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Non so, siamo nel campo del meramente ipotetico e indimostrato, per cui una scelta equivale all'altra.
Sicuramente, un disturbo genetico casuale equivale a convalidare l'esistenza di dio, gesù i miracoli, la verginità di Maria, il potere della chiesa in terra, la confessione, la preghiera, inferno paradiso, purgatorio, bla bla bla e tutte le altre storielle.....
... certo, praticamente equivalente! Certo che se vuoi credere a tutti i costi non c'è problema.
Sicuramente, un disturbo genetico casualeequivale a convalidare l'esistenza di dio, gesù i miracoli, la verginità di Maria, il potere della chiesa in terra, la confessione, la preghiera, inferno paradiso, purgatorio, bla bla bla e tutte le altre storielle.....
... certo, praticamente equivalente! Certo che se vuoi credere a tutti i costi non c'è problema.
Edit, leggo ora "disturbo genetico casuale".
Ossia provocato dal caso.
Bene si rientra nella scelta 1): per te è frutto del caso.
Accetto la tua opinabilissima e del tutto indimostrata opinione
Io ne ho una diversa, altrettanto opinabile e indimostrata
P.S. l'affermazione "sicuramente equivale a dimostrare" non mi appartiene, come ripetuto 56 volte imho siamo nel campo dell'ipotetico e dell'indimostrato.
Per contro, il voler credere a tutti i costi è altrettanto dogmatico al non voler credere a tutti i costi, no?
Last edited by bersiker1980; 06-10-2009, 16:48:08.
Edit, leggo ora "disturbo genetico casuale".
Ossia provocato dal caso.
Bene si rientra nella scelta 1): per te è frutto del caso.
Accetto la tua opinabilissima e del tutto indimostrata opinione
Io ne ho una diversa, altrettanto opinabile e indimostrata
P.S. l'affermazione "sicuramente equivale a dimostrare" non mi appartiene, come ripetuto 56 volte imho siamo nel campo dell'ipotetico e dell'indimostrato.
Per contro, il voler credere a tutti i costi è altrettanto dogmatico al non voler credere a tutti i costi, no?
non mi sto focalizzando sull'interpretazione del dolore nell'esistenza umana, quanto piuttosto sul significato di un'esistenza in cui il dolore non sia una variabile più o meno temporanea, ma costante: il malato di fibrosi cistica grave, che campa un paio di decenni tra atrocità tra casa ed ospedalizzazioni continue, per poi morire lentamente soffocato prima dei 30 anni...ecco, un'esistenza non con un contorno di sofferenza, ma la cui variabile principale sia la sofferenza stessa, come si giustifica nella concezione di un dio buono ed onnipotente? mah...
Mi sembra allora che tu ponga la questione in questi termini (li distinguo perché ognuno può essere affrontato indipendentemente dagli altri e, di fatto, accade nel progresso del pensiero umano anche se, mi sembra di cogliere, tu ritieni che sia un argomento di cui si preferisca non trattare):
1) consideri il "senso" di una "vita la cui variabile principale sia la sofferenza stessa";
2) in seconda lettura, cerchi il "senso" (o la risposta) alla "vita la cui variabile principale sia la sofferenza stessa" dalle religioni;
3) quando poi esse ti propongono un "Dio buono" perdi speranza di soddisfazione.
Il punto 1) pone una questione a prescindere dal discorso religioso. Il tuo parere (e forse quello di altri) è, mi sembra di capire, che una "vita la cui variabile principale sia la sofferenza stessa" tale senso non ce l'abbia (o almeno non lo riconosci).
Qui io focalizzerei l'attenzione su aspetti della sofferenza forse spesso trascurati:
- la sofferenza non è un "male" in sé e a prescindere: come indicavo nell'altro post, il rapporto umano con la sofferenza è radicato nella cultura e nell'antropologia oltre che nell'esclusiva soggettività; in definitiva è cioè inestricabilmente parte della condizione umana (duratura o meno che sia) e ha significato individuale;
- il significato di "sofferenza" è determinato dalla nostra personale risposta ad essa: se essa "abiliti" o "degradi" il significato di vita è conseguenza della "reazione" (per quanto possibile) umana;
- a seconda di come sia vissuta, la sofferenza (duratura o meno che sia) può servire come sorgente di forza e può rappresentare un significato di valore.
In definitiva, se la sofferenza (duratura o meno che sia) abbia un "senso", a prescindere dal suo significato religioso, è l'individuo sofferente a determinarlo (senza togliere che questa reazione può avere anche ripercussioni sociali).
Nel punto 2) ti aspetti giustamente che le religioni affrontino, più di chiunque altro, la questione (anche se temi che in realtà non abbiano risposte). In effetti il tema della sofferenza è centrale in praticamente tutte le religioni (Occidentali ed Orientali) e ognuna, alla luce del punto 1), caratterizza ulteriormente il significato di sofferenza.
Nel Cristianesimo tale caratterizzazione raggiunge l'apice quando si parla di Sofferenza Divina. La sofferenza umana (duratura o meno che sia) è pertanto ricondotta al Simbolo della Croce e al suo valore Remissivo (il significato di sofferenza come "espiazione di colpe" è più propriamente una "concezione protestante"; in ambito cattolico la questione andrebbe ben chiarita nei termini, ma di questo abbiamo già discusso in altri thread).
Nel punto 3) poni inconciliabili (con quel "mah...") il concetto di "Dio buono" e sofferenza. Alla luce del punto 1) e 2), parlando in particolare di Cristianesimo, è facile vedere che il concetto di "Dio Buono", che ha la manifestazione nel Cristo (e nel suo Corpo Mistico), e il concetto di Sofferenza, che ha manifestazione nella Croce di Cristo, sono perfettamente compatibili e, inoltre, storici.
In definitiva, alla luce delle risposte ai punti 1) 2) e 3), questa tua conclusione/opinione riguardo il rapporto religione-sofferenza: "la scelta più onesta intellettualmente è l'agnosticismo" mi sembra piuttosto azzardata.
Nel punto 3) poni inconciliabili (con quel "mah...") il concetto di "Dio buono" e sofferenza. Alla luce del punto 1) e 2), parlando in particolare di Cristianesimo, è facile vedere che il concetto di "Dio Buono", che ha la manifestazione nel Cristo (e nel suo Corpo Mistico), e il concetto di Sofferenza, che ha manifestazione nella Croce di Cristo, sono perfettamente compatibili e, inoltre, storici.
In definitiva, alla luce delle risposte ai punti 1) 2) e 3), questa tua conclusione/opinione riguardo il rapporto religione-sofferenza: "la scelta più onesta intellettualmente è l'agnosticismo" mi sembra piuttosto azzardata.
Io sarò strano, ma alla luce dei punti 1) 2) 3) credo ancora fermamente che la scelta dell'agnostico sia quella più onesta intellettualmente, non trarre conclusioni personali ed affrettate.
Poi, in particolare il punto 3) il fatto che dio o gesù abbiano fatto delle buone azioni sono condizione necessarie, ma non sufficienti a riconoscerli come esseri totalmente buoni, giusti, miserevoli.
Dopotutto anche Totò Reina avrà regalato in qualche punto della sua vita un fiore ad una ragazza, avrà offerto un caffè ad un amico, ma.....
Io sarò strano, ma alla luce dei punti 1) 2) 3) credo ancora fermamente che la scelta dell'agnostico sia quella più onesta intellettualmente, non trarre conclusioni personali ed affrettate.
Quando una religione non vede contraddizione o cattiva posizione nei concetti di Dio (buono) e di Sofferenza, come appunto accade nel Cristianesimo per i motivi che ho cercato di indicare velocemente, ogni posizione agnostica perde in questo contesto valore.
L'agnostico dovrebbe spiegare accuratamente perché il concetto di Dio (buono) e di sofferenza umana sono presentati in maniera incompatibile da giustificare una sospensione del giudizio. Non dire: "siccome ci sono tante posizioni (molte delle quali evasive) e non me ne piace nessuna allora non ha senso porsi la questione di Dio".
Essere agnostico rappresenta una posizione piuttosto radicale e significativa che richiede una cultura teologica non indifferente, probabilmente maggiore di quella di un credente o di un ateo.
Il discorso, in parole povere, è questo: la sofferenza umana non esclude il concetto di Dio né inficia la sua definizione. Quindi non può essere portato come argomentazione né dagli atei, né dagli agnostici.
Originariamente Scritto da Sergio
Poi, in particolare il punto 3) il fatto che dio o gesù abbiano fatto delle buone azioni sono condizione necessarie, ma non sufficienti a riconoscerli come esseri totalmente buoni, giusti, miserevoli.
Dopotutto anche Totò Reina avrà regalato in qualche punto della sua vita un fiore ad una ragazza, avrà offerto un caffè ad un amico, ma.....
Il punto 3) tocca il rapporto Dio Sofferenza, più che la bontà divina.
Il Cristianesimo assume la bontà divina in quanto esplicitamente rivelata (fa quindi parte della sua "definizione" di Dio). Come questo bontà si ripercuota nell'Opera di Dio è tutt'altro paio di maniche.
gary io più ti leggo e più maledico l' alfabetizzazione, la democrazia e la rivoluzione francese, tu dovevi coltivare il tuo manso in padania dietro un affitto che dovevi al tuo signore.
Originariamente Scritto da Bad Girl
ho sempre pensato che tu hai proprio bisogno di prenderlo di più,scusami se te lo dico ma ricordi me ai tempi della tristezza..per me puoi cambiare, se ce l'ho fatta io.. puoi farcela anche tu
Originariamente Scritto da gorgone
ma manca la verità più vera, le donne non vanno ascoltate, ma virilmente guidate.
Ma il bambino che nasce in quel posto dell'africa nera, e, tra stenti vari, finisce col morire di fame a 8-10 anni, che "senso ha"?
E' la vecchia storia del dio è o buono od onnipotente, ok. La risposta della chiesa è che "in quanto limitati, non possiamo sapere se quel bambino è effettivamente più fortunato di noi". Quindi sto bambino si becca uno posto in paradiso, ma è dovuto adandare attraverso sta vita di sofferenza e stenti?....a che pro? Dio non se la poteva risparmiare sta messa al mondo?
"eh ma noi non possiamo capire....siamo limitati....": una facile via d'uscita, easy way out, questa canonica risposta...
Il punto è: ammesso che Dio esista in che modo dovrebbe influire sulla nostra esistenza?
Se la sofferenza è un concetto che non "riguarda" l'onnipotente, si può ancora credere nella giustizia divina?
Perchè poi Dio avrebbe dovuto creare la sofferenza e le ingiustizie?
Solo per sadico gusto di giudicarci?
"tu hai sofferto puoi entrare... no, tu no, sei stato un cattivone ecc...
Originariamente Scritto da Leonida
gary io più ti leggo e più maledico l' alfabetizzazione, la democrazia e la rivoluzione francese, tu dovevi coltivare il tuo manso in padania dietro un affitto che dovevi al tuo signore.
Originariamente Scritto da Bad Girl
ho sempre pensato che tu hai proprio bisogno di prenderlo di più,scusami se te lo dico ma ricordi me ai tempi della tristezza..per me puoi cambiare, se ce l'ho fatta io.. puoi farcela anche tu
Originariamente Scritto da gorgone
ma manca la verità più vera, le donne non vanno ascoltate, ma virilmente guidate.
Mi sembra allora che tu ponga la questione in questi termini (li distinguo perché ognuno può essere affrontato indipendentemente dagli altri e, di fatto, accade nel progresso del pensiero umano anche se, mi sembra di cogliere, tu ritieni che sia un argomento di cui si preferisca non trattare):
1) consideri il "senso" di una "vita la cui variabile principale sia la sofferenza stessa";
2) in seconda lettura, cerchi il "senso" (o la risposta) alla "vita la cui variabile principale sia la sofferenza stessa" dalle religioni;
3) quando poi esse ti propongono un "Dio buono" perdi speranza di soddisfazione.
Il punto 1) pone una questione a prescindere dal discorso religioso. Il tuo parere (e forse quello di altri) è, mi sembra di capire, che una "vita la cui variabile principale sia la sofferenza stessa" tale senso non ce l'abbia (o almeno non lo riconosci).
Qui io focalizzerei l'attenzione su aspetti della sofferenza forse spesso trascurati:
- la sofferenza non è un "male" in sé e a prescindere: come indicavo nell'altro post, il rapporto umano con la sofferenza è radicato nella cultura e nell'antropologia oltre che nell'esclusiva soggettività; in definitiva è cioè inestricabilmente parte della condizione umana (duratura o meno che sia) e ha significato individuale;
- il significato di "sofferenza" è determinato dalla nostra personale risposta ad essa: se essa "abiliti" o "degradi" il significato di vita è conseguenza della "reazione" (per quanto possibile) umana;
- a seconda di come sia vissuta, la sofferenza (duratura o meno che sia) può servire come sorgente di forza e può rappresentare un significato di valore.
In definitiva, se la sofferenza (duratura o meno che sia) abbia un "senso", a prescindere dal suo significato religioso, è l'individuo sofferente a determinarlo (senza togliere che questa reazione può avere anche ripercussioni sociali).
Nel punto 2) ti aspetti giustamente che le religioni affrontino, più di chiunque altro, la questione (anche se temi che in realtà non abbiano risposte). In effetti il tema della sofferenza è centrale in praticamente tutte le religioni (Occidentali ed Orientali) e ognuna, alla luce del punto 1), caratterizza ulteriormente il significato di sofferenza.
Nel Cristianesimo tale caratterizzazione raggiunge l'apice quando si parla di Sofferenza Divina. La sofferenza umana (duratura o meno che sia) è pertanto ricondotta al Simbolo della Croce e al suo valore Remissivo (il significato di sofferenza come "espiazione di colpe" è più propriamente una "concezione protestante"; in ambito cattolico la questione andrebbe ben chiarita nei termini, ma di questo abbiamo già discusso in altri thread).
Nel punto 3) poni inconciliabili (con quel "mah...") il concetto di "Dio buono" e sofferenza. Alla luce del punto 1) e 2), parlando in particolare di Cristianesimo, è facile vedere che il concetto di "Dio Buono", che ha la manifestazione nel Cristo (e nel suo Corpo Mistico), e il concetto di Sofferenza, che ha manifestazione nella Croce di Cristo, sono perfettamente compatibili e, inoltre, storici.
In definitiva, alla luce delle risposte ai punti 1) 2) e 3), questa tua conclusione/opinione riguardo il rapporto religione-sofferenza: "la scelta più onesta intellettualmente è l'agnosticismo" mi sembra piuttosto azzardata.
no, richard, non sono paragonabili: gesù ha vissuto una vita piena e la sua morte in croce è durata qualche ora dando perlopiù pieno compimento al significato della sua parabola terrestre; è imparagonabile alla condizione di un poveraccio che nasce con fibrosi cistica grave, che soffre tutta la vita, di cui passa la maggior parte in ospedale ed infine, gradualmente, viene soffocato dalle sue stesse secrezioni bronchiali. ti assicuro che è imparagonabilmente più straziante, ed io non vi vedo alcun senso. ovverosia: morte in croce di cristo: dura qualche ora e da compimento stesso al significato della sua parabola esistenziale vs morte di un malato di fibrosi cistica grave: è come se iniziasse a morire da quando è nato, in un crescendo di agonia per un paio di decenni, senza che tutto ciò dia particolare compimento di senso alla sua vita
Quando una religione non vede contraddizione o cattiva posizione nei concetti di Dio (buono) e di Sofferenza, come appunto accade nel Cristianesimo per i motivi che ho cercato di indicare velocemente, ogni posizione agnostica perde in questo contesto valore.
L'agnostico dovrebbe spiegare accuratamente perché il concetto di Dio (buono) e di sofferenza umana sono presentati in maniera incompatibile da giustificare una sospensione del giudizio. Non dire: "siccome ci sono tante posizioni (molte delle quali evasive) e non me ne piace nessuna allora non ha senso porsi la questione di Dio".
Essere agnostico rappresenta una posizione piuttosto radicale e significativa che richiede una cultura teologica non indifferente, probabilmente maggiore di quella di un credente o di un ateo.
Il discorso, in parole povere, è questo: la sofferenza umana non esclude il concetto di Dio né inficia la sua definizione. Quindi non può essere portato come argomentazione né dagli atei, né dagli agnostici.
Il punto 3) tocca il rapporto Dio Sofferenza, più che la bontà divina.
Il Cristianesimo assume la bontà divina in quanto esplicitamente rivelata (fa quindi parte della sua "definizione" di Dio). Come questo bontà si ripercuota nell'Opera di Dio è tutt'altro paio di maniche.
di nuovo non mi trovo d'accordo: l'esser ateo, agnostico o credente non ha nulla a che fare con la cultura. la cultura è solo il filtro di cui alcuni di noi han bisogno per rapportarsi al metafisico, in dipendenza dal nostro background e contesto in cui siamo strutturati. ma la cultura nulla aggiunge o nulla toglie a quel tipo di scelta di campo cui stiamo parlando
no, richard, non sono paragonabili: gesù ha vissuto una vita piena e la sua morte in croce è durata qualche ora dando perlopiù pieno compimento al significato della sua parabola terrestre; è imparagonabile alla condizione di un poveraccio che nasce con fibrosi cistica grave, che soffre tutta la vita, di cui passa la maggior parte in ospedale ed infine, gradualmente, viene soffocato dalle sue stesse secrezioni bronchiali. ti assicuro che è imparagonabilmente più straziante, ed io non vi vedo alcun senso. ovverosia: morte in croce di cristo: dura qualche ora e da compimento stesso al significato della sua parabola esistenziale vs morte di un malato di fibrosi cistica grave: è come se iniziasse a morire da quando è nato, in un crescendo di agonia per un paio di decenni, senza che tutto ciò dia particolare compimento di senso alla sua vita
forse però dimentichi che Cristo è morto per sua scelta e non per malattia.
come Dio fatto uomo poteva benissimo decidere semplicemente di non soffrire o semplicemente di non morire in croce.
Ma ci ha voluto mostrare la strada per la salvezza e questo è un grandissimo gesto d'amore.
Filippesi 4:13 "Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica"
forse però dimentichi che Cristo è morto per sua scelta e non per malattia.
come Dio fatto uomo poteva benissimo decidere semplicemente di non soffrire o semplicemente di non morire in croce.
Ma ci ha voluto mostrare la strada per la salvezza e questo è un grandissimo gesto d'amore.
no, non lo dimentico e questo non fa che corroborare quello che penso: lui ha avuto sia la scelta di portare a compimento la sua missione esistenziale, sia la sua morte non è stata altrettanto altroce. il poveraccio con fibrosi cistica grave non se la sceglie, la sua morte lenta ed atroce non da un particolare compimento al significato della sua esistenza, inoltre è di molto più straziante di quella in croce. dunque, per me proprio non ci siamo
no, richard, non sono paragonabili: gesù ha vissuto una vita piena e la sua morte in croce è durata qualche ora dando perlopiù pieno compimento al significato della sua parabola terrestre; è imparagonabile alla condizione di un poveraccio che nasce con fibrosi cistica grave, che soffre tutta la vita, di cui passa la maggior parte in ospedale ed infine, gradualmente, viene soffocato dalle sue stesse secrezioni bronchiali. ti assicuro che è imparagonabilmente più straziante, ed io non vi vedo alcun senso. ovverosia: morte in croce di cristo: dura qualche ora e da compimento stesso al significato della sua parabola esistenziale vs morte di un malato di fibrosi cistica grave: è come se iniziasse a morire da quando è nato, in un crescendo di agonia per un paio di decenni, senza che tutto ciò dia particolare compimento di senso alla sua vita
Ora non voglio qui entrare nelle basi del Cristianesimo (anche se forse sarebbe necessario) e i confronti tra "la sofferenza di una crocifissione" e la "sofferenza per fibrosi cistica", ma mi soffermo semplicemente sul punto 1) che prescinde, come detto, dalle religioni. Allora ti pongo due quesiti diretti:
1) Quali sono i parametri che utilizzi per "confrontare le sofferenze" (a prescindere dalla durata, mi sembra tu la consideri fondamentale) e soprattutto il criterio per valutare l'individuale rapporto tra il soggetto sofferente e il senso che egli stesso conferisce alla propria vita? Sei sicuro che, anche nella sofferenza, il sofferente non esprima delle risorse sufficienti a dare il senso ad una vita?
2) Sei sicuro di non attuare un tuo personale schema (culturale e antropologico, forse tipicamente occidentale) nel dare significato alla sofferenza, non necessariamente condivisibile da tutte le società e da ogni individuo? (E qui torniamo al tuo "spirito che affiora con evidenza" di qualche post fa, la cui "evidenza" è invece tutt'altro che scontata.)
Originariamente Scritto da thetongue
di nuovo non mi trovo d'accordo: l'esser ateo, agnostico o credente non ha nulla a che fare con la cultura. la cultura è solo il filtro di cui alcuni di noi han bisogno per rapportarsi al metafisico, in dipendenza dal nostro background e contesto in cui siamo strutturati. ma la cultura nulla aggiunge o nulla toglie a quel tipo di scelta di campo cui stiamo parlando
Mentre posso parzialmente condividere sull'essere credente o ateo, non condivido assolutamente sull'essere agnostico, visto che non identifico l'agnostico come "colui che passivamente non conosce" (questo è l'ignorante, senza intento offensivo), ma come "colui che dopo aver valutato accuratamente le argomentazioni, non conosce soluzione". Implicando la valutazione e la decisione di sospensione del giudizio, l'atteggiamento agnostico richiede elevata cultura (in particolare teologica).
Chiarisco che, comunque, il mio senso di cultura vuole andare un po' oltre il concetto di "grado di istruzione".
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