'è una lista di tredici comunisti italiani, fra cui Vincenzo Baccalà, bollati come «elementi negativi». Accanto ai nomi di Rossetti (pseudonimo di Baccalà) e di Modugno, c'è una nota: «troskista, deportare», E in fondo al testo, la scritta: «Soglasen» («Sono d'accordo»), firmato «Ercoli», ovvero il nome in codice di Togliatti. Da notare un particolare agghiacciante: «Soglasen» era la formula di ratifica dell'incaricato dell'Nkvd che prendeva visione dei mandati di cattura e degli ordini di perquisizione. Togliatti, dunque, anche nel lessico, il codice ristretto dei carnefici, appare tutt'uno con la polizia segreta sovietica. Del resto, come poteva non essere d'accordo, visto che le prime denunce contro quei poveri compagni di base erano partite proprio dai dirigenti «vigilantes» del PCd'I?
            Ma esistono ancora i comunisti in Italia? Forse sono cambiate le sigle, ma nei fatti anche il più anticomunista (sua dichiarazione) dei comunisti della storia italiana, Walter Veltroni, spesso ne ha subito la cultura e le metodologie. Basta riprendere l'Unità diretta dall'attuale sindaco di Roma dell'11 novembre 1993, a pagina 10, dove appare un trafiletto in cui si comunica la morte del compagno Penco, e si legge "vecchio militante comunista, perseguitato politico per le sue idee di libertà e di socialismo". Peccato che Veltroni abbia scordato di aggiungere un particolare: Penco fu sì un perseguitato politico, ma lo fu da suoi compagni facendosi pure 14 anni nei gulag sovietici. Certo, un particolare irrisorio per chi è cresciuto nella cultura della menzogna.
            Ebbene si, i comunisti esistono ancora e condizionano tuttora la ricerca della verità storica se è vero che tra i consulenti della Commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin vi sia anche Giulietto Chiesa, corrispondente dell'Unità dall'80 all'88 che non veniva pagato dal suo giornale, ma dal Comitato della mezzaluna e croce rossa sovietica. Pagato in sostanza da Breznev. Ebbene, Chiesa che veniva pagato tre volte più del direttore della Pravda, con casa, automobile, spese per i viaggi, vacanze garantite, tutte a carico del valoroso stato sovietico, era il giornalista italiano che doveva informare delle cose sovietiche.
            Dinanzi ad un così illuminante scenario, riteniamo di poter chiudere rimarcando il messaggio che Giancarlo Lehner ha lanciato: il lavoro serio dello storico non è quello di usare aggettivi o invettive, ma cercare dati, documenti e fatti. Questo è il principio da seguire per chi vuole rendere giustizia alla verità ed alla storia del nostro paese e che 60 anni di storia repubblicana non sono stati sufficienti a garantire.

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              #7
              Ci sono.

              Il libro nero del comunismo - - Libro - IBS - Mondadori - Oscar storia


              Memoriale alle vittime del comunismo, Praga:

              Originariamente Scritto da gorgone
              il capitalismo vive delle proprie crisi.

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                #8
                Originariamente Scritto da Cesarius Visualizza Messaggio
                dai parliamone dettagliatamente, credo ci sia molto da dire, non ultima la questione sul perchè esul come tali atrocità siano state occultate.

                Ancora oggi molti stirici dibattono sulle stime del resto sia sovietici ce cinesi sono molto attenti alla censura, a mistificare fatti e a non lasciar trapelare niente.
                Perchè i comunisti hanno vinto la guerra. E perchè in caso di conflitto aperto il Patto di Varsavia avrebbe quasi sicuramente prevalso sulla NATO.
                Meglio tenerseli buoni insomma
                sigpic

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                  #9
                  interessante larry , tra l'altro ieri ho letto questa notizia ed il fatto di sentire parlare oggi di terrorismo mi ha dato una pessima sensazione
                  Nuove Brigate Rosse, due arresti Uno è il figlio del fondatore br Morlacchi - Corriere Roma
                  sigpic
                  Originariamente Scritto da zajka
                  sicuramente fa finta perché si saltano molti momenti e non si vede nemmeno che ingoia

                  Commenta


                    #10
                    Originariamente Scritto da bersiker1980 Visualizza Messaggio
                    Perchè i comunisti hanno vinto la guerra. E perchè in caso di conflitto aperto il Patto di Varsavia avrebbe quasi sicuramente prevalso sulla NATO.
                    Meglio tenerseli buoni insomma
                    Aggiungo che imho si tende a non equiparare il comunismo al nazismo perchè l'idea che dovrebbe stare alla base del comunismo è, almeno negli intenti, nobile.

                    Non credo si possa dire lo stesso di quella che sta alla base del nazionalsocialismo, temo.
                    sigpic

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                      #11
                      Questa è una delle tante chicche sulla Resistenza, presto ne arriveranno altre


                      Rolando Rivi, il seminarista quattordicenne ucciso dai comunisti

                      Rolando Rivi nacque il 7 gennaio 1931 nella casa detta del Poggiolo a San Valentino, un piccolo borgo vicino a Castellarano in provincia di Reggio Emilia, da Roberto e Albertina Canovi.
                      Quel giorno era a Reggio Emilia - e lo è oggi in tutta Italia - la festa del tricolore, vessillo che venne adottato per la prima volta nel 1797 proprio nel capoluogo emiliano quale stendardo della Repubblica Cispadana.
                      Quel bambino avrebbe onorato la sua terra e la patria che adottò quella bandiera, ma il vessillo sotto il quale avrebbe militato non sarebbe stato il massonico tricolore, ma quello di Cristo, Re e Sacerdote.
                      Il giorno dopo la nascita i genitori lo battezzarono con il nome di Rolando.
                      Prima di uscire dalla chiesa, lo portarono all’altare della Madonna e gli diedero anche il nome di Lei, sicchè il piccolo si chiamò Rolando Maria Rivi.

                      Il padre e la madre erano originari di Levizzano, località del comune di Baiso e si erano trasferiti all’inizio del ‘900 a San Valentino.
                      La famiglia del ramo materno era nota nella zona per l’onestà, la laboriosità e soprattutto per la forte fede cattolica ed era soprannominata «i Pater», in riferimento al «Pater noster», che essi recitavano spesso con la corona del rosario tra le mani.
                      Il padre di Rolando, Roberto, militante dell’allora gloriosa Azione Cattolica, era anch’egli molto religioso, assiduo alla santa Messa, che frequentava con devozione particolare secondo l’invito del santo Pontefice Pio X.
                      Rolando era un bambino sano ed esuberante.
                      Proprio questa sua vivacità metteva talvolta in ansia i genitori e la nonna, che meglio di altri ne aveva intuito il temperamento, ed era solita dire: «Rolando, o diventerà un mascalzone o un santo! Non può percorrere una via di mezzo...».
                      Nel gennaio 1934 morì il parroco di san Valentino don Iemmi e nel maggio dello stesso anno giunse come nuovo parroco, don Olinto Marzocchini, che aveva allora 46 anni.
                      Sacerdote zelante nel suo ministero, divenne per il piccolo Rolando un fondamentale punto di riferimento.
                      Quando assisteva alla Messa, il piccolo non perdeva un gesto del sacerdote e seppure molto piccolo cominciò a fare il chierichetto.
                      Don Olinto era un prete vero: passava lunghe ore in preghiera davanti al Santissimo, curava meticolosamente il catechismo dei fanciulli, istruiva i chierichetti per il servizio all’altare e aveva messo su un coro per dare solennità alla liturgia.
                      Fu anche attraverso di lui che Rolando imparò ad amare Gesù e a scoprire che abitava, vivo, nel tabernacolo.
                      Nell'ottobre 1937 Rolando iniziò le scuole elementari.
                      La sua maestra, Clotilde Selmi, donna molto devota anch’essa, parlava spesso di Gesù ai bambini e sempre li invitava all’adorazione eucaristica.
                      In parrocchia la catechista di Rolando era Antonietta Maffei, delegata dei fanciulli di Azione Cattolica che preparava con scrupolo le «adunanze settimanali» (come si chiamavano allora).
                      Anche grazie a loro Rolando fu ammesso a ricevere l’Eucaristia subito, a giugno, perché era tra i fanciulli che si erano preparati meglio e più in fretta.
                      Ne provò una grande gioia e il 16 giugno 1938, festa del Corpus Domini, ricevette per la prima volta Gesù.
                      Le testimonianze concordano sul fatto che dopo la prima Comunione Rolando era cambiato.
                      Pur rimanendo un ragazzo vivace, i familiari notarono in lui una maturazione profonda, che si accentuò dopo aver ricevuto la Cresima, il 24 giugno 1940.
                      Era solito accostarsi tutte le settimane alla Confessione e alzarsi prestissimo la mattina per servire la Messa e ricevere la Comunione, invitando anche i compagni a fare altrettanto: «vieni - diceva loro - Gesù ci aspetta. Gesù lo vuole!».
                      Riferiva che il sacerdote sull’altare, quando consacrava il pane e il vino, gli appariva grande da toccare il cielo.
                      Fu così che la chiamata al sacerdozio si fece via via più intensa, accompagnandolo per tutto il ciclo delle scuole elementari, fino a quando a 11 anni lo disse in casa: «Voglio farmi prete, per salvare tante persone. Poi partirò missionario per far conoscere Gesù lontano, lontano».
                      Entrò nel Seminario di Marola nell'autunno del 1942 e come si usava a quei tempi vestì subito l’abito talare.
                      Ne era fiero e fu anche questo amore per l’abito talare a segnare la sua fine...
                      Nel periodo trascorso in seminario il ragazzo si distinse per diligenza, mantenendo sempre ferma la decisione di diventare sacerdote.
                      Quando tornava a casa, aiutava i genitori nei lavori in campagna e in chiesa suonava l’armonium, accompagnando il coro parrocchiale nel quale cantava anche suo padre.
                      Intanto la guerra si faceva via via più aspra, anche perché proprio in quelle zone massiccia era la presenza di formazioni partigiane, formatesi dopo la caduta del fascismo e la tragica esperienza dell’8 settembre del 1943, che aveva portato all’occupazione da parte tedesca della penisola.
                      A parte gruppi minoritari di cattolici democratici, le fila partigiane erano composte da comunisti, socialisti, azionisti, tutti accomunati da una forte ideologia anticattolica.
                      La frangia più estrema, quella comunista, non si limitava a combattere i tedeschi.
                      Vedeva nel clero un pericoloso argine al proprio progetto rivoluzionario.
                      L’anticlericalismo diventò violento e si fece via via più minaccioso.
                      Quando nel 1944 i tedeschi occupano il seminario di Marola, tutti i ragazzi dovettero rientrare alle loro case, portando con sé i libri per poter continuare a studiare.
                      Rolando continuò a sentirsi seminarista: oltre a studiare, frequentava quotidianamente la Messa e la Comunione, recitava il rosario, pregava, faceva visita al Santissimo Sacramento.
                      Nonostante fosse stato consigliato diversamente, non smise mai di portare il suo abito religioso: i genitori, infatti, gli dicevano: «Togliti la veste nera. Non portarla per ora ...».
                      Ma Rolando rispondeva: «Ma perché? Che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela». Gli fecero notare che forse era conveniente farlo in quei momenti, così insicuri.
                      Replicò Rolando: «Io studio da prete e la veste è il segno che io sono di Gesù».
                      Un atto d’amore che pagherà con la vita.
                      A San Valentino dapprima fu preso di mira il parroco don Marzocchini.
                      Una mattina si venne a sapere che durante la notte precedente, alcuni partigiani l’avevano aggredito e umiliato.
                      Poiché già altri sacerdoti (don Luigi Donadelli, don Luigi Ilariucci, don Aldemiro Corsi e don Luigi Manfredi) erano stati uccisi dai partigiani comunisti, don Marzocchini fu spostato in un luogo più sicuro e venne sostituito in parrocchia da un giovane prete, don Alberto Camellini.
                      Il 1 aprile, tuttavia, don Marzocchini volle ritornare in parrocchia a San Valentino, ma al suo fianco rimase il giovane curato don Camellini, verso il quale Rolando aveva dimostrato subito grande simpatia.
                      Il 10 aprile, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto, il ragazzo era già in chiesa: si celebrava la Messa cantata in onore di san Vincenzo Ferreri e Rolando vi partecipò, suonando l’organo.
                      Terminato il rito, prima di uscire, prese accordi con i cantori, per «cantare Messa» anche il giorno seguente.
                      Uscito di chiesa, mentre i suoi genitori si recarono a lavorare nei campi, Rolando, con i libri sottobraccio, si diresse come al solito a studiare nel boschetto a pochi passi da casa.
                      Indossava, come sempre, la sua talare nera.
                      A mezzogiorno i suoi genitori l’attesero invano per pranzo.
                      Preoccupati l’andarono a cercare.
                      Tra i libri sull’erba trovarono un biglietto: «Non cercatelo. Viene un momento con noi. I partigiani».
                      Il papà e il curato don Camellini, in forte ansia, cominciarono allora a girare nei dintorni alla ricerca del ragazzo.
                      Frattanto Rolando, trascinato via dai partigiani in un loro covo nella boscaglia, iniziava la sua «via crucis».
                      Venne spogliato della veste talare che li irritava, insultato, percosso con la cinghia sulle gambe e schiaffeggiato.
                      Rimase per tre giorni nelle mani dei suoi aguzzini, ascoltando bestemmie contro Cristo, insulti contro la Chiesa e contro il sacerdozio.
                      Secondo alcuni testimoni sarebbe stato frustato e avrebbe subito altre indicibili violenze.
                      Tra i rapitori pare che qualcuno si commosse, proponendo di lasciarlo andare.
                      Ma altri si rifiutarono, minacciando di morte chi aveva fatto la proposta del rilascio.
                      Prevalse l’odio per la Chiesa, per il sacerdote, per l’abito che lo rappresenta e che quel ragazzino non si era mai voluto togliere.
                      Decisero di ammazzarlo: «Avremo domani un prete in meno».
                      Lo portarono, sanguinante, in un bosco presso Piane di Monchio (in provincia di Modena), dove c’era una fossa già scavata.
                      Rolando capì che stava per morire, pianse, chiedendo di essere risparmiato.
                      Con un calcio lo scaraventarono a terra.
                      Allora chiese di pregare un’ultima volta.
                      Si inginocchiò, poi due scariche di rivoltella lo fecero rotolare nella buca.
                      Venne coperto con poche palate di terra e di foglie secche.
                      La veste del «pretino» divenne un pallone da calciare; poi sarà appesa, come trofeo di guerra, sotto il porticato di una casa vicina.
                      Era venerdì 13 aprile 1945, ricorrenza del martirio del giovane sant’Ermenegildo (585 dopo Cristo). Rolando aveva quattordici anni e tre mesi.
                      Per tre giorni i genitori e don Camellini lo cercarono lungo tutto quel tratto del crinale appenninico, finché alcuni partigiani li indirizzarono a Piane di Monchio.
                      Qui incontrarono un capo partigiano comunista, cui chiesero: «Dov’è il seminarista Rivi?»
                      Quello rispose: «È stato ucciso qui, l’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo».
                      E indicò il luogo dove il giovanetto era stato sepolto il giorno prima.
                      Don Camellini domandò ancora al partigiano: «Ha sofferto molto?».
                      Quello, mostrandogli la sua rivoltella, replicò beffardo: «Con questa non si soffre molto. Non si sbaglia».
                      Era la sera di sabato 14 aprile 1945.
                      Raggiunto il posto dell’omicidio, il sacerdote non fece fatica a recuperare il cadavere del ragazzo, con indosso solo una maglietta e un paio di calzoni sdruciti, legati al ginocchio.
                      Aveva due ferite: una alla tempia sinistra e l’altra sulla spalla in corrispondenza del cuore.
                      Il volto, sporco di terra, era coperto di lividi; il suo corpo martoriato.
                      Il padre si inginocchiò vicino al suo bambino e lo strinse, piangendo a dirotto, tra le braccia.
                      Due contadini del posto fabbricarono alla bell’e meglio una cassa di legno.
                      Don Camellini lavò il volto di Rolando, lo asciugò con il suo fazzoletto e lo compose nella povera bara.
                      Era notte ormai, sicché solo la mattina dopo, seconda domenica dopo Pasqua, «Domenica del Buon Pastore», il corpo di Rolando fu portato in chiesa a Monchio, dove don Camellini celebrò la Messa per l’anima di Rolando.
                      Alla presenza del padre Roberto e di don Camellini, il parroco di Monchio scrisse in latino sul registro parrocchiale l’atto di morte e di sepoltura di Rolando.
                      «15 aprile 1945. Rivi Rolando, figlio di Roberto e di Canovi Albertina, celibe, di San Valentino (Reggio Emilia), qui, per mano di uomini iniqui, a 14 anni di età, alle ore 19, in comunione con santa madre Chiesa, rese la sua anima a Dio.
                      Il suo cadavere, oggi, fatte le sacre esequie e celebrata la Messa, è stato sepolto nel cimitero parrocchiale». (1)
                      Il padre di Rolando e il curato di San Valentino tornarono mestamente al paese, a recare la notizia terribile alla madre che lì aveva aspettato invano.
                      La terribile notizia si diffuse rapidamente in paese, lasciando la gente sgomenta di fronte a quella barbarie.
                      A guerra terminata, una grande folla di parrocchiani martedì 29 maggio 1945, attese a San Valentino l’arrivo della salma, traslata in località Montadella.
                      La chiesa accolse in silenzio e commozione il piccolo martire.
                      Ucciso in odio alla fede, la sua causa di canonizzazione ha dovuto attendere 60 anni, fino al 7 gennaio 2006.
                      Quando il 25 maggio del 1945 il suo corpo era stato tumulato nel cimitero di San Valentino, le parole del suo parroco, don Olinto Marzocchini, erano state brevi ed intense: «Non bastano le nostre lacrime a piangere Rolando… Ma guardate a Cristo che è la resurrezione e la vita. Lui asciughi le lacrime dai nostri occhi».
                      Questa la fede semplice di chi per essa era disposto a dare la vita, di chi in Cristo ci credeva davvero.
                      «Era stato lui - è scritto in un libro distribuito in fondo alla chiesa dal "Comitato amici di Rolando Rivi" - a preparare quel trionfo al figlio prediletto, a quel ragazzo aspirante al sacerdozio, caduto innocente sotto il piombo di uomini empi, come i ragazzi e i giovani cattolici martiri in Russia, in Messico e in Spagna, nelle recenti persecuzioni sotto l’odio massonico e comunista».

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                        #12
                        concentriamoci sui crimin dei comunisti in ITALIA per prima cosa,che sono quelli più taciuti, e partiamo dal loro momento-picco, ovvero la Resistenza



                        La piccola Giuseppina uccisa per un tema che era piaciuto al Duce
                        di Redazione

                        Durante gli ultimi giorni di aprile 45, ricordati come le «radiose giornate», venne commesso in Savona un efferato delitto su una ragazzina di tredici anni; un omicidio brutale, ingiustificato!
                        Ho sempre sperato che la mia città trovasse l’onestà morale di ricordare quella bambina innocente (ma quali gravi reati può commettere una tredicenne?), non per giustizia, che ormai chi commise quell’atrocità deve rispondere a ben altro tribunale, ma per un sentimento di pietà; ed ora io avrei sepolto nella mia mente quei ricordi!
                        Ma ora, dopo oltre sessant’anni, non spero certamente più in una doverosa riabilitazione; e allora affido alla carta la memoria di un tragico evento che mi volle occasionale testimone di quel martirio.

                        Cercando Valentino
                        Fu proprio negli ultimi giorni di aprile, quando ormai il conflitto stava volgendo al termine in tutta l’Europa, che di primo mattino vidi arrivare a casa nostra Lina Cuttica alla ricerca di suo fratello Valentino, milite della Brigata Nera, di cui più nulla si sapeva; anzi lei sperava di trovarlo presso di noi.
                        C’era molta amicizia con tutta la famiglia Cuttica, amicizia nata qualche anno prima quando, ancora ragazzo, Valentino aveva lavorato nel negozio di ferramenta in cui mio padre era rappresentante. Ed io in particolare ero molto legato a Valentino per il suo carattere allegro e la sua indole aperta.
                        Ora quella gente, disperata per la mancanza di notizie, pensò di rivolgersi a mio padre, come unica persona in grado di cercare quel ragazzo o di sapere qualcosa sulla sua sorte; e lui, generoso e disponibile come fu sempre, con una buona dose di coraggio, decise di cominciare le ricerche là dove venivano fucilati o scaricati da vari luoghi dell’esecuzione, i soldati della Repubblica Sociale (e non solo loro) e cioè contro i muri esterni del cimitero di Zinola. Si parlava allora della «resa dei conti» e tutti avevano capito che mio padre nutriva poche speranze di trovare la Brigata Nera Valentino ancora vivo!
                        Volle accompagnarlo un boscaiolo che viveva solo in un piccolo alloggio nella nostra scala; era Venturino, un uomo forte e buono, reduce della «grande guerra», che più volte mi aveva affascinato con i racconti di tragiche battaglie dall’altopiano della Bainsizza al San Michele.
                        Allora era la bicicletta il mezzo più consueto per muoversi e, prima di partire, mio padre mi guardò dicendomi: «Sta vicino a Lina e a tua madre, noi faremo presto!». E soggiunse: «Non fare come il solito di testa tua e soprattutto non ci seguire!». Maledizione! Non avevo abbassato gli occhi in tempo e mio padre, come sempre quando mi guardava, aveva letto il mio pensiero!
                        Naturalmente la tentazione era troppo forte e, dopo aver aspettato qualche minuto che i due fossero ad una rispettosa distanza, inforcai la bicicletta di mia madre e li seguii.
                        Piccola martire sconosciuta
                        La strada correva veloce sotto le ruote della bici; non c’era certo il traffico di oggi, però una lunga fila di grossi autocarri «Dodge» con la bianca stella americana sul cofano e sulle portiere sostava sull’Aurelia, restringendo la carreggiata mentre numerose jeep (allora le chiamavano camionette) sfrecciavano continuamente nei due sensi; era la prima volta che vedevo i soldati americani bianchi e neri.
                        Ancora oggi mi chiedo come non ci rendessimo conto del pericolo che correvamo nella ricerca di un milite della brigata nera; in quei giorni bastava molto meno per essere ammazzati; ma forse i quotidiani bombardamenti aerei ci avevano abituati al pericolo!
                        E fu proprio entrando in Zinola che mi accorsi di aver perso di vista mio padre; aumentai l’andatura e, superata la chiesa ed il passaggio a livello, imboccai velocemente la semicurva che portava davanti al cimitero... e trovai mio padre che mi stava aspettando! Mi guardò con quell’espressione severa e triste che mi faceva più male di una sberla, poi disse: «Mi rendo conto che dovremo fare un lungo discorso noi due! Per adesso siediti lì e aspettaci!». Mi aveva indicato il muretto dell’argine lungo il torrente Quiliano e, mentre ubbidivo a quell’ordine perentorio, loro due si avviarono verso una lunga fila di cadaveri.
                        Ritengo che ancora una volta la curiosità fosse più forte dell’obbedienza e quindi lentamente, molto lentamente, mi avvicinai ai primi corpi di quella fila.
                        E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta; evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età. Una mano pietosa aveva steso su di lei una sudicia coperta grigia che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia.
                        La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e, in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei, questa sconosciuta ragazza no! L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno.
                        Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta con un braccio irrigidito verso l’alto, come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano. Mi riscosse la voce di mio padre, insolitamente dolce, che mi disse: «Hai visto abbastanza! Ora torniamo a casa!».
                        Nulla ricordo del viaggio di ritorno, soltanto la voce di mio padre che, rivolto al nostro compagno di viaggio, diceva, riferendosi evidentemente a Valentino: «Se non lo abbiamo trovato tra i morti, speriamo che sia ancora tra i vivi!».
                        È strano, ma quanto più si invecchia, più si fanno nitidi i ricordi degli anni lontani, mentre non si ricorda la cena della sera prima.
                        Giuseppina Ghersi
                        «Speriamo che sia ancora tra i vivi!» Aveva detto mio padre, alimentando una tenue speranza nei superstiti di quella famiglia, speranza che durò soltanto una paio di settimane, quando il massacro del colle di Cadibona, ricordato come «la corriera della morte», assieme ad altre trentasette, anche la vita di Valentino fu stroncata.
                        Passarono alcuni anni; io avevo cominciato a lavorare; un lavoro che mi piaceva, anche se a volte mi costringeva lontano da casa per qualche settimana; e fu durante una di queste mie assenze che morì una persona cara: Giobatta Vignolo, conosciuto come u «Russu», un vecchio contadino dal quale avevo imparato molte cose, soprattutto saggezza e pazienza!
                        Naturalmente, appena mi fu possibile, in occasione di un intervallo festivo, volli onorarne la memoria con una visita al cimitero di Zinola. Fu un lungo giro, o meglio un pellegrinaggio, poiché erano già tante le persone a me care che non erano più!
                        Quando mi avviai all’uscita, passando tra i due campi più prossimi al cancello, notai una coppia che stava sistemando dei fiori su una tomba, fiori che, in parte, coprivano la lapide, ma lasciavano intravedere le date: 1931-1945; mi tornò in mente l’aprile del 45 e... ma non c’erano dubbi: quella data e quell’età corrispondevano alla giovane sconosciuta!
                        Esitai alquanto, poi chiesi ai due: «È la ragazzina che hanno ucciso a fine aprile?». La donna mi guardò con diffidenza, poi, con voce ostile, mi chiese: «Perché?»; mi resi conto che stavo rivolgendomi ai genitori, persone profondamente ferite, che non avevano mai avuto giustizia (così aveva voluto il dominante terrore politico) ed io, un po’ a disagio, ma senza recedere dal mio proposito, risposi: «Se è lei, io l’ho vista laggiù contro il muro, come l’avevano lasciata dopo averla uccisa!». La dura corteccia di rancore si stava aprendo e, dopo qualche istante, mi dissero: «Vieni pure, noi siamo i genitori».
                        Ebbi così modo di leggere per intero il nome della lapide: Giuseppina Ghersi.
                        Parlai brevemente della coincidenza che mi aveva portato a Zinola in quei giorni e, dopo qualche frase di circostanza, mi allontanai. E fu a questo punto che scattò qualcosa, per cui tornai sui miei passi e chiesi se avessero una fotografia di Giuseppina; oggi penso che ciò fosse dovuto all’inconscia necessità di cancellare dal mio ricordo quel giovane volto martoriato. Mi parve di capire che la mia richiesta facesse loro piacere, perché la donna mi rispose: «Io qui con me non ho nulla, però se passi da casa nostra, certamente qualcosa posso trovare». Mi diedero l’indirizzo, ma poiché non potevo fissare il giorno a causa del mio lavoro, promisi che sarei passato da loro in un tardo pomeriggio festivo.
                        Dopo circa una settimana, come promesso, mi recai all’indirizzo avuto: via Tallone (il numero civico non lo ricordo), una via che oggi ha cambiato nome. Trovai, oltre ai genitori che già conoscevo, anche la zia di Pinuccia; mi accolsero con estrema cordialità, come fossi stato un vecchio amico e, se allora ne fui sorpreso, in seguito compresi l’isolamento che aveva circondato i signori Ghersi, considerati come appestati (e ancora peggio: fascisti) ed in malaugurato caso di incontro, i conoscenti e gli amici abbassavano gli occhi fingendo di non conoscerli! Questo era il clima di paura in quel tempo «radioso»!
                        La signora Laura raccontò l’allucinante calvario suo e di suo marito: furono dapprima arrestati con la cervellotica accusa di aver avuto rapporti commerciali con i nazi-fascisti (gestivano un banco di frutta e verdura al mercato); si volle inoltre che venisse rintracciata la figlia Giuseppina: «E che diamine! Vogliamo soltanto interrogarla! Che altro possiamo volere da una ragazzina?».
                        Rassicurati da quella infame menzogna, sempre accompagnati da uomini armati, trovarono Pinuccia in casa di una conoscente e per la giovane fu l’inizio della fine.
                        Con voce rotta dai singhiozzi la signora Laura continuò: «Io non rividi più mia figlia viva! Ci sequestrarono le chiavi di casa e, mentre noi eravamo in prigione, ci portarono via tutto! Per tutto il periodo della prigionia ogni giorno arrivavano, mi picchiavano, mi minacciavano senza una ragione...».
                        Il suo pianto accorato creò una pausa nel suo racconto, ed io posi la domanda chiave che era all’origine di quell’omicidio: «Ma perché fu uccisa?».
                        Mi risposero un po’ tutti, ovvero l’accusa ufficiale era spionaggio, accusa ridicola data l’età della vittima, però la zia azzardò un’altra ipotesi: Giuseppina aveva partecipato ad un concorso a tema per cui ricevette i complimenti dal Duce in persona; poteva essere questo, la sua condanna a morte!
                        Poi ancora disse che, con molto coraggio, era andata nelle scuole di Legino, diventate per l’occasione centro di raccolta, dove Giuseppina era «detenuta» ed in effetti riuscì a parlarle per pochi minuti: «Era ridotta in uno stato pietoso; mi disse di aver subìto ogni sorta di violenza... (a questo punto tacque per pudore su tante nefandezze che la decenza lascia solo intuire).
                        Ero sconcertato e, se non avessi visto con i miei occhi l’oggetto di quel martirio, non avrei creduto a tanta ferocia! Comunque osai ancora chiedere: «Nessuno ha assistito alla sua morte?». Mi rispose il signor Ghersi: «Ero io con lei; prima mi hanno preso a pugni e mi hanno colpito col calcio del fucile, perché volevo difendere mia figlia, poi hanno ucciso Pinuccia a calci!». Azzardai una domanda: «Ma non le avevano sparato?». Con voce alterata mi rispose: «Le spararono un colpo alla nuca, ma la mia bambina era morente, o forse già morta!».
                        Per ciò che ricordo, la mia visita volgeva al termine, ma al momento del commiato, ricordai qualcosa che mi aveva colpito e ancora chiesi: «Scusatemi, ma Pinuccia aveva forse un anello al dito?». Dopo un momento di perplessità la zia della bambina mi rispose: «Si certo! Un anellino d’oro, ma perché me lo chiedi?». Abbassai il capo e mormorai: «No niente, chiedevo così!».
                        Lasciai quella casa intrisa di dolore e, scendendo le scale, ebbi la sensazione che non avrei più rivisto nessuno di loro; e infatti fu proprio così!
                        Stava piovviginando quanto uscii in strada; avevo tanta rabbia dentro. Non potevo accettare l’ingiustizia, da qualunque parte provenisse, non potevo accettare l’idea che i criminali fossero da una sola parte; non riuscivo a capire perché, dopo aver eliminato la tirannide si sognasse alla guida del nostro paese, ancora tiranni ugualmente spietati e feroci...
                        Dal cielo buio una fine acquerugiola mi scorreva sul viso; meglio così per passare inosservato tra la gente!
                        Molto, molto tempo dopo lessi che forse un poeta, forse un disperato disse che gli occhi velati di lacrime vedono molto lontano...
                        Ma allora non potevo saperlo.

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                          #13
                          Originariamente Scritto da Sartorio Visualizza Messaggio
                          Ci sono.

                          Il libro nero del comunismo - - Libro - IBS - Mondadori - Oscar storia


                          Memoriale alle vittime del comunismo, Praga:

                          L'ho visto di persona questo monumento a Praga davvero bello e significativo
                          sigpic

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                            #14
                            Originariamente Scritto da bersiker1980 Visualizza Messaggio
                            Aggiungo che imho si tende a non equiparare il comunismo al nazismo perchè l'idea che dovrebbe stare alla base del comunismo è, almeno negli intenti, nobile.

                            Non credo si possa dire lo stesso di quella che sta alla base del nazionalsocialismo, temo.
                            Insomma... sia il nazionalsocialismo che il comunismo nascono su basi propositive, di emancipazione per il movimento operaio ed agricolo. Sono diverse le dimensioni operative: Il primo fortemente nazionalista, il secondo "internazionalista", il risultato finale non cambia, perché sfociando nel totalitarismo anche le idee migliori cominciano a puzzare di cadaveri.
                            Da questo punto di vista il comunismo per la sua dimensione sovranazionale è potenzialmente più pericoloso.

                            Concordo con te riguardo la storia, che è scritta dai vincitori.
                            Originariamente Scritto da gorgone
                            il capitalismo vive delle proprie crisi.

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                              #15
                              Originariamente Scritto da bersiker1980 Visualizza Messaggio
                              Aggiungo che imho si tende a non equiparare il comunismo al nazismo perchè l'idea che dovrebbe stare alla base del comunismo è, almeno negli intenti, nobile.

                              Non credo si possa dire lo stesso di quella che sta alla base del nazionalsocialismo, temo.
                              quoto , anche se , secondo me il nazional socialismo è nato "per colpa"del socialismo marxista, non trovavo parole piu appropriate per ovviare al termine "per colpa "quindi mi scuso se qualcuno puo sentirsi offeso
                              sigpic
                              Originariamente Scritto da zajka
                              sicuramente fa finta perché si saltano molti momenti e non si vede nemmeno che ingoia

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