Il valore del soldato italiano

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    Il valore del soldato italiano

    stufo di sentir dire degli italiani le peggior infamie,arcistufo di venir associato agli spaghetti quando sono all'estero trovo doveroso arginare la canea esterofila(al soldo di albione la maledetta) che sempre ci vuole relegatioa pastasciuttari di quart'ordine.



    abbiamo scritto grandi pagine di storia militare.
    ricordiamolo.


    Breve storia degli Arditi

    e dei Reparti d’assalto italiani

    nella Grande Guerra

    di Andrea Carlucci
    Io li vidi dunque per la prima volta una notte del settembre 1917, sul San Gabriele.
    Fiamme al bavero, giubba aperta, maglione col teschio, tascone pieno di petardi, un pugnaletto affilato, un piccolo corpo muscoloso di belva, due occhi neri e decisi, poche parole.
    …quello stuolo di demoni scatenati, fieri ed intrepidi, che venivano ad assaltare il truce nemico nei suoi insidiosi rifugi-labirinti, fece l’effetto di una ventata di liberazione: …
    …. Il loro assalto fu breve, improvviso, silenzioso, velocissimo. Senza fuoco d’artiglieria, senza allarmi, dopo un rapido scambio di ordini a bassa voce, come un gruppo di congiurati densi di distruzione, ognuno mosse alla sua meta; strisciò, balzo, colpì con una fulmineità, che non fece udire neppure il gemito delle vittime. Poi, nel mattino pallidissimo, insonne, febbrile, davanti alle caverne del “fortino” in cui era annidata una resistenza infernale, guizzarono i mostruosi lanciafiamme, irresistibili serpenti incandescenti che raggiungevano il nemico nei suoi recessi gli impedivano di usare le sue armi.
    L’azione degli arditi aveva del miracoloso, per la precisione, il silenzio, la sicurezza con cui era condotta.
    Non uno restava indietro. Il comandante (sempre un bel tipo di scavezzacollo) in testa, poteva avanzare tranquillo, perché i suoi uomini lo seguivano tutti, con una meccanica infallibile in cui ognuno era assegnato il suo piccolo settore di lotta, il suo austriaco da colpire.
    E l’azione riusciva sempre, alla perfezione.
    (tratto da ARDITISMO, Roma 1929)



    Esploratori e tagliafili
    Nel 1914, nell’ottica dell’adeguamento alle nuove dottrine belliche sviluppatesi a partire dalle campagne coloniali, furono creati in ogni reggimento della regia fanteria dei reparti di Esploratori, destinati a compiere azioni di sorpresa contro gli avamposti e dietro le prime linee del nemico,
    Ma la guerra di trincea stravolse il concetto bellico della guerra di manovra e schieramento in campo aperto ed i reticolati posti a protezione delle posizioni avversarie, imposero la creazione di reparti organizzati in piccole squadre di guastatori, che si avventuravano nella terra di nessuno i cosiddetti Tagliafili (con riferimento al filo spinato) equipaggiati con elmi d’acciaio e corazze a piastre mod. Farina, Corsi, Orfei, ecc., scudi mod Masera, Degree,ecc., pinze e cesoie (di tutti i tipi), stivaloni in gomma o cuoio, guanti di pelle e ginocchiere metalliche. Sotto l’equipaggiamento era indossata l’uniforme del reparto di appartenenza integrata dalla cuffia protettiva indossata sotto all’elmo mod. Farina o da un passamontagna utilizzato come imbottitura stessa, che dava loro l’aspetto di antichi guerrieri: tali reparti ebbero il nome di Volontari Esploratori o comunemente di Compagnie della Morte forse, secondo alcuni, in riferimento ai cavalieri medievali di Alberto da Giussano contrassegnati da un arme con teschio e tibie su campo nero che si erano distinti a Legnano contro il Barbarossa (1).

    Il soldato ardito
    Per premiare coloro che si fossero maggiormente distinti per decisione e per coraggio in azione sin dai primi mesi di guerra, il Comando Supremo aveva prescritto ai reggimenti di conferire la qualifica onorifica di Ardito per riunirli all’occorrenza in plotoni speciali, Le prime compagnie di Arditi dunque si costituirono spontaneamente, quando la tattica stava ricercando il modo con cui uscire dalla stasi sanguinosa della guerra di posizione, molto prima che l’avversario austroungarico su imitazione tedesca concepisse le sopravvalutate Stosstrupp.
    Così, a mano a mano che si svolgevano le azioni e avvenivano gli episodi nei quali i soldati potevano distinguersi, offrendosi volontari per porre tubi di gelatina o ca.tu.gel nei reticolati avversari, per far parte di pattuglie di ricognizione nella terra di nessuno, per partecipare a qualche audace colpo di mano nelle trincee nemiche.
    Ciascuno dei nostri reggimenti poté ben presto fare assegnamento su un nucleo sempre più numeroso di soldati Arditi.

    I reparti di assalto
    Nell’ottobre 1915,su autorizzazione del Comando Supremo, il Capitano Cristoforo Baseggio costituì sotto il suo comando, in Trentino, nella Valle Sugana, presso Strigno, una compagnia autonoma di Esploratori Arditi, formata da uomini di diversa estrazione,da tutte le regioni d’Italia, in una specie di formazione di volontari di ogni età ed ogni arma legati da spirito volontaristico di stampo risorgimentale L’unità ebbe una forza complessiva di 13 ufficiali, 450 militari di truppa e 120 conducenti e si distinse subito in diverse operazioni di pattugliamento e in colpi di mano come in quello attuato a Sant’Osvaldo, il 6 aprile 1917, dove si lasciaro sul campo 190 avversari caduti.
    Ma la costituzione effettiva della nuova Specialità della Fanteria italiana è rappresentata dalla Circolare del Comando Supremo datata 14 marzo 1917, nella quale si illustrano le caratteristiche delle Stosstruppaustro-ungariche al fine di stimolare la nascita di analoghe unità in campo italiano, ma va sottolineato che i Reparti d’assaltoche da allora iniziarono a nascere avevano caratteristiche di indubbia originalità, infatti i Reparti d’assaltonacquero e si svilupparono come corpo a sé stante, differenziato dalla Fanteria, caratterizzandosi da uno spirito di corpo elevatissimo che ne esaltava le possibilità di sfruttamento. Diversamente i cosidetti Arditi reggimentali si potevano raffrontare alle Sturmtruppencome impostazione generale ovvero come unità d’urto interna combattenti del reparto di appartenenza. Truppecon le quali ovviare all’insufficiente addestramento della massa nei momenti critici del combattimento, ma prive del ruolo autonomo tipico dei Reparti d’assalto.
    L’uniforme di questo nuovo combattente era costituita da giubba aperta da bersagliere ciclista, con fiamme nere sul bavero e maglione grigio verde (o di colore nero) a collo rovesciato al posto del colletto chiuso (poi sostituito da una camicia di flanella col colletto rovesciato), fez come quello dei bersaglieri a fiocco breve e di colore nero e pantaloni per truppe alpine mod.1909, fasce mollettiere frequentemente sostituita da calze di lana; mentre l’equipaggiamento era rappresentato da: elmetto, giberne, mantellina e tascapane.
    Il distintivo della specialità veniva applicato secondo il regolamento al braccio sinistro della giacca ma metà tra la spalla ed il gomito. In alcuni casi si rileva la posizione sul braccio destro o addirittura sul copricapo.
    Si trattava di un filo nero su stoffa grigioverde composto da un gladio romano munito di un pomo a testa di leone con il motto sabaudo FERT sull’elsa il tutto coronato entro un serto d’alloro e quercia.
    Le armi di elezione degli Arditi per il combattimento ravvicinato furono rappresentate dal pugnale e dal petardo Thevenot. Quest’ultimo fu scelto dal Bassi perché era una bomba a mano dal limitato effetto di frammentazione ma dal forte scoppio, ideale per l’uso in attacco perché limitava i rischi per l’assaltatore ma provocava panico e scompiglio sul bersaglio.
    Inoltre venivano introdotte nei reparti (oltre a pistole, fucili, mitragliatrici e bombe a mano già in uso presso la nostra fanteria) anche rilevanti aliquote di pistole mitragliatrici (modello Fiat Revelli), lanciatorpedini modello Bettica (successivamente sostituiti dai più moderni ma pesanti Stokes), lanciafiamme; nonchè camion (i famosi 18 BL Fiat e modelli simili) per il trasporto delle truppe direttamente sul campo di battaglia.
    In seguito succederà che, formandosi reparti d’assalto solo con elementi provenienti dalla specialità, bersaglieri o alpini, questi manterranno le mostrine originarie, cremisi i primi e verdi i secondi, avendo come nuove definizioni rispettivamente quella di fiamme cremisi o fiamme verdi.
    Con una circolare del 26 giugno 1917 il Comando Supremo dispose la formazione di "reparti d’assalto" nell’ambito di ognuna delle Armate. La prima a dare riscontro a tale ordine fu la 2^ Armata del Generale Capello, sotto la spinta propulsiva del Generale Grazioli, Comandante della Brigata Lambro, e del Tenente Colonnello Giuseppe Alberto Bassi, Comandante di un battaglione di fanteria che si era già distinto nella ricerca e sperimentazione di nuove tecniche di combattimento. Quest’ultimo, costituì, a Russig, nelle retrovie di Gorizia, una compagnia speciale che nel corso di una dimostrazione ottenne l’ammirato plauso del Generale Capello stesso. Successivamente, dopo una serie di ricognizioni, fu individuata una nuova sede per l’unità, sulla riva destra del Natisone, qui a Sdricca di Manzano, presso Udine il 29 Luglio 1917 nacquero ufficialmente gli Arditi.
    Il Capitano Cristoforo Baseggio riuscì, grazie all’appoggio dello Stato Maggiore, a creare una Compagnia che fu chiamata: “Compagnia Esploratori Volontari Baseggio” che è da considerarsi ufficialmente il primo Reparto Autonomo di Arditi di Guerra. Forte di tredici ufficiali, quattrocento graduati e militari di truppa, dotati di due sezioni di mitragliatrici e tatticamente alla diretta dipendenza del Comando di Corpo d’Armata.
    Successivamente, quegli uomini che si gettavano nella battaglia con un ardimento da lasciare sbigottiti, furono chiamati Arditi o anche Fiamme Nere (dalle mostrine che portavano sul bavero della divisa).
    Le nuove Compagnie della Morte ovvero i reparti d’assalto, attraverso la simbologia della morte (il teschio) condivisa tra l’altro dagli assaltatori austro-ungarici e delle virtù militari romane (il gladio coronato dai serti di fronde) presenti sui fregi e sulle insegne dei reparti.

    Fu a Manzano, presso cui era possibile dare il massimo realismo agli addestramenti, che il Reparto d’assalto ottenne il battesimo ufficiale il 29 luglio del 1917, alla presenza del Re (la data rimase a celebrare la nascita del Corpo). A Sdricca di Manzano, fu quindi la "culla" della nuova Specialità, l’addestramento era condotto con serietà e spregiudicatezza: molta ginnastica, lotta corpo a corpo con armi e senza, lezioni di lancio di bombe a mano e tiri con fucile, lanciabombe, lanciafiamme e mitragliatrice. L’iter addestrativo culminava con l’assalto ad una collina tipo, che gli Arditidovevano realisticamente assaltare sotto il fuoco di mitragliatrici e cannoni.
    La fama di maestria nell’uso di queste armi, concepite e sviluppate per violente azioni a contatto, conferirono agli Arditi una temuta fama presso le fanterie nemiche, che li temevano più di ogni altro tipo di unità del nostro esercito.

    In un secondo, tempo i Reparti d’Assalto ormai inquadrati, dal 10 Giugno del 1918 con nove battaglioni nella Prima Divisione d’Assalto e il 27 Giugno con la Seconda Divisione d’Assalto, erano impiegati nelle azioni più rischiose. Furono in ogni modo i primi a rivoluzionare e a rendere più elastico il concetto della disciplina, soprattutto in funzione del conseguimento di determinati obiettivi e scopi tattici.
    Un ulteriore motivo di decisiva differenziazione dalle altre Specialità fu costituito dal livello di motivazione che gli Arditi dovevano esprimere fin dalla loro entrata nel Corpo in quanto il passaggio ai battaglioni d’assalto non poteva avvenire che dietro presentazione di esplicita domanda dell’interessato e una volta accertata l’idoneità del militare, a seguito di un periodo di prova.
    E’ significativo osservare lo spirito di corpo che venne così a crearsi generava nell’animo del combattente, il superamento della paura e dell’esitazione sul campo di battaglia, rendendo l’unità di appartenenza un’entità compatta e flessibile.
    Tale spirito di corpo fu spesso motivo di sospetto ed invidia da parte degli estranei alla specialità.
    I reparti d’assalto furono creati non a integrazione della Fanteria (a differenza di quanto avveniva nelle unità avversarie), della quale si percepiva un insufficiente livello addestrativo nonostante l’impareggiabili prestazioni, quanto in marcata contrapposizione al normale combattente. Pertanto, fu curata la nascita di uno specifico spirito di corpo che sottolineasse l’idoneità degli Arditi ad assolvere ai più difficili compiti della guerra di trincea, offrendo un modello positivo ed attivo di combattente, da contrapporre alla mentalità passiva tipica della guerra di posizione che si era affermata. Per marcare inequivocabilmente tale differenza, agli Arditi furono riservati undiverso trattamento ed anche una diversa divisa. Gli Arditi, infatti, furono esentati dai turni in trincea, ebbero migliore vitto ed alloggio, un soprassoldo e, soprattutto, un regime disciplinare meno rigido e formale.
    Dopo la cosiddetta disfatta di Caporetto, la disciplina era allentata anche tra gli Ufficiali e le dotazioni dell’unità erano scarse. Anche sotto il profilo addestrativo la situazione lasciava a desiderare e vi era una marcata carenza di personale. A febbraio, il comando fu assegnato ad un giovane ed energico Ufficiale il maggiore Messe, che rilanciò l’addestramento e ripianò le carenze logistiche. Reimpostò l’addestramento sulla base delle esperienze di Sdricca, mediante molta ginnastica, esercitazioni di tiro ripetute e frequenti, esercitazioni a fuoco con assalti sotto il cosiddetto arco delle traiettorie di tiro. Tale ritmo addestrativo, che provocò un morto, ottenne i risultati voluti, caratterizzando il reparto per una sagace disciplina all’italiana, quasi completamente basata sulla stima e l’affetto per il superiore. Tale reparto cambiò numerazione e, abbandonato il VI, diede vita al IX Reparto d’Assalto che si copri successivamente di gloria sul Grappa nel 1918.

    I "caimani del Piave" ed il loro addestramento
    Gli atti di eroismo di cui furono protagonisti gli Arditi sono innumerevoli e nella maggior parte leggendari. Sono famosi gli episodi di Arditi (i leggendari Caimani del Piave) che varcarono il Piave a nuoto per andare a neutralizzare gli avamposti nemici sulla sponda opposta, vestiti dei soli calzoncini da bagno, per permettere ad ognuno la maggiore libertà di movimento possibile……
    Per la loro formazione al corpo a corpo qualcuno deve essersi ricordato di militari della Marina già destinati in Estremo Oriente negli anni dell’inizio secolo, qualificati esperti di jujutsu o judo, e alcuni di questi, secondo quanto il Comandante dei Caimani Vittorio Tur raccontava agli allievi delle Scuole di Pola nel 1928, dovevano essere stati utilizzati per il particolare addestramento che veniva impartito ai "caimani".
    Il nipote di uno di essi, Elio Dessì di Guspini (CA), che ne ha raccolto la testimonianza, ci ha confermato l’effettiva presenza sulla linea del Piave di tali uomini, che armati di solo coltello raggiungevano la sponda avversaria per neutralizzare le postazioni di mitragliatrice: per tali azioni i soldati in particolare quelli di origine sarda, non preferivano utilizzare il pugnale di dotazione essendo difficile aggredire l’avversario alla gola (causa il colletto di stampo ottocentesco dell’uniforme austriaca) pertanto venivano utilizzati modelli regionali (in questo caso il Pattada) che per la forma acuminata che permetteva un efficace risultato nella penetrazione del collo dell’avversario.
    Sempre seconda testimonianza il soprannome dell’unità deriverebbe dalla tecnica di nuoto adottata ed ispirata agli alligatori ovvero esponendo dall’acqua, solamente la testa al di sopra delle narici.
    Questo per i precursori dei nostri reparti nuotatori.

    Una testimonianza assai significativa.
    Ernest Heminguay volontario ambulanziere del battaglione dei poeti li conobbe molto bene e ne cantò le gesta in un racconto a lungo rimasto inedito.
    Il prof. Cecchin nella sua lunga ricerca sull’opera dello scrittore legata alla Grande Guerra ha raccolto la testimonianza di reduci di reparti americani che affermavano che nella seconda guerra mondiale i metodi di addestramento dei marines erano stati tratti direttamente dai manuali di addestramento degli arditi: infatti fu il XXIII° Reparto d’assalto fiamme cremisi, che aveva addestrato il contingente presente in Italia nel 1918.

    Il dopoguerra:
    Con Decreto del 5 giugno 1920 (Senza Numero), Vittorio Emanuele III concesse la Croce di Cavaliere dell’ORDINE MILITARE DI SAVOIA all’Arma di Fanteria. In applicazione del citato Decreto il Re autorizzò diversi reggimenti a fregiare delle relative insegne i rispettivi labari e bandiere, tra cui il XXIII° Reparto d’Assalto per sé e per tutti gli altri reparti d’assalto.
    Coloro che appartennero alla specialità dal 1917 (anno della fondazione dei Reparti d’Assalto) costituirono la F.N.A.I. (Federazione Nazionale Arditi d’Italia) costituta dopo lo scioglimento dei Reparti d’Assalto (1920), voluta essenzialmente per motivi di politica interna al Regio Esercito, episodio destinato a ripetersi anche nell’immediato secondo dopoguerra.

    IL CANTO DEGLI ARDITI
    Mamma non piangere se c'è l'avanzata,
    tuo figlio è forte dall'alto dei cuor
    asciuga il pianto della fidanzata,
    chè nell'assalto si vince o si muor.

    Avanti Ardito, le Fiamme Nere
    son come simbolo delle tue schiere
    scavalca i monti, divora il piano
    pugnal fra i denti, le bombe a mano.

    Fiamme Nere avanguardia di morte,
    siam vessillo di lotta e di orror,
    siamo l'orgoglio trasformato in coorte,
    per difender d'Italia l'onor.

    Avanti Ardito, le Fiamme Nere
    son come simbolo delle tue schiere
    scavalca i monti, divora il piano
    pugnal fra i denti, le bombe a mano.

    Una stella ci guida, la sorte,
    e ci avvincon tre fiamme d'amor,
    tre parole di fede e di morte:
    il pugnale, la bomba ed il cuor.

    Avanti Ardito, le Fiamme Nere
    son come simbolo delle tue schiere
    scavalca i monti, divora il piano
    pugnal fra i denti, le bombe a mano.

    L'ardito è bello, l'ardito è forte!
    ama le donne, beve il buon vin;
    per le sue fiamma color di morte
    trema il nemico quando è vicin!

    Avanti Ardito, le Fiamme Nere
    son come simbolo delle tue schiere
    scavalca i monti, divora il piano
    pugnal fra i denti, le bombe a mano.

    Quante volte fra tenebre folte,
    nella notte estraemmo il pugnal
    fra trincee e difese sconvolte
    dalla mischia cruenta e fatal!

    Avanti Ardito, le Fiamme Nere
    son come simbolo delle tue schiere
    scavalca i monti, divora il piano
    pugnal fra i dent
    i, le bombe a mano.
    "Nulla è gratuito in questo basso mondo. Tutto si sconta, il bene come il male, presto o tardi si paga. Il bene è necessariamente molto più caro."

    L.F.Celine
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    #2
    FIUME SACRO
    Gli arditi provenienti dai Bersaglieri si distinguono con
    audaci colpi di mano durante la resistenza sul Piave

    </B>
    La ripresa dell'offensiva italiana dopo Caporetto fu caratterizzata dall'impiego dei nuovi reparti speciali d'assalto che, creati nei mesi precedenti lo sfondamento del fronte, avevano
    avuto modo di organizzarsi e mettere a punto le proprie particolarissime tecniche offensive.
    Erano reparti di volontari, selezionati con estrema cura fra i migliori elementi e sottoposti a
    un addestramento, a una disciplina severissima ed implacabile. Nacquero così gli arditi, la cui epopea doveva entrare nella leggenda della storia militare di tutti i tempi, antesignani di quei reparti di "commandos" destinati a imporsi , vent'anni più tardi , durante la seconda guerra mondiale. Gli arditi si dividevano in tre gruppi :quelli provenienti dai bersaglieri avevano assunto il nome di " fiamme cremisi" o " rosse" chi arrivava dalla fanteria era invece inquadrato nelle " fiamme nere" chi infine proveniva dagli alpini veniva destinato alle " fiamme verdi". Ogni reparto era formato da seicento uomini ordinati su tre compagnie di duecento elementi: tutti indistintamente , bersaglieri, fanti o alpini, portarono ai vertici dell'autentica sublimazione i principi ispiratori che avevano suggerito a La Marmora le caratteristiche del Corpo dei bersaglieri: velocità, audacia, estrema mobilità, spirito d'iniziativa. Gli Arditi vennero impiegati in colpi di mano che sorpresero il nemico per la loro temerarietà ed efficacia: pugnale e bombe a mano erano le armi preferite, ma anche il fucile e la mitragliatrice, ove occorresse, usati con micidiale esattezza.

    Nacque allora la canzone:" Noi siam le fiamme rosse,
    noi siam le fiamme nere, noi siam le prime schiere a
    vincere..... o morir ".
    Quando, dopo la rotta di Caporetto, l'esercito italiano
    si attestò sulla sponda occidentale del Piave, furono
    proprio gli arditi a condurre le prime azioni offensive
    contro il nemico . Passavano il fiume di notte, pugnale
    fra i denti, assalivano le sentinelle
    avversarie,catturavano armi, facevano saltare postazioni, studiavano da vicino lo schieramento nemico e ritornavano fra le linee con preziose informazioni per i comandi. A ragione vennero battezzati " i caimani del Piave": gli austriaci erano terrorizzati dalle loro insidie sempre imprevedibili e spesso mortali. I reparti di arditi formati da bersaglieri furono tre: il 26°, leggendario, costituito nel luglio 1917 e comandato, fino alla vittoria del 4 novembre 1918, da quel magnifico soldato che era Aminto Caretto; il 23°, nato il 10 ottobre 1917, alla cui guida si succedettero tre comandanti: il maggiore Domenico Mondelli, il capitano Francesco Marotta e il maggiore Lorenzo Allegretti; il 72°, formato il 1° maggio 1918 e successivamente affidato al comando del
    </B>
    capitano Ettore Marchand, del tenente colonnello Vittorio Baldini e del tenente colonnello
    Luigi Ubertolli. Il capitano Marchand scomparve nell'esposione di una granata avversaria di
    grosso calibro. L'azione degli arditi non fu preziosa soltanto sul Piave ma in molti altri punti
    nevralgici del fronte che l'esercito italiano era chiamato a sostenere dopo il repentino e
    travolgente avanzare delle armate austroungariche. Il Grappa, l'altopiano di Asiago, il Montello e tutta la zona collinare circostante ebbero negli arditi i reparti risolutori di molte e
    in genere decisive situazioni.
    Ed ecco le pagine significative scritte da un cappellano, padre Reginaldo Giuliani, che visse dal nascere le vicende di questi soldati:" La prova delle reclute era terminata: le file s'erano
    quotidianamente assottigliate e poi rimpolpate di nuovi elementi in modo da costituire un
    battaglione organico. Perciò si poteva iniziare l'istruzione tecnica delle truppe d'assalto.
    Questa consiste essenzialmente nell'ammaestrare e prender contatto immediato e soverchiante
    coll'avversario: l'assalto della trincea opposta, del nido di mitragliatrici, l'a corpo a corpo
    sono compito dell'ardito: il pugnale e le bombe a mano le sue armi naturali. La bomba a mano
    sopratutto è l'arma ordinaria per offesa e difesa, quindi con essa l'ardito deve avere la stessa
    dimestichezza che ha cogli oggetti più familiari, colle sigarette e col pane. In un'ansa di terreno formato da una voluta del Sile si custruì un poligono per il lancio delle bombe.
    Le compagnie vi si avvicendavano quotidianamente: gli uomini in piedi , senza alcun riparo,
    lanciavano il petardo contro l'ostacolo segnato e lo rincorrevano immediatamente in modo che
    le loro persone si mescolavano al fumo prodotto dalle esplosioni. Spesso i terribili " Thevenot"
    ( i petardi più comunemente in uso presso di noi) con esplosioni premature o tardive fecero
    stragi della nostra carne: il capitano Rota, intelligente gentiluomo, caro ai colleghi, amatissimo
    dai soldati, e il tenente Palopoli, vecchio ardito che portava in viso i brutti segni della gente del
    Mezzogiorno e nell'anima l'ardore dei vulcani, si buscarono alcune ferite che li resero fatalmente inabili ad ogni servizio di guerra : i tenenti Bocaccini e Fadigati furono pure colpiti.
    Ad alcuni soldati le sottili scheggie del petardo tolsero loro la vita." Questa era, in sostanza, la
    preparazione degli arditi. Quanto al loro impiego gli episodi non si contano:a cominciare dal
    26° battaglione del capitano Caretto. Il battaglione era stato il primo reparto speciale d'assalto
    ad essere costituito, nell'ambito del V Corpo d'armata con uomini provenienti dalla 4° brigata
    bersaglieri già inseriti in formazioni speciali, e con il reclutamento di volontari scelti nella
    stessa brigata fra i bersaglieri del 14° e 20° reggimento. Erano tutti esperti alla guerra, con alle
    spalle le battaglie delCarso e del Trentino. Il battaglione aveva un distintivo :una daga romana
    attorniata da fronde di quercia e d'alloro, con il motto sabaudo Fert.
    Anima di questa formazione era il giovane capitano Aminto Caretto, piemontese, che aveva già
    formato una compagnia di arditi reggimentali e che aveva anche comandato eroicamente la 70°
    compagnia bersaglieri. Conclusa la preparazione il 26° venne inviato in prima linea e iniziò
    l'attività di guerra con ricognizioni, appostamenti e pattuglie. Verso la fine di agosto del 1917
    arrivò l'ordine di espugnare i roccioni di Monte Maio, a 1500 metri di quota, nella zona a est di
    Rovereto. Il 26° partì all'attacco, di sorpresa, nella notte del 23 agosto, ma il fortuito incontro
    con un pattuglione austriaco svento il piano e provocò un'immediata , durissima reazione delle
    difese austriache. I plotoni rientrarono all'alba, con forti perdite, impiegando l'intera giornata
    a riorganizzarsi e ripartendo poi la sera stessa. Una pattuglia, comandata dal sergente maggiore
    Cottone avanzò frontalmente con un nutrito fuoco di fucileria e lanzio di bombe a mano al fine di
    attirare da quella parte l'attenzione del nemico. Sulla sinistra, intanto, avanzarono i tenenti
    Bordignon e Lollini con i loro uomini, e diedero inizio alla scalata dell'impervio sperone di roccia . L'operazione riuscì in pieno: i bersaglieri formarono una piramide umana abbarbicata
    alla parete rocciosa , uno sulle spalle dell'altro, fino alla vetta dove annientarono le vedette e
    irruppero mettendo in fuga l'avversario. Dalla zona del Pasubio, il 26° venne trasferito , a tappe
    sui colli tra Cividale e Caporetto , proprio alla vigilia delle funeste giornate dell'ottobre 1917.
    Il capitano Caretto era all'ospedale , malato di tifo, molti ufficiali erano morti, il battaglione di
    arditi era ridotto al lumicino, ma nonostante questo quegli uomini seppero eroicamente sostenere l'onore della Patria. Poche pagine del diario di uno di loro rendono con drammatica
    vivezza la situazione:" 24 ottobre. Alla sera giunse l'ordine di trasferimento da Cepletischis nel
    paese di Goboli onde rinforzare il 20° bersaglieri. La prima compagnia al comando del tenente
    Gattu e la seconda col tenente Sergardi si portarono a sud del paese suddetto , la 3° compagnia
    e la sezione Bettica al comando del sottotenente Buozzi rimangono di riserva. Verso le 23 si tenta
    la rioccupazione del paese e delle trincee che vanno a nord-est. La prima compagnia attacca
    frontalmente, mentre la seconda deve proteggere la destra occupando le alture dominanti; sulla
    sinistra deve agire un reggimento di bersaglieri. Alle 23.30 le compagnie iniziano il movimento
    prendendo subito contatto con il nemico: la destra avanza oltre le batterie sino al ciglio delle
    colline. Il fuoco delle mitragliatrici nemiche è intenso e fa strage nelle nostre file. All'alba
    i bersaglieri sono costretti a ritirarsi sulle posizioni di partenza". 25 ottobre. Verso le ore otto
    il nemico attacca risolutamente ma non riesce a sfondare la linea tenuta dal reparto. Si ha quindi
    una calma relativa durante la quale qualche nostra pattuglia molesta il nemico. Sull'imbrunire
    i tedeschi vengono in forze al contrattacco e costringono i nostri a ritirarsi sul monte Maggiore.
    Tempo coperto". " 26 ottobre. Parte del reparto trovasi sul monte Maggiore mentre la 3° compagnia e la sezione Bettica a Cepletischis tentano di resistere alla marea nemica. E' uno
    sforzo vano. Gli avanzi si ritirano su Cividale e vengono incorporati nel 20° bersaglieri per
    subire le sorti della quarta brigata, che viene usata quale truppa di copertura durante tutta la
    ritirata. Tempo coperto".


    Così gli arditi del capitano Caretto presero la via dolorosa del Tagliamento e del Piave. Ma
    venne il momento della riscossa. A metà novembre del 1917 Aminto Caretto, convalescente,
    ritorna al reggimento. La fama del suo 26° è tale che il comando gli affida immediatamente
    l'incarico di ricostituire il battaglione. In soli tre giorni, fra il 17 e il 20 novembre, il reparto
    è ricostituito ed è già in prima linea, nello scontro alla Meletta di Callio, sopra Asiago.
    Caretto e i suoi uomini rimangono nella zona dell'altopiano dei dei Sette Comuni:ci sono, di
    fronte, le gole della Val Stagna e le pendici nevose della Val Bella , brulicanti di austriaci.
    Il 27 gennaio gli arditi si preparano all'attacco:sono in testa, come sempre, anche perchè soltanto loro sono ritenuti in grado di superare d'impeto le difese avversarie e mettere a tacere
    le prime postazioni aprendo la strada al resto degli attaccanti. Alle nove del mattino la terza
    compagnia balza dalle trincee, è seguita dai bersaglieri. Ogni plotone avanza a cuneo , giù dalle
    pendici delle nostre posizioni, verso il fondo valle, poi improvvisamente, mentre il nemico è in
    attesa proprio di fronte, fa una repentina svolta a destra e si getta velocemente in due varchi aperti dall'artiglieria nei reticolati. In un baleno gli arditi sono addosso ai piccoli posti e ai nidi
    di mitragliatrice , che vengono spazzati con le bombe a mano. Ma il nemico reagisce dall'alto della montagna e apre un fuoco intensissimo. Gli arditi sono allo scoperto, bersagliati da tutte
    le parti, resistono ma alle 13 debbono ripiegare . La compagnia era partita con 180 uomini. Ne
    ritornano una quarantina. Le altre due compagnie hanno avuto miglior sorte, sono rientrate con
    minori perdite , con prigionieri e bottino di guerra. Il giorno dopo sono questi due reparti a
    guidare il nuovo assalto a monte Val Bella, alla testa di due colonne, ed è la volta del successo.
    Il coraggio e la sorprendente condotta di battaglia degli arditi hanno la meglio sulle difese
    austriache. A mezzogiorno la bandiera italiana sventola sulle posizioni conquistate. Il battaglione
    si riordina a Giavera del Montello qualche giorno dopo, con l'arrivo di nuovi effettivi, ed è subito pronto per nuove imprese. Bisogna assaltare e liberare dai cecchini austriaci la località
    Casa Pin, ma il nemico è ben piazzato:al primo accenno di attacco risponde con un preciso fuoco
    di mitragliatrici. In pochi secondi cadono tre ufficiali e una cinquantina di uomini.
    Cade il tenente Ivo Lollini , colpito da una pallottola in fronte. Aveva vent'anni, era già un eroe.
    A Caporetto, ferito ad una gamba e fatto prigioniero, era riuscito ugualmente a fuggire e a
    raggiungere i suoi bersaglieri. Muore anche il tenente Remigio Gattu, sardo, di 25 anni, un
    soldato straordinario che pareva fatto per combattere con gli arditi. Le imprese più rischiose,
    le pattuglie notturne e diurne, i lunghi appostamenti in un fosso, lo strisciare tra i giunchi erano
    imprese che non cedeva mai ad altri. Un giorno, sul Tagliamento, aveva guadato il fiume con
    quattro ciclisti ed era andato ad attendere il nemico, tutto solo sull'altra sponda.
    Il protrarsi della guerra, l'aggravarsi della situazione dopo Caporetto avevano costretto il
    ministero della Difesa a chiamare alle armi anche l'ultima classe disponibile, i ragazzi del'99,
    che fecero la loro apparizione in prima linea, poco più che diciottenni, e chiesero in molti di far
    parte delle formazioni di "arditi". Alcuni arrivarono e morirono, di lì a pochi giorni. E' il caso
    del tenente Giulio Lusi , arrivato proprio nei giorni di Caporetto al 26°, e già distintosi per
    coraggio e spirito d'iniziativa. Durante la ritirata, vedendo che alcuni pezzi d'artiglieria erano
    rimasti in mano agli austriaci, chiamò con sè due arditi:insieme si gettarono verso il nemico per
    togliere l'otturatore ai cannoni e renderli almeno inservibili. Ci riuscirono, ma Lusi tornò
    indietro con una larga ferita a una spalla. Il giovane morì nel combattimento di Cavazuccherina:
    colpito, cadde al suolo ma continuò a sventolare il tricolore per incitare i suoi bersaglieri all'assalto attirando su di sè le rabbiose raffiche dei mitraglieri austriaci.


    Abbiamo parlato fino ad ora del 26° reparto d'assalto di Aminto Caretto. Vediamo ora gli altri
    arditi delle fiamme cremisi. Il 23°, costituito nell'ottobre del '17, impegnato duramente sul Piave e in seguito durante tutta l'avanzata fino alla battaglia del solstizio.
    A Fossalta di Piave, quando più impetuoso era l'assalto degli austriaci nel tentativo di sfondare
    anche quella linea italiana ed aver così via libera verso Venezia, i seicento uomini del 23°, con
    straordinaria determinazione, riuscirono ad arginare e a contenere l'urto permettendo al resto
    dello schieramento di consolidare la propria linea trincerata. Un cronista del tempo così ha
    narrato alcuni momenti di quell'episodio:"Alla destra della seconda compagnia si è fatto un
    vuoto:il battaglione si è spostato , gli austriaci passano a plotoni serrati. La compagnia è comandata dal capitano Lodovico Lommi. Egli non si perde un attimordini brevi, decisione rapida, si lancia all'attacco con irruenza irresistibile. Insieme con lui, alla testa della compagnia
    i suoi ufficiali si fanno largo in un furioso corpo a corpo e a colpi di pugnale raggiungono il canale Gorgazzo, al di là del quale si è trincerato il battaglione. Vicino c'è una casa e su di essa
    viene piazzata una mitragliatrice:ma una granata nemica non le dà il tempo di iniziare il fuoco.
    Cade così l'ardito Galeani, classe 1901, volontario di guerra bolognese". La figura di Lodovico
    Lommi merita un cenno a parte. Figlio di un caporal maggiore dei bersaglieri, Lodovico si era
    presentato volontario al 23° reparto arditi e qui era stato raggiunto dal fratello Luigi. Insieme
    i due Lommi caddero feriti a Capo Sile, dove Luigi ottenne una medaglia d'argento. Lodovico,
    dal canto suo, era stato raccolto, durante un altro attacco , sotto i reticolati nemici col torace
    attraversato da una pallotolla. Ferito, era tornato al comando della terza compagnia del 23° e con essa era andato all'attacco delle creste del Pertica, conquistandole di slancio e difendendole.
    In quell'occasione aveva fatto anche duemila prigionieri. Quando venne passato in servizio permanente effettivo per meriti di guerra , aveva al suo attivo quattro ferite e sei ricompense al
    valor militare.
    A Fossalta, Lodovico Lommi non fu il solo del 23° a far parlare di sé." Il nemico preme in maniera feroce", si legge nella cronaca della battaglia, "vuol passare ad ogni costo. La compagnia è impegnata da ogni parte. A sinistra l'aiutante Saloni trattiene gli assalitori con la
    sua mitragliatrice e con una tempesta di bombe a mano, ma è ferito da una grossa scheggia alla
    schiena. Non è grave, viene inviato all'ospedale ma dopo tre giorni riuscirà a fuggire per ritornare al reparto dove troverà morte gloriosa all'assalto di Losson, guadagnando la suprema
    ricompensa al valore. Dopo qualche ora di eroica resistenza gli arditi sono costretti a ripiegare
    di fosso in fosso, di casa in casa, fino alla Fossetta. Il nemico avanza, il fragore assordante degli
    scoppi, il crepitare della fucileria e delle mitragliatrici trasformano la zona in un inferno.
    Cade il sottotenente Angelini, colpito da una fucilata alla gola. Rimane sul ciglio di un fosso,
    rantolante, perde sangue. Tenta di alzarsi ma è colpito nuovamente al viso, non si regge , guarda
    verso la linea dei suoi e pare che dica:Non lasciatemi nelle mani del nemico. Sentono il disperato appello i suoi compagni, che escono sotto il fuoco micidiale, non curanti del pericolo
    in un impeto di sublime solidarietà. Sono due ufficiali, il tenente Giovanni Vecellio di Trieste e
    il tenente Olao Gaggioli di Ferrara. Essi si lanciano con balzi felini e non li arresta il crepitio
    della mitraglia nè lo scoppio delle bombe a mano. Vogliono salvare il compagno dei loro assalti
    che rantolante attende."Uno dopo l'altro i due ufficiali si trascinano sul tereno battuto, raggiungono Angelini. Pochi metri più avanti c'è il nemico:Gaggioli lancia il saluto degli arditi
    con una serie di bombe a mano, Vecellio fa altrettanto. Al fragore degli scoppi segue un breve
    silenzio , è il momento. Il compagno dolorante è trasportato nella trincea fra i suoi. Due volte
    decorato al valore egli guadagnerà la terza ricompensa raggiungendo nella gloria dei cieli la medaglia d'oro Leonardo Pellas, sottotenente, che ebbe dal nemico l'onore delle armi nella
    sepoltura. E' ferito il tenente Maccaferri, è ferito anche Colizza, e meriterà una medaglia d'oro.
    Addossato al ciglio di un fosso il maresciallo Bresciani con la sua sezione mitragliatrici sbarra
    il passo al nemico e protegge l'ala destra della compagnia. La mitragliatrice canta e canta, finchè
    non le si spezza la gola allorchè Bresciani le cade accanto. Intorno alla macchina giacciono
    l'aiutante Rizzo, gli arditi Cento, Zaniglia, Vaccari, Aglietti. Muoiono anche il tenente Simone
    e il tenente Pistilli. Avanti a tutti, una pattuglia eroica cerca la gloria seminando la morte tra le
    fila nemiche , arrestando il loro impeto rabbioso, facendo rifulgere le virtù guerriere della stirpe e l'irresistibile volontà di vittoria. E' ancora Olao Gaggioli, giovane ardente, impetuoso.
    Sul suo petto brillano l'argento e il bronzo di due medaglie. Il piombo lo raggiunge, ma la morte
    non lo ghermisce. E la battaglia continua, con tenace accanimento. Gli austriaci sferrano attacchi su attacchi, ma gli assalti si infrangono. Quella che passerà alla storia con il nome di
    battaglia del Piave è vinta. Caporetto è vendicata". Delle vicende che ebbero a protagonista il 72° reparto "fiamme rosse" può bastare il racconto fatto da un bersagliere d'eccezione, padre
    Agostino di Cristo Re, autore del libro Ambesà-dalle spalline al camaglio. Padre Agostino non è
    altri che la medaglia d'oro Umberto Visetti , bersagliere di quattro guerre. "Dopo la battaglia
    del Montello", scrive padre Agostino, "venni trasferito al 72° reparto d'assalto. Quel magnifico
    battaglione di fiamme cremisi ebbe il vanto di sfondare la resistenza opposta sul Piave a Fagarè,
    di coprirsi di gloria nella piana di Sernaglia, ove infranse una carica di cavalleria per cui fu
    citato sul bollettino del comando supremo, di liberare Pieve di Soligo, Vittorio Veneto e Belluno. Fu un'impresa leggendaria da ricollegare agli episodi più luminosi e romantici del nostro Risorgimento, di cui concludeva il ciclo. Per il forzamento del Piave, l'assalto fu sferrato
    quando il fiume sacro alla Patria era avvolto nelle brume.

    Mentre le fanterie e gli altri reparti cercavano di mimetizzarsi, gli arditi- come Enrico IV , le
    vert galant- per spavalderia bersaglieresca sfoggiavano i loro vistosi pennacchi svolazzanti!
    Servendoci di barconi del genio pontieri occupammo un isolotto che sarà poi chiamato isola dei
    morti perchè vi perdemmo circa 600 bersaglieri arditi con due ufficiali; ma la tenace resistenza
    del nemico abbarbicato sull'altra sponda con grande abbondanza di mitragliatrici Schwrzlose
    mai viste, ci impedì di varcare il Piave in piena, che si trascinò via i barconi con il glorioso carico di morti. Finalmente, sotto l'imperversare delle nostre terrificanti bombarde che vomitando tonnellate di alto esposivo volatilizzarono con i reticolati i nidi di mitragliatrice,
    riuscimmo a passare, buttandoci a nuoto dietro un barcone superstite che per fortuna aveva qualche fune; reggendoci a catena l'un l'altro, aggrappati chi alle funi, chi al cinturone delle giberne. "Perdemmo altri arditi, il capitano Marchand scomparve nell'esplosione di una granata
    di grosso calibro. Vedemmo il suo bel pennacchio fuori ordinanza proiettato in aria , spiegar le
    penne in un ultimo sussulto come un'aquila a morte e poi precipitare di schianto con gli altri
    sollevati dall'esplosione. "Come ufficiale più anziano, avendo assunto il comando del battaglione
    puntai decisamente su Pieve di Soligo, obbiettivo assegnatoci dal generale Vaccari. Liberata Pieve, attaccammo Solighetto e Soligo, nonostante il fuoco che ci fulminava dal Col San Gallo
    che prendemmo d'assalto. Coronata l'altura mi dirigevo su Follina, quando una vedetta si precipitò urlando ch'eravamo minacciati da una divisione di cavalleria che irrompeva al galoppo. Ebbi appena il tempo di schierare a cavallo di un provvidenziale reticolato le mitragliatrici e i lancia-fiamme, sperando nell'effetto di questi ultimi per spaventare i quadrupedi, che già ci piombava addosso il primo squadrone; così infrangemmo la carica( si trattava di un reggimento di ussari) che se ci avesse sorpreso in pianura ci avrebbe sicuramente
    annientati. Dopo di che i miei arditi si trasformarono in cavalieri. Era la sera ed avendo esaurite
    le munizioni rientrammo al piccolo trotto a Pieve di Soligo. Eravamo rimasti in pochi e tutti
    montati si procedeva cantando, quando una voce tonò nella notte rischiarata dalla luna nascente:
    "Che cos'è questa cavalcata delle Walkirie?". Mi accostai all'ombra avvolta nella mantella e vidi luccicare l'aquila sull'elmetto. Era il generale Rolando Ricci, capo di stato maggiore del
    nostro Corpo D'armata. "Balzai di sella e diedi la novità. Egli mi accompagnò dal generale
    Vaccari, che m'accolse con un grido trionfale:"Teniamo la vittoria e vivaddio non ci sfuggirà".
    Gli offersi la bella sciabola dall'elsa d'argento bulinata con lo stemma gentilizio consegnatami
    dal colonnello austriaco, disarcionato proprio sui reticolati, quando si arrese alla mia intimazione. Il generale elogiò senza riserve il nostro comportamento e impartì nuovi ordini.
    Per la notte : rientrare a Solighetto e a Soligo, il battaglione costituendo l'estrema punta avanzata dell'intero schieramento. Per il giorno seguente: sfruttare al massimo la vittoria
    Puntando su Belluno per tagliare la ritirata al grosso dell'esercito nemico. Egli aveva preceduto
    le sue divisioni sicuro che i suoi arditi avessero eseguito la consegna di liberare Pieve di Soligo.
    Mi resi conto allora che il generale era circondato soltanto dal suo sparuto stato maggiore.
    Egli si accorse del mio sbigottimento e disse:" Anche il vostro generale è bersagliere. Per non
    perdere tempo abbiamo varcato il Piave a Cavallo. Vi avevo dato appuntamento qui e ho mantenuto la parola". Il mattino, per tempo, ci giunsero quattro o cinque Fiat 15 TER senza
    viveri, con varie casse di munizioni e bombe a mano. Pigiai letteralmente sugli autocarri tutti
    gli arditi che potei, ordinando agli altri di precederci a cavallo, e raggiunsi Follina, Cison e
    Tovena ove staccai i cavalieri verso il passo di San Baldo, mentre io proseguivo con le macchine,
    costeggiando i laghetti di Lago e Rivine; e ci dirigemmo verso Vittorio Veneto. Le macchine
    ansimanti, su per l'èrta di Fadalto non ce la fecero più e s'arrestarono di botto. Proseguimmo a
    piedi; al lago di Santa Croce avemmo uno scambio di fuoco con una batteria da 105 che stava
    ritirandosi. Gli artiglieri abbandonati i pezzi si diedero alla fuga inseguiti dagli arditi.
    Entrammo in Belluno il 29 Ottobre. La popolazione ci accolse gridando e con le lacrime agli
    occhi . Più che un'apoteosi fu un delirio".
    Fra i personaggi piumati che segnarono con la loro personalità e il loro eroismo quelle giornate
    ve ne furono molti che avrebbero fatto parlare di se anche più tardi. Giovanni Messe, ad esempio
    comandante di arditi bersaglieri, nella seconda guerra mondiale fu a capo del Corpo di spedizione italiano in Russia. Nel 1917 e 1918 Messe comandò un altro reparto d'assalto, il 9°.
    Ai suoi Arditi , prima di ogni combattimento usava ripetere:"Ricordatevi che molti, negli anni
    a venire, diranno di aver qui combattuto. ma nessuno potrà provare di aver fatto quello che
    facciamo noi". E i suoi uomini furono davvero degli eroi. Il bersagliere Ciro Scianna , medaglia
    d'oro, ferito a morte, spirando fra le braccia di Messe gli disse:"Voglio baciare il tricolore".
    Il sottotenente Dario Vitali, ferito al viso e con un occhio asportato, continuò a sventolare lo
    stendardo del 9° urlando "Seguitemi, vi porterò alla vittoria". Il mattino del 16 Giugno 1918
    il generale Giardino, comandante l'Armata del Grappa, diramò questo bollettino:"Con meraviglioso slancio, il 9° reparto d'assalto ha in dieci minuti riconquistato Col Moschin,
    catturando 250 prigionieri con 27 ufficiali e 17 mitragliatrici". Il 26 Ottobre successivo , nel
    corso di un'assalto all'ultima cartuccia tra il monte Asolone e il Col della Beretta, Giovanni Messe rimase circondato con pochi uomini. Il grosso del suo reparto, già messosi al sicuro, tornò indietro a salvare il comandante. Caddero molti generosi soccorritori tra cui il capitano
    Franco Picaglia. Ma Messe, che si stava nel frattempo battendo come un leone, solo contro uno
    stuolo di nemici, venne tempestivamente liberato. Fra i giornalisti corrispondenti di guerra,
    uno di quelli che più seguirono da vicino, trincea per trincea, le azioni degli arditi fu Arnaldo Fraccaroli. La sua descrizione di una delle azioni delle "fiamme cremisi" a Caposile ha ancora
    oggi la freschezza e il palpito dell'attualità:"Ed eccoci giunti alla nuova Domenica. Gli Arditi
    bersaglieri celebrano le feste così. Nel pomeriggio ha piovuto, la sera è buia. Ammassati sulla nostra prima linea stanno gli arditi di un magnifico reparto fiammeggiante, famoso per queste
    irruzioni. Alle ore 21,55 comincia improvviso e subitamente tempestoso il tiro delle nostre
    artiglierie e delle nostre bombarde contro la prima linea per rompere i reticolati. Tre minuti
    dopo, la prima ondata di arditi esce dalle nostre linee di Casa Bressanin, strisciando curvi fra i
    reticolati sotto il fuoco. Questa prima ondata è su cinque colonne di pochi uomini: hanno il fazzoletto bianco al braccio per distinguersi nel buio. Due minuti dopo si stacca la seconda ondata. Sono duecentocinquanta arditi fra tutti. Di rincalzo stanno pronti nelle nostre linee reparti di bersaglieri. La prima trincea che si stacca dal Piave Vecchio è appena a nove metri
    dalla nostra. I due reticolati si confondono. Qui la vicinanza rende impossibile l'uso delle
    bombarde. Per aprire i varchi entra in funzione un drappello di lanciafiamme. I lunghissimi
    mordenti guizzi delle vampate si avventano contro la trincea, mentre piu a sud gli arditi dell'ala
    destra si slanciano di volata sui cinquanta metri di terreno che in quel punto separano la nostra
    linea da quella avversaria. Al quinto minuto gli arditi della prima ondata hanno già scavalcato
    la prima trincea supplementare, attraverso i reticolati rotti, e si sono impadroniti delle prime
    poche vedette. La loro azione è così fulminea e così ben concordata con l'artiglieria, che arrivano sulla trincea quando ancora il terreno è sconvolto dalle ultime bombe. Ricevono sulla
    persona zaffate di terriccio. Subito le artiglierie allungano gradualmente il tiro. Con bombe a
    mano, con lanciafiamme, con pistole mitragliatrici, gli arditi irrompono nella trincea, urlando
    il loro grido di guerra e la loro parola e di riconoscimento che stavolta è Roma. Li guida un
    giovane maggiore toscano. Tutti gli ufficiali sono alla testa dei loro reparti. L'assalto procede
    fulmineo, regolato minuto per minuto come una gara sportiva. Nove minuti precisi dopo il
    principio dell'azione anche la seconda linea è conquistata. Si fa il primo centinaio di prigionieri
    si prendono tre mitragliatrici. Un bottino presto destinato a diventare più consistente".
    "Nulla è gratuito in questo basso mondo. Tutto si sconta, il bene come il male, presto o tardi si paga. Il bene è necessariamente molto più caro."

    L.F.Celine

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    • M K K
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      #3
      ricordiamo che i nostri reparti speciali ( incursori ecc.) sono stati d' esempio a tutti gli eserciti , specialmente quello americano
      Ogni mio intervento e' da considerarsi di stampo satirico e ironico ,cosi come ogni riferimento alla mia e altrui persone e' da intendersi come mai realmente accaduto e di pura fantasia. In nessun caso , il contenuto dei miei interventi su questo forum e' atto all' offesa , denigrazione o all odio verso persone o idee.
      Originariamente Scritto da Bob Terwilliger
      Di solito i buoni propositi di contenersi si sfasciano contro la dura realtà dell'alcolismo.

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      • simones
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        • altoadige
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        #4
        Originariamente Scritto da M K K Visualizza Messaggio
        ricordiamo che i nostri reparti speciali ( incursori ecc.) sono stati d' esempio a tutti gli eserciti , specialmente quello americano


        benissimo.
        "Nulla è gratuito in questo basso mondo. Tutto si sconta, il bene come il male, presto o tardi si paga. Il bene è necessariamente molto più caro."

        L.F.Celine

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          #5
          Incursori IX&#176 Reggimento "COL MOSCHIN"

          Questa gente ha il mio massimo rispett perchè hanno delle palle immense
          Tutto ciò che ami rimane, il resto è scorie. Tutto ciò che ami non ti può essere sottratto. Tutto ciò che ami è la tua stessa eredità..." (Ezra Pound)

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            #6
            Battaglione San Marco

            I^ Guerra Mondiale

            Il primo conflitto mondiale segna la ricostituzione della Fanteria di Marina come struttura organica della Marina Militare, ufficiosamente, poiché il decreto che istituì il San Marco porta la data del 17 marzo 1919, cioè a guerra già da tempo finita. Ma, in effetti, sin dai primi giorni del
            conflitto i marinai avevano pagato il loro contributo non solo operando sulle navi, gli aerei ed i dirigibili, ma anche con il sangue ed il sacrificio dei fucilieri. Nati come esigenza strategica, spontaneamente, già dai primi giorni del conflitto reparti di marinai avevano combattuto a terra, come artiglieri e fanti, vivendo una tremenda esperienza di trincea. Una compagnia di marinai presidiava Grado già dall’11 giugno 1915. Un gruppo di Artiglieria, formato dall’equipaggio dell’incrociatore Amalfi, affondato nel 1915, era stato affiancato all’11° Corpo d’Armata e combatteva valorosamente sul Carso.

            Con circa 100 pezzi d’artiglieria di tutti i calibri nell’ottobre del 1915 fu costituito
            il raggruppamento Artiglieria Marina, inquadrato nel 7° Corpo d’Armata e dislocato all’estrema
            ala destra della 3^ Armata. Tutti combatterono con valore, ma quelli che si distinsero furono
            i reparti di Marinai Fucilieri che combatterono a terra nelle trincee a fianco dei fanti e dei bersaglieri.

            Verso la fine del 1916 quattro reparti di 250 marinai ciascuno furono dislocati a Grado e nelle
            zone costiere limitrofe in sostituzione dei reparti dell’Esercito e della Guardia di Finanza ritirati
            per esigenze organiche. Ma fu il 5 novembre 1917, subito dopo Caporetto, che una compagnia,
            costituita ad hoc, fu attestata nella zona di Cortellazzo a difesa della laguna veneta e di Venezia.

            I Fucilieri di Marina vivono così la tragica epopea delle trincee distinguendosi, in particolare, nella difesa della città di Venezia che viene attaccata a più riprese dagli Austriaci dal mare e da terra (da cui il motto della Forza da Sbarco: “Per Mare, Per Terram”).







            Considerato il momento particolare, furono fatti confluire in questo reparto i marinai di tutti i distaccamenti della zona di Venezia in numero tale da costituire in breve un’unità a livello di brigata, che prese appunto il nome di Brigata Marina. Il reparto risultò formato da un Reggimento Fucilieri su tre battaglioni, che furono denominati Monfalcone, Grado e Caorle, ed un Reggimento di Artiglieria di otto gruppi.

            Il Monfalcone trovò subito impiego operativo contro gli Austriaci, che furono fermati e ricacciati indietro. Poco più tardi, con il personale proveniente dalla Difesa Marina di La Spezia e Messina, si costituì un quarto Battaglione cui fu dato il nome di Golametto. La disponibilità di un reparto ben preparato, da impiegare così tempestivamente e in un momento così tragico per il fronte italiano, si rese possibile solo perché, molto prima dell’inizio della guerra, i vari comandi marittimi addestravano alla difesa costiera reparti del Corpo Equipaggi e così quando gli austriaci puntarono su Venezia la Marina poté farle da scudo sia sul mare sia in terra.

            Il 9 aprile 1918 il Battaglione Monfalcone fu intitolato al T.V. Andrea Bafile, prima medaglia d’oro del nuovo San Marco. Per controbattere l’offensiva austriaca sul Piave fu possibile schierare un quinto Battaglione denominato Battaglione Navi. Il tributo di sangue pagato dalla brigata nelle azioni del Basso Piave è più eloquente di qualsiasi commento, i fucilieri di marina ebbero 384 morti, 19 mutilati, 753 feriti, per un totale di 1156 uomini, pari ad un terzo della forza. Una percentuale indubbiamente alta, ma vi è di più, pur trattandosi di un reparto cosi` complesso ed operante in settori di fronte cosi vasti e delicati, esso non ebbe, caso più unico che raro, ne` prigionieri ne` dispersi mentre catturò` all’avversario 1268 uomini. Da questi dati scaturisce una messe altrettanto significativa di decorazioni meritando 584 ricompense al valore militare individuali, e alla croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia ed una medaglia d’argento al valore militare alla Bandiera, oltre a 19 citazioni in Bollettini del Comando Supremo.
            Non ultimo vi furono 42 promozioni per meriti di guerra. Venezia che dai marinai era stata strenuamente difesa, volle offrire al reparto, oltre al nome del suo patrono, San Marco, anche la Bandiera. Il sindaco Grimani aveva avanzato istanza al Ministero della Marina "Affinché" al nome di San Marco si intitolasse il Reggimento Marina, consacrando cosi` il sentimento di amore e di riconoscenza, verso quegli eroi che avevano protetto con il loro sangue, la sua bellezza immortale.” Il 25 Marzo 1919, in piazza San Marco, una rappresentanza del reggimento agli ordini del C.V. G.Siriani ricevette l’investitura. Subito dopo l’assegnazione del nome, venne l’insegna sull’uniforme, regolamentata nell’aprile 1919.
            Sui due lati del colletto della giubba grigioverde per ufficiali e sottufficiali destinati al San Marco e al disopra dei risvolti di entrambe le maniche del camisaccio grigioverde per sottocapi e comuni, dovevano essere applicati, rispettivamente, mostrine e manopole rettangolari rosse, con al centro, in oro, di profilo, il leone alato.



            II^ Guerra Mondiale

            Con la fine della prima guerra Mondiale il reggimento San Marco fu ristrutturato a livello di battaglione riorganizzato su quattro compagnie: Bafile, Grado, Caorle e Golametto.
            Di questi un contingente di circa 300 uomini fu inviato in Cina dove vi rimase dal 1925 al 1943 a presidiare le legazioni e le concessioni di Tien Tsin nel corso della Guerra Civile che sconvolgeva quella Nazione.
            Nel 1936 reparti del battaglione San Marco tornarono in terra d’Africa partecipando alle operazioni belliche contro l’impero Etiopico.
            Altri reparti furono impegnati presso il Consolato Generale e la Stazione R.T. di Tangeri ed altri ancora nello sbarco a Durazzo in Albania del 1939.
            Senza attendere che l’aggressione tedesca del 1 settembre 1939 alla Polonia segnasse l’inizio della II Guerra Mondiale, un nuovo ordine di m obilitazione era già pervenuto il 15 agosto al San Marco, determinando il graduale richiamo dei riservisti per far fronte a due contemporanee
            esigenze, il rafforzamento del contingente in Estremo Oriente e la formazione del reggimento a Pola.






            Con la mobilitazione generale e la conseguente ristrutturazione derivata dall’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940, il Battaglione ristrutturato in Reggimento, su due Battaglioni: Grado – Bafile, si arricchì successivamente di nuove unità risultando alla data del 10.01.1943 formato da sette Battaglioni, Grado, Bafile, Tobruk, Caorle, Battaglione aggregato della Milmart, un plotone G (guastatori) e gli N (Nuotatori), P (paracadutisti). I primi cinque erano di fanteria da sbarco nella accezione più pura del termine mentre gli ultimi tre erano reparti speciali particolarmente addestrati per azioni e colpi di mano anfibi. Già dall’inizio del conflitto l’unità ormai autonoma, di particolare versalità oltre che di elevatissimo addestramento vide il suo personale operare sulle isole Dalmate, in Montenegro, in Grecia, quindi in Libia dove, rinnovando le glorie del 1911, i marinai del Battaglione Bafile, sventarono e respinsero un attacco di commandos inglesi su Tobruk. In questa occasione e per questo motivo il Battaglione Bafile fu ribattezzato, appunto Tobruk. Il Battaglione Bafile sarà ricostituito nel gennaio del 1942. Nel novembre dello stesso anno reparti del San Marco fecero parte del Corpo di spedizione che occupò la Corsica e la base navale di Tolone. Il mese successivo il Reggimento si trasferì a Biserta e qui dopo strenua ed eccezionale resistenza, il 09.05.1943, dopo essere stato praticamente annientato capitolò di fronte agli alleati. Scampò il solo Battaglione Tobruk che decimato nei combattimenti dall’inizio di aprile, a metà dello stesso mese era stato rimpatriato per essere ristrutturato.

            Anche in questa occasione, il Reggimento oltre al consueto valore di fronte al nemico, dimostrò di essere un’unità compatta, disciplinata, organizzata e costantemente sostenuta da quello spirito di corpo che l’aveva caratterizzata sin dalla Prima Guerra Mondiale.Infatti, malgrado il completo sbandamento delle truppe dell’Asse in Africa comprese quelle tedesche, martellata dagli attacchi nemici sia da terra sia dal cielo, il Reggimento fu l’unico reparto che rimase compatto sulle posizioni assegnate, e fu l’ultimo ad arrendersi al nemico. L’ultima Bandiera Italiana, quella del San Marco in Africa, fu ammainata il 9 maggio 1943, mentre il 7 maggio, cadute Tunisi e Biserta, si erano arresi tutti gli effettivi della X Armata Tedesca nel cui settore il San Marco operava. La Dalmazia, il Peloponneso, la Cirenaica, la Tripolitania, la Tunisia, la Corsica, la Provenza e la Cina sono i settori in cui il San Marco opero` durante i 39 mesi di conflitto contro gli Alleati. Unico tra tutti i reggimenti italiani ad avere tale primato in termini di presenza sui vari fronti di guerra.
            La rinuncia alla presa di Malta privò il reparto del collaudo in quella prova per la quale, insieme alla Forza Navale Speciale (FNS), si era a lungo preparato: quella dello sbarco d’assalto.

            A similitudine dei paracadutisti della Folgore, nati anch’essi per assolvere a compiti speciali, i marò BSM dovettero farsi ancora fanti tra i fanti, su quel fronte africano su cui si decisero le sorti del conflitto.
            Dei fanti non avevano nè la preparazione specifica ne` i mezzi ma, come in precedenti circostanze della loro storia, supplirono queste carenze con le straordinarie doti umane. Plauso alle loro eroiche gesta, infatti, venne anche dal successore di Rommel, gen. Von Armin, il quale considerò quegli uomini i migliori soldati che aveva comandato in Tunisia.

            Ogni mio intervento e' da considerarsi di stampo satirico e ironico ,cosi come ogni riferimento alla mia e altrui persone e' da intendersi come mai realmente accaduto e di pura fantasia. In nessun caso , il contenuto dei miei interventi su questo forum e' atto all' offesa , denigrazione o all odio verso persone o idee.
            Originariamente Scritto da Bob Terwilliger
            Di solito i buoni propositi di contenersi si sfasciano contro la dura realtà dell'alcolismo.

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            • M K K
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              #7
              Goi

              Storia
              …Noi piccolissimi vogliamo colpirvi audacemente nel cuore e in ciò che costituisce il vostro maggior orgoglio. E attendiamo, da questo gesto, che il mondo si decida una buona volta a comprendere di che stoffa sono gli Italiani. (Licio VISINTINI)

              …nel buio, sotto la grande carena, sentivamo il rumore d'un motore che funzionava dentro lo scafo della nave… (Antonio MARCEGLIA)

              …6 Italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'asse. (Winston CHURCILL)

              I precursori degli odierni Incursori sono gli uomini della Regia Marina che nel corso della prima guerra mondiale condussero ardite azioni, come quelle contro i porti di Trieste e Pola, utilizzando mezzi speciali: il "Barchino Saltatore" e la "Torpedine Semovente".
              Lo sviluppo dell'incursione subacquea nell'ambito della Marina risale però al 1935; è in quell'anno infatti che due Ufficiali, Teseo Tesei ed Elios Toschi, iniziarono a mettere mano a un progetto che nei loro intenti doveva servire a colmare la disparità di mezzi tra la Regia Marina e la più potente forza navale dell'epoca, quella britannica. Il punto di partenza del lavoro svolto fu il siluro , destinato a diventare un mezzo di incursione subacquea in grado di trasportare due uomini oltre alla testa esplosiva sganciabile, che veniva fissata dai due operatori alla chiglia della nave nemica.
              Nacque così il siluro a lenta corsa, meglio noto con il nomignolo di maiale.
              Contemporaneamente altri uomini lavorarono alla modifica di mezzi diversi, quali i motoscafi lanciasiluri MAS e i barchini esplosivi.
              Purtroppo la ricerca venne interrotta con la fine della guerra d'Etiopia, per riprendere solo alla fine del 1939. Alla vigilia dello scoppio della II^ Guerra Mondiale la Marina decise di riprendere gli studi per l'impiego operativo del maiale e dei barchini. Si ricostituiva così la I^ Flottiglia MAS che, il 15 marzo 1941, su proposta del C.F. Vittorio Moccagatta, assunse la denominazione definitiva di X^ Flottiglia MAS. La prima azione bellica fu il tentativo di attacco al porto di Alessandria d'Egitto nell'agosto del 1940, ma i primi mesi di attività degli Assaltatori furono segnati dalla sfortuna. Andarono infatti perduti sei mezzi d'assalto, oltre a due sommergibili e a un piroscafo utilizzati per l'avvicinamento allo scenario dell'azione.
              In ottobre il sommergibile Scirè, un nome indissolubilmente legato alla storia dei mezzi d'assalto, partì con obbiettivo Gibilterra; la fase iniziale della missione si svolse senza inconvenienti, ma per problemi legati agli autorespiratori e alle attrezzature, anche questa operazione non ebbe successo.- Andò meglio a sei barchini esplosivi, che il 25 marzo 1941 presero di mira diverse unità nemiche nella baia di Suda, affondando fra l'altro l'incrociatore pesante York.
              Nuova missione dello Scirè verso Gibilterra e nuovo fallimento dovuto a problemi tecnici dei mezzi alla metà del maggio 1941: ma intanto si accumulava esperienza e si mettevano a punto tecniche e materiali. Nuovo fallimento a fine luglio, quando gli assaltatori tentarono di attaccare Malta. L'episodio, che avrebbe potuto segnare la fine dell'incursione subacquea, divenne invece lo sprone per fare ancora meglio: nuove risorse furono assegnate ai reparti d'assalto, mentre a quelli subacqueo e di superficie si affiancò il nuovo "Gruppo Gamma", costituito da nuotatori d'assalto.
              Il 20 settembre 1941 finalmente i maiali dello Scirè colsero un discreto successo a Gibilterra, dove riuscirono a minare tre unità navali. Ma la pagina più nota delle azioni dei mezzi d'assalto della X Flottiglia MAS nella seconda Guerra Mondiale è senza dubbio quella di Alessandria d'Egitto del dicembre del 1941.
              Toccò ancora allo Scirè del Comandante Borghese portare a destinazione i maiali. La notte del 3 dicembre il sommergibile lasciò La Spezia per la missione G.A.3: dopo uno scalo a Leros, in Egeo, per imbarcare gli uomini, il 14 dicembre il sommergibile si diresse verso la costa egiziana per l'attacco previsto nella notte del 17. Ma una violenta mareggiata fece ritardare l'azione di un giorno. La notte del 18, approfittando dell'arrivo di tre cacciatorpediniere che obbligano i britannici ad aprire le ostruzioni retali, i tre SLC penetrarono nella base per dirigersi verso i loro obiettivi. L'equipaggio De La Penne - Bianchi puntò verso la corazzata Valiant.
              Perso il secondo a causa di un malore, De La Penne trascinò sul fondo il proprio mezzo fino a posizionarlo sotto la carena della nave da battaglia prima di affiorare, essere catturato e portato proprio sulla corazzata. Marceglia e Shergat attaccarono invece la corazzata Queen Elizabeth, alla quale agganciarono la testata esplosiva del loro maiale, quindi raggiunsero terra e riuscirono ad allontanarsi da Alessandria, per essere catturati il giorno successivo. Martellotta e Marino, con il terzo SLC, costretti a navigare in superficie a causa di un malore del primo, condussero il loro attacco alla petroliera Sagona. Dopo aver preso terra vennero anch'essi catturati dagli egiziani. Quattro navi furono gravemente danneggiate nell'impresa: oltre alle tre citate anche il cacciatorpediniere Jervis, ormeggiato a fianco della Sagona, fu infatti vittima delle cariche posate dagli assaltatori italiani. Un secondo tentativo condotto contro Alessandria nel maggio del 1942 non ebbe esito. Intanto i tedeschi richiesero l'invio di un reparto di Incursori per bloccare i porti del Mar Nero, e cinque barchini siluranti e altrettanti esplosivi con i loro equipaggi si avviarono verso la Crimea a bordo di autocarri.
              Altri barchini partirono per il nord Africa, dove operarono lungo la costa in appoggio alle operazioni terrestri. Intanto lo Scirè venne affondato davanti ad Haifa: trasportava alcuni uomini Gamma, che dovevano attaccare il porto. A Gibilterra il ruolo dello Scirè venne assunto dal piroscafo Olterra e da "Villa Carmela", basi segrete della X^ Flottiglia MAS in territorio spagnolo, dal quale nuotatori e subacquei uscivano per attaccare le navi in rada, riportando a più riprese notevoli successi, mentre nei porti turchi di Alessandretta e Mersina, il tenete di Artiglieria di complemento Luigi Ferraro, arruolatosi nella X^ MAS, abile nuotatore, riusciva, operando solitariamente, ad attaccare 4 piroscafi provocando la perdita parziale o totale, di 24.000 tonnellate di naviglio mercantile nemico. L'andamento sfavorevole del conflitto costrinse a ridurre progressivamente il numero delle missioni. Anche per quella che ormai era nota come X Flottiglia MAS, l'8 settembre portò una separazione: parte rimase legata al Regno del Sud con la denominazione "Mariassalto", parte con la Repubblica Sociale che mantenne la denominazione X Flottiglia MAS. Nel dopoguerra l'attività degli Assaltatori riprese sotto la copertura delle operazioni di bonifica e sminamento dei porti. Poi, con il trasferimento semiclandestino dei pochi mezzi superstiti da Venezia al Varignano, l'attività riprese sino a saldarsi con quella di oggi.
              Ogni mio intervento e' da considerarsi di stampo satirico e ironico ,cosi come ogni riferimento alla mia e altrui persone e' da intendersi come mai realmente accaduto e di pura fantasia. In nessun caso , il contenuto dei miei interventi su questo forum e' atto all' offesa , denigrazione o all odio verso persone o idee.
              Originariamente Scritto da Bob Terwilliger
              Di solito i buoni propositi di contenersi si sfasciano contro la dura realtà dell'alcolismo.

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              • bersiker1980
                decisamente grosso
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                • Serenissima Veneta Repubblica
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                #8
                Originariamente Scritto da M K K Visualizza Messaggio
                ricordiamo che i nostri reparti speciali ( incursori ecc.) sono stati d' esempio a tutti gli eserciti , specialmente quello americano
                E veneziani hanno inventato i marines
                sigpic

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                • odisseo
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                  #9
                  Reggimento "San Marco" - Wikipedia

                  Carica di Izbušenskij - Wikipedia

                  Amedeo Guillet - Wikipedia
                  "
                  Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"

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                  • simones
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                    • altoadige
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                    #10
                    canzonetta che in chiave moderna canta il valore delle fiamme nere italiane

                    YouTube - Laude dell'Eroismo Ardito - Ultima Frontiera
                    "Nulla è gratuito in questo basso mondo. Tutto si sconta, il bene come il male, presto o tardi si paga. Il bene è necessariamente molto più caro."

                    L.F.Celine

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                    • M K K
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                      #11
                      IX° Reggimento &quot;COL MOSCHIN&quot;



                      Gli Incursori Paracadutisti del 9° Reggimento d' Assalto " Col Moschin " sono i fieri eredi della tradizione di audacia, patriottismo ed onore di cui i commandos Arditi del Primo Conflitto Mondiale furono precursori. Il reggimento prende il nome dalla collina Moschin, luogo ove, durante la guerra del '15 -'18, gli Arditi furono protagonisti di uno dei più eccezionali esempi di coraggio del primo conflitto mondiale, difendendo strenuamente le proprie posizioni sotto gli incalzanti assalti dell'invasore austriaco. Il coraggio degli uomini di questo reparto d'Elite del Regio Esercito, i quali erano soliti dare l'assalto alle trincee nemiche percorrendo gli ultimi metri che li separavano da queste con un pugnale stretto fra i denti e le bombe alle mani, fu tale che lo stesso Gabriele D'Annunzio, da sempre affascinato dalle imprese militari audaci, vestì la divisa del reparto durante l'occupazione di Fiume del 1920 del quale fu ideatore e comandante. Un così vasto senso del dovere e coraggio non potè non lasciare una traccia indelebile in quella generazione di militari che, a distanza di alcuni anni dal termine della Seconda Guerra Mondiale, tenteranno di dare seguito alla tradizione di arditismo dei propri precursori. Nel 1952, ex ufficiali degli Arditi diedero segretamente il via alla ricostruzione di un reparto di combattenti specializzati in seno al Centro Militare di Paracadutismo ubicato presso Viterbo. Il nuovo elemento, inquadrato all' interno della 1^ Compagnia Paracadutisti, avrebbe visto la luce nel settembre dello stesso anno con il nome di Plotone Speciale. Costituito da paracadutisti, i quali venivano addestrati sulla falsariga dei reparti Arditi con la preparazione addizionale ai lanci in acqua ed al nuoto, il Plotone era posto sotto il comando del Tenente Franco Falcone. Il trasferimento del Plotone presso la Scuola di Fanteria di Cesano, occorso il 20 aprile 1953, coinciderà con la promozione a Compagnia Sabotatori Paracadutisti, al comando del Capitano Edoardo Acconci, forte di due plotoni rispettivamente composti da paracadutisti di leva e Carabinieri. Un primo organico programma addestrativo per i futuri Sabotatori lo si avrà soltanto a partire dal 1954, unitamente all' individuazione di quelli che sarebbero stati i futuri compiti della Compagnia : operazioni di intelligence e sabotaggio in territorio ostile . L' iter addestrativo riservato gli aspiranti, vedeva l' acquisizione delle tecniche di sabotaggio, roccia, l'utilizzo degli sci, il combattimento corpo a corpo, la famigliarizzazione con una vastissima gamma di armi e mezzi (carri armati compresi), la creazione di " ponti " radio e l'utilizzo delle relative " maglie ", la cartografia e, per gli elementi valutati maggiormente idonei sul piano psico-fisico, la padronanza di elementi relativi alle incursioni navali da apprendersi presso il GRUPP.ARD.IN. (oggi COM.SUB.IN) del Varignano . Il 1° giugno 1957 vede il trasferimento dei Sabotatori presso Livorno e, successivamente, nella città di Pisa ed il cambio di nomenclatura in Reparto Sabotatori Paracadutisti, venendo impegnato in esercitazioni volte a saggiare le capacità difensive delle patrie Forze Armate (ai Sabotatori era delegato il ruolo di forza nemica). Nel 1961 il reparto farà ritorno a Livorno ove verrà elevato al grado di Battaglione Sabotatori Paracadutisti, posto alle dipendenze della Brigata Paracadutisti Folgore ed articolato su di un Plotone Comando, una Compagnia Allievi e due Compagnie Operative. Nel 1964, ulteriore impulso verrà fornito alla dottrina operativa del Battaglione per mezzo della qualificazione di operatori in possesso di caratteristiche tali da renderli in grado di operare in qualsiasi teatro operativo (precedentemente si era infatti preferito "specializzare" gli uomini affidando a costoro solamente operazioni inserite nel proprio campo di competenza, ad esempio quello subacqueo o montano). Il 1966 vede il dispiegamento in Alto Adige di un reparto misto al comando di un ufficiale dell'Arma dei Carabinieri costituito da elementi delle forze dell'ordine ed una quarantina di Sabotatori al fine di porre in essere la bonifica di zone sensibili dalla presenza di ordigni esplosivi. Nel corso di tali attività, protrattesi fino al 1970, troveranno la morte i Sabotatori Sotto Tenente Mario di Lecce ed il Sergente Olivo Dordi i quali cadranno nell'esercizio del proprio dovere nell'attentato di Cima Vallone, il quale causerà inoltre il ferimento del Sergente Maggiore Sabotatore Marcello Fagnani . La sera del 4 novembre 1966, l'intero Battaglione è dispiegato nell' area di Pontedera al fine di porre in essere le operazioni di salvataggio della popolazione civile minacciata dallo straripamento dell' Arno. Il coraggio, il senso del dovere ed il profondo spirito di abnegazione degli operatori tutti contribuiranno al salvataggio di numerose vite umane. 18 novembre 1971: Idroambulanze dei Sabotatori intervengono sul luogo della sciagura aerea della Meloria, la quale vide la perdita di un Hercules C-130 e del suo equipaggio nonchè di numerosi operatori della Brigata Folgore; nel corso delle operazioni di recupero dei caduti perderà la vita il Sergente Maggiore Sabotatore Giannino Caria. Tra il '72 ed il '74 ha luogo il primo "cross-training" con unità delle forze speciali statunitensi; nello stesso periodo viene sviluppato il paracadute alare, adottato per primo al mondo proprio dalle unità Sabotatori dell' Esercito Italiano, e tuttora largamente impiegato da numerose special forces. Nel 1975 i Sabotatori sono dispiegati sulla tratta ferroviaria Bologna-Arezzo al fine di arginare l'attività terroristica volta al sabotaggio della sicurezza nell'area in questione. La qualità dell' opera posta in essere dai due Gruppi Tattici costituitisi per l' occasione, è tale da far ben presto decadere la necessità dell' impiego di questi. 26 settembre 1975, il Battaglione viene mutato in 9° Reparto d' Assalto Paracadutisti "Col Moschin" e la qualifica di Sabotatore decade a favore di quella di Incursore. Nel 1995 il Reparto è promosso a Reggimento. "( ... ) Arditi d' Italia , venire a voi è come entrare nel fuoco, è come penetrare nella fornace ardente, è come respirare lo spirito della fiamma, senza scottarsi, senza consumarsi. ( ... )
                      In una delle vostre medaglie commemorative il combattente all'assalto è rappresentato avvolto dalla vampa, incombustibile come la salamandra della favola, con una bomba in ciascuna mano.
                      Il vostro elemento è l'ardore, la vostra sostanza è l' ardire. Per ciò, se il Carso era un inferno, voi ne eravate i demoni. Se l'Alpe era l'empireo della battaglia, voi ne eravate gli angeli. Creature fiammanti sempre e da per tutto. E ci fu qualche notte d' estate, ci fu qualche notte d' autunno che l'acqua del Piave, al vostro guado, rugghiò come quando immerso il ferro rovente si tempra. ( ... )
                      (dalla lettera di Gabriele D' Annunzio agli Arditi di Fiume pubblicata sul quotidiano "La Vedetta d'Italia" del 24 ottobre 1919)
                      Ogni mio intervento e' da considerarsi di stampo satirico e ironico ,cosi come ogni riferimento alla mia e altrui persone e' da intendersi come mai realmente accaduto e di pura fantasia. In nessun caso , il contenuto dei miei interventi su questo forum e' atto all' offesa , denigrazione o all odio verso persone o idee.
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                        #12
                        LA DECIMA FLOTTIGLIA MAS
                        SETTEMBRE 1943 - MAGGIO 1945
                        La Decima Flottiglia MAS nacque all’inizio della seconda guerra mondiale quale reparto segreto della Regia Marina per l’utilizzo dei nuovi mezzi d’assalto subacquei e di superficie, sviluppati difficoltosamente alla fine degli anni ’30.
                        Fra il 1941 ed il 1943 le poche centinaia di uomini che ne fecero parte operarono missioni ad alto rischio, conseguendo, sia pure a caro prezzo, successi tali da modificare persino l’assetto strategico navale del Mediterraneo.
                        Nel contempo venivano concepite e perfezionate le attrezzature per operazioni subacquee ancor oggi in uso; si realizzavano strumenti d’attacco come il "maiale" (in sostanza un mini sommergibile con un equipaggio di due uomini, dapprima alloggiati esternamente e quindi in un apposito abitacolo, in grado di portare sin dentro ai porti nemici una o più cariche esplosive), il barchino esplosivo, il motoscafo silurante, i sommergibili tascabili per il trasporto di incursori o per operazioni costiere. Nasceva la specialità degli uomini gamma, nuotatori che percorrendo lunghe distanze andavano a porre sotto le chiglie nemiche cariche esplosive denominate "cimici", "mignatte" o "bauletti".
                        Assieme ai mezzi veniva perfezionato lo spirito degli uomini destinati ad usarli; e lo riassume una frase della Medaglia d’Oro al Valore Militare Salvatore Todaro, caduto nell’isola di La Galite nel corso di una missione d’assalto:
                        "Non importa affondare la nave nemica. Una nave viene ricostruita. Quello che importa è dimostrare al nemico che vi sono degli italiani capaci di morire gettandosi con un carico di esplosivo contro le fiancate del naviglio avversario".
                        Lo stesso nome di copertura scelto, Decima Flottiglia MAS, si rifaceva alla Decima Legione romana, prediletta da Giulio Cesare.
                        Nel settembre del 1943 comandante della Decima era un ufficiale di nobili origini, insignito di medaglia d'oro, stimato fra i migliori comandanti di sommergibili italiani: Junio Valerio Borghese.
                        L’annuncio dell’armistizio sorprese l’unità con reparti operanti sia all’estero (e spesso in missioni segrete), sia contro gli alleati in Sicilia ed in Calabria. La sua sorte non fu diversa da quella delle Forze Armate Regie. Gli uomini si divisero, scegliendo fra la fedeltà all'onore militare ed all’alleato tedesco, la fedeltà al Re, l’impegno nella nascente resistenza, l’estraniazione dal conflitto. Al sud la Decima rinacque con scarsi uomini e mezzi sotto la denominazione di Mariassalto.
                        In collaborazione con la marina britannica compì alcune missioni di forzamento di porti del settentrione, e di supporto alle missioni speciali inviate nell’Italia del Nord.
                        A La Spezia, ove aveva sede il comando della Decima, Borghese decise di continuare a combattere a fianco del precedente alleato, mantenendo la propria bandiera ed indipendenza.
                        Quando le forze armate germaniche presero il controllo dell’Italia, con un caso unico nella storia del conflitto, sottoscrissero un patto d’alleanza col piccolo reparto italiano, che, non essendo ancora stato liberato Mussolini, poté ricominciare ad operare, ricostruendo le basi, addestrando nuovi assaltatori, recuperando con metodi spesso di fortuna armi e materiali.
                        Si verificò allora un fatto senza precedenti: migliaia di volontari si presentarono a La Spezia, chiedendo di essere arruolati nella formazione, che era esclusivamente militare ed operava col motto "per l’onore".
                        Rapidamente tutti gli organici dei reparti e delle scuole navali furono al completo: venne decisa la costituzione di reparti di fanteria di marina.
                        Le vicende dei reparti terrestri e navali nei seicento giorni della repubblica sociale italiana sono descritte nelle altre pagine di questo sito.
                        La Decima Flottiglia MAS fu sciolta da suo comandante a Milano, alla fine di aprile del 1945, alla presenza dei rappresentanti dei CLN. Quando Borghese per l’ultima volta uscì dalla caserma, due partigiani di sentinella gli presentarono le armi.

                        "Nulla è gratuito in questo basso mondo. Tutto si sconta, il bene come il male, presto o tardi si paga. Il bene è necessariamente molto più caro."

                        L.F.Celine

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                          #13
                          Storia della Brigata Paracadutisti Folgore
                          Come è nata la "Folgore"
                          Precursori dei reparti di paracadutisti nazionali furono i "Fanti dell'aria Libici", voluti con lungimirante determinazione da Italo Balbo, Governatore Generale della Libia. Superando difficoltà di ogni genere, Balbo riusci a far nascere il 22 marzo 1938 una scuola di paracadutismo all'Aeroporto di Castel Benito, presso Tripoli. L'idea era di creare un battaglione di "Fanti dell'aria" libici inquadrati da ufficiali e sottufficiali nazionali affidandone il comando ad uno dei più valorosi ed esperti ufficiali coloniali, il Tenente Colonnello Medaglia d'Oro al Valor Militare Goffredo Tonini.

                          Si lavorava su un terreno vergine, bisognava continuamente inventare, l'addestramento era molto difficile ed oltretutto la diffidenza innata delle truppe di colore per l'aereo non era ostacolo che si potesse superare con facilità.

                          Il tenente pilota Prospero Freri andò in Libia e si diede ad addestrare nell'uso del paracadute "Salvator" D/37, da lui inventato, gli ufficiali che avrebbero dovuto diventare a loro volta istruttori degli indigeni. Tutto fu fatto rapidamente e gli Ascari, una volta presa confidenza con gli aerei e con i lanci, divennero eccellenti atleti. Purtroppo le prime prove vennero compiute con apparecchi S/81 piuttosto inadatti. Ci furono 15 morti e 72 feriti.

                          Comunque, si continuò costituendo un secondo battaglione, fin quando il 23 maggio del '40 si costituiva a Barce il primo battaglione di paracadutisti nazionali al comando del Maggiore Arturo Calascibetta. Questa volta però si pose maggior cura alla parte più spiccatamente tecnica. Vennero impiegati gli SM/75, opportunamente modificati, mentre il paracadute "Salvator" D/37 fu sostituito dal I/40 che aveva una calotta di maggiori dimensioni e consentiva quindi una velocità di discesa leggermente inferiore. Si stava così procedendo nell'addestramento, quando scoppiò il secondo conflitto mondiale.

                          I battaglioni di paracadutisti "libici" e "nazionali", riuniti con altre unità, costituirono il

                          "gruppo mobile Tonini" con il compito di rallentare le prime avanzate delle truppe britanniche . Altri scontri si verificarono nel 1941, con disperati atti di valore. I pochi superstiti nazionali tornarono in Italia alla Scuola di Tarquinia dove era stata organizzata nella primavera del '40 una scuola militare di paracadutismo che negli anni sarebbe diventata il simbolo dei fanti dell'aria. L'uomo di Tarquinia era il Colonnello pilota paracadutista Giuseppe Baudoin de Gillette, che divenne un pò il padre spirituale di tutti i paracadutisti italiani. A Tarquinia accorsero giovani da ogni specialità delle Forze Armate, sicché la selezione poté essere rigorosissima: il 60% dei volontari venne scartato, ma coloro che rimasero erano veramente ragazzi di prim'ordine.Le difficoltà, come al solito, furono enormi; a Tarquinia c'erano solo un campo d'aviazione, alcune baracche e nient'altro. Baudoin aveva però attorno a sé un valente gruppo di istruttori. Sorsero come per incanto baraccamenti, tende giganti, mentre dalla Piazza d'Armi di Villa Glori a Roma fu fatta sparire una torre metallica di addestramento alta oltre 50 metri, che venne rimontata alla chetichella sul campo di Tarquinia. Da questa scuola che nel gennaio del '43 fu trasferita a Viterbo, uscirono i paracadutisti delle Divisioni "Folgore" e "Nembo", quelli del battaglione Carabinieri, del battaglione San Marco, della Marina, del X Arditi e battaglioni 1° e ADRA (Arditi Distruttori Regia Aereonautica).La "Folgore" venne spedita a fare la guerra di trincea nell'inferno di El Qattara ad El Alamein. La Divisione "Nembo", superata la crisi conseguente all'armistizio, l'8 settembre 1943, fu protagonista della guerra di Liberazione.
                          La Divisione Folgore
                          I primi reparti di paracadutisti italiani dunque, eccezion fatta per i due battaglioni costituiti in Libia, furono formati presso la Scuola di Tarquinia. Nell'ambito di questa scuola, nel 1940, numerosi volontari provenienti da ogni tipo di Arma, Corpo e Specialità del Regio Esercito, diedero vita al Il battaglione (comandato dal Tenente Colonnello Benzi). Agli inizi dei 1941 sorse il III battaglione (Maggiore Pignatelli di Cerchiara), seguito poco dopo dal IV battaglione (Maggiore Bechi Luserna).
                          Queste tre unità, il 1 aprile 1941, formarono il 1 reggimento paracadutisti comandato dal Colonnello Riccardo Bignami.


                          Nello stesso mese, venendosi a concludere la lunga e sanguinosa campagna di Grecia, i paracadutisti furono chiamati a conquistare l'isola di Cefalonia. Incaricato dell'operazione fu il Il battaglione, che trasferì a Lecce due delle sue compagnie, al comando dei Maggiore Zanninovich. Il 30 aprile, dall'aeroporto di Galatina, decollarono alcuni SM-82: il lancio avvenne nella piana di Argostoli e l'azione riuscì senza che fosse sparato un solo colpo. Disarmato il presidio locale, composto da alcune centinaia di gendarmi greci, il gìorno successivo aliquote di paracadutisti, requisiti alcuni pescherecci, sbarcarono nelle isole di Zante e Itaca, evitando che le medesime cadessero sotto il controllo tedesco.

                          Il 5 maggio gli uomini del II battaglione vennero ritirati e sostituiti. Il primo lancio di guerra, per i nostri paracadutisti, si era concluso con un pieno successo. Continuava intanto l'addestramento e la costituzione di nuovi battaglioni, sempre identificati da una numerazione progressiva; tra l'estate 1941 e la primavera 1942 ne furono costituiti sette, tra i quali uno di guastatori-paracadutisti, mentre il 10 agosto 1941 fu formato un gruppo di artiglieria: ora i tempi si dimostravano maturi per poter costituire una Grande Unità.

                          Questa fu ufficialmente costituita il 1 settembre 1941, riunendo il 1° ed il 2° reggimento paracadutisti (V, VI e VII btg.), I'VIII battaglione guastatori-paracadutisti ed il gruppo artiglieria per divisione paracadutisti, che nel gennaio 1942 fu ampliato a reggimento su due gruppi. Ovviamente non tutte le unità furono immediatamente disponibili ed operative, ma lo divennero man mano che procedevano le fasi di addestramento.
                          Nel marzo successivo si aggiunse un 3° reggimento paracadutisti (IX-X e XI btg.), mentre entro giugno il reggimento artiglieria ricevette un terzo gruppo.


                          La Divisione paracadutisti, così costituita, si discostava dalle altre unità di questo livello per il fatto di essere organicamente più leggera, dotata di servizi ridotti e non gravata da pesanti strutture logistiche. Anche il reggimento di artiglieria era dotato unicamente di pezzi da 47/32, destinati a compiti anticarro (ed anche questi con limiti ben precisi) ma inadatto a fornire un normale supporto di fuoco. Pochi i mortai e le armi da accompagnamento, con l'unico vantaggio che l'armamento individuale prevedeva il mitra Beretta. Daltronde tale armamento ben si configurava nell'ambito dell' azione tipo che l'unità era chiamata, almeno istituzionalmente, a compiere: l'aviolancio con azione a sorpresa su un obiettivo e la successiva costituzione di una testa di ponte da difendere per un lasso di tempo limitato, sino ad essere rilevata da forze convenzionali. Belle teorie, quelle esposte, che alla futura "Folgore" furono però negate dagli eventi bellici.

                          La la Divisione paracadutisti, questo era il nome ufficiale della nuova Grande Unità, fu posta al comando dei Generale Francesco Sapienza, sostituito quasi subito dal Generale Enrico Frattini. L'addestramento iniziale fu svolto sino al maggio 1942 in Toscana e nel Lazio, poi vi fu il trasferimento nelle Puglie per le successive fasi addestrative, anche in previsione di un lancio in massa su Malta, nell'ambito dell'operazione convenzionalmente conosciuta con la sigla "C3".
                          L'eccessiva fiducia riposta nei successi di Rommel e la caduta di Tobruck, privilegiarono invece le operazioni da condurre verso l'Egitto e pertanto la fondamentale azione su Malta, per la quale i paracadutisti tanto si erano ìmpegnati, venne abbandonata, negando così alla Divisione il diritto di essere impiegata nella sua totalità in un lancio di guerra. L'esultanza, quando nel luglio 1942 venne deciso il suo impiego in Africa Settentrionale, fu di breve durata, in quanto ben presto i paracadutisti si resero conto che difficilmente sarebbero stati impiegati in aviolanci, ma visto che le dotazioni di lancìo vennero mantenute, rimase ancora qualche flebile speranza.

                          Contemporaneamente la Divisione subì anche un riordinamento organico divenendo, il 28 luglio, 185° Divisione paracadutisti ed assumendo il nome di "Folgore", derivato dal motto latino "Ex Alto Fulgor" coniato per il suo 1° reggimento. Il riordinamento coinvolse anche i suoi reggimenti, che assunsero la nuova numerazione di 185°, 186° e 187°, mentre il reggimento di artiglieria e le aliquote delle specialità furono contraddistinte sempre dal numero 185.
                          Le novità non erano però ancora terminate in quanto, essendo stata decisa la formazione di una nuova Divisione paracadutisti, il 185° reggimento fu trattenuto in Italia, quale nucleo costitutivo della nuova unità, inquadrando il III battaglione e cedendo gli altri due (IV e V) al 187° reggimento. Da questo momento, quindi, la "Folgore" assunse la struttura binaria ed iniziò il suo trasferimento in Africa Settentrionale alla spicciolata, in parte per via aerea dai campi di volo del leccese, in parte dopo un lungo e tortuoso viaggio attraverso i Balcani, da Atene, sempre per via aerea.


                          La prima unità ad arrivare sul suolo africano fu il IV/187° dei Tenente Colonnello Bechi Luserna che giunse a Fuka il 18 Luglio, subito seguìto dagli altri reparti divisionali. Concentrati a El Daba, i paracadutisti, per ragioni di segretezza, dovettero rinunziare a portare il brevetto e tutto quanto di altro poteva denunciare la loro specializzazione. Si trattò di un grande sacrificio, acuito dal fatto che anche la Divisione, per i medesimi motivi, dovette adottare il nome di "Cacciatori d'Africa", e che giunse, perentorio, l'ordine di consegnare tutto il materiale di lancio, che doveva essere rimandato a Derna per l'immagazzinamento: l'ultima speranza di poter effettuare un lancio di guerra venne così a cadere.

                          La rinascita della "Folgore"
                          Lenta e costellata da innumerevoli difficoltà, fu la ricostruzione della Specialità paracadutisti nel secondo dopoguerra.
                          Infatti le clausole del Trattato di Pace erano drasticamente limitative riguardo le Forze Armate Italiane e non tenevano in nessun conto il fatto che queste ultime, dall' Ottobre 1943 all' Aprile 1945, avevano operato a fianco degli Alleati.
                          Tra le altre imposizioni dettate, vi era il divieto di costituire ed addestrare unità di paracadutisti, proprio alla luce dell' importanza che la nascente specialità aveva dimostrato nel corso del conflitto mondiale.


                          Nel 1946 fu attuato un Centro di Esperienze per il Paracadutismo Militare, formato a Roma con ufficiali e sottufficiali istruttori già appartenenti al reggimento "Nembo", che furono in grado di procedere con l'addestramento, utilizzando vecchi materiali di lancio ed aerei SM-82 sfuggiti alla demolizione, grazie alla cessione al Sovrano Militare Ordine di Malta, con le cui insegne volavano. Così fu possibile far riprendere i cicli addestrativi di lancio ad ex militari ed anche ad un certo numero di civili.
                          Nel gennaio 1947 vennero riuniti presso il Centro Militare di Paracadutismo (C.M.P.) di Roma, comandato dal Tenente Colonnello Izzo.

                          L'anno seguente, grazie alla costituzione di una unità sperimentale a livello di compagnia, che iniquadrava anche personale di leva, il Centro lasciò la sede romana per portarsi il 13 marzo a Viterbo, ove già nel periodo bellico era esistita la Scuola paracadutisti militari, affiancata nel 1942 a quella di Tarquinia.

                          Nel contempo, mutata la situazione internazionale ed apertosi il periodo della "guerrafredda" tra le potenze occidentali ed i paesi del blocco sovietico, vennero ad attenuarsi le pesanti limitazioni imposte dal Trattato di Pace, mentre l'ingresso dell' Italia nell' ambito della N.A.T.O., ne sanci la definitiva caduta.
                          L' attività del Centro poté allora proseguire senza soste: le compagnie paracadutisti divennero due e nel 1952 diedero vita al battaglione paracadutisti, prima unita di tale livello ad essere costituita nel dopoguerra.

                          Vennero successivamente costituiti un reparto carabinieri paracadutisti, un reparto sabotatori e cinque plotoni alpini paracadutisti destinati ad altrettante Brigate. Contemporaneamente veniva migliorato il materiale di lancio con l'adozione del paracadute C.M.P. 53 (che finalmente prevedeva anche il paracadute ausiliario) mentre nel campo aereo i vetusti SM-82 lasciarono il campo ai più moderni Fairchild C-119G FLYING BOXCAR (o ''vagoni volanti" nella diffusa dizione italiana) ceduti dagli Stati Uniti in conto MDAP (Mutual Defence Assistance Program).
                          A partire dal 1957 venne ampliato il contingente di leva destinato a ricevere il brevetto da paracadutista ed allo stesso tempo il battaglione operativo venne ampliato quanto ad organici, trasformandosi nel 1° gruppo tattico paracadutisti. A seguito di questo potenziamento fu presa la decisione di lasciare la vecchia sede di Viterbo e di trasferire tutte le unita appartenenti alle aviotruppe nelle nuove sedi di Pisa e Livorno.


                          A Pisa si trasferirono il Centro Militare di Patacadutismo, i reparti Carabinieri e Sabotatori, il reparto Addestramento Reclute, l'Ufficio Studi ed Esperienze e la compagnia aviorifornimenti, mentre a Livorno ebbe sede il 1° gruppo tattico paracadutisti e la costituenda 1° batteria artiglieria paracadutisti. Contemporaneamente a tutti gli effettivi di queste unità fu concessa l'autorizzazione a portare, al posto del basco "cachi" precedentemente in uso, quello "grigioverde" (già della Nembo) quale riconoscimento simbolico della Specialità che si apprestava a nuovi importanti sviluppi.

                          Il 1 gennaio 1963, per trasformazione del Centro Militare di Paracadutismo, si costituì a Pisa la Brigata Paracadutisti, con la seguente struttura:


                          Comando
                          Compagnia carabinieri paracadutisti (divenuta poi battaglione)
                          Battaglione sabotatori paracadutisti
                          1° reggimento paracadutisti (su due battaglioni)
                          Gruppo artiglieria da campagna paracadutisti
                          Sezione elicotteri (costituita soltanto nel 1966)
                          Centro Addestramento Paracadutisti (CEPAR)


                          L'anno successivo il Comando di Brigata si trasferi a Livorno riunendosi a tutte le altre unità operative, mentre a Pisa il CEPAR cambio denominazione assumendo quella di Scuola Militare di Paracadutismo (SMIPAR).

                          Negli anni successivi la "Folgore" si è trovata in prima linea, sia nei casi di emergenza civile, quali inondazioni (1966) e terremoti, sia in quelle occasioni in cui l' uso della forza è stato inevitabile.
                          Finalmente il 10 giugno 1967 la Brigata Paracadutisti fu autorizzata a fregiarsi del glorioso nome di "Folgore" mentre ai suoi effettivi, pochi giorni dopo, fu assegnato il basco di colore amaranto, seguendo una tradizione comune a quasi tutti i paesi del mondo, che vuole le truppe d'elite dotate di baschi dai colori immediatamente identificabili.
                          L'attivitá addestrativa prosegui intensa, portando i membri della Brigata ai più alti livelli internazionali, grazie anche a numerose esercitazioni, spesso in ambito N.A.T.O., che ne ufficializzarono la preparazione.
                          Di pari passo prosegui l'ammodernamento dei mezzi e dei materiali in dotazione, in particolar modo di quelli aerei con la progressiva sostituzione dei vecchi C-119 da parte dei più moderni e capaci C-130 HERCULES e dei G-222 di progettazione italiana, oltre che l'adozione di elicotteri di vario tipo.


                          Il 1971 tuttavia veniva funestato da una grande tragedia: l'alba del 9 novembre un C-130K della Royal Air Force, rischierato insieme ad altri velivoli dello stesso tipo a Pisa per un ciclo di esercitazioni, si inabissava dopo il decollo nella zona delle secche della Meloria con a bordo 46 paracadutisti della Brigata partiti per effettuare un aviolancio in Sardegna. Nelle difficili operazioni di recupero perdeva la vita anche il Serg. Magg. Giannino Caria del btg. sabotatori, decorato alla Memoria di Medaglia d'Oro al Valor Civile ed a cui oggi è intitolata l'ammiraglia della piccola flotta di imbarcazioni della Brigata.

                          La ristrutturazione dell'Esercito italiano, avvenuta nel 1975, che mirava a privilegiare la componente qualitativa rispetto a quella quantitativa, incise profondamente sulla struttura della Brigata, con lo scioglimento del 1° reggimento, l' assegnazione di un nominativo ai singoli battaglioni o gruppi e la costituzione di nuove unita di supporto. In base a tale ristrutturazione i battaglioni paracadutisti 2° e 5° assunsero la denominazione di Tarquinia e El Alamein il battaglione carabinieri assunse quello di Tuscania, il battaglione sabotatori divenne 9° Col Moschin ed il gruppo di artiglieria fu ribattezzato 185° Viterbo, mentre il reparto aviazione divenne 26° gruppo squadrone A.L.E. Giove.
                          Vennero inoltre costituiti un battaglione logistico e le compagnie esplorante, controcarri, e genio pionieri, tutti identificati dal nome di "Folgore". Contemporaneamente il battaglione reclute della Scuola Militare di Paracadutismo di Pisa assunse la numerazione di 3° e la denominazione di Poggio Rusco.

                          Successivi riordinamenti organici, interni alla Brigata, portarono allo scioglimento delle compagnie esplorante e controcarri, i cui effettivi, con logica evolutiva tendente a rendere sempre più efficienti e autonome le unità base, furono ripartiti in seno al 2° e al 5° battaglione. Infine esigenze di ordine logistico, resesi necessarie per ridurre il numero dei reparti esistenti presso la sede di Livorno, portarono ad una dislocazione del 5° battaglione e della compagnia genio pionieri, ora genio guastatori, rispettivamente presso le nuove sedi di Siena e di Lucca.
                          Nell' anno 1992 veniva costituito il 183° btg. Nembo con sede nella città di Pistoia, razionalizzando così l' insediamento territoriale della Brigata. L'anno successivo il 183° Battaglione, divenne 183° Reggimento costituto dal Battaglione fucilieri e dalla Compagnia CCS. E così via tutti gli altri, il 2°, con sede alla caserma Vannucci di Livorno divenne 187° Reggimento Paracadutisti Folgore,
                          e il 5° Battaglione 186° reggimento Paracadutisti Folgore.
                          I Battaglioni rimasero, vennero integrati nei Reggimenti, cosicchè ogni Reggimento era costituito da un Battaglione composto da quattro compagnie fucilieri e una compagnia mortai pesanti, e da una compagnia comando e servizi esterna al battaglione che dipendeva direttamente dal Comando di Reggimento.
                          Nacque anche il 185° Reggimento Artiglieria Paracadutisti, con sede a Livorno alla caserma Pisacane.
                          Il Reggimento aveva una struttura simile ai Reggimenti 183,186,187, ma le Compagnie operative venivano chiamate "batterie" ed erano inquadrate in un Battaglione.
                          Negli anni successivi i Battaglioni ebbero qualche cambiamento a livello di Compagnie fucilieri (da quattro a tre), ma la struttura rimase fondamentalmente intatta. Tuttavia ci furono significativi cambiamenti nel resto della Brigata.
                          Nel 1995 il 9° Battaglione Col Moschin prese la denominazione di 9° Reggimento.
                          Nel 1999 la SMiPar, Scuola Militare di Paracadutismo con sede a Pisa, divenne CeAPar (Centro Addestramento Paracadutismo).
                          Nel 2000 il 185° Reggimento Artiglieria Paracadutisti divenne 185° R.A.O., Reparto Acquisizione Obiettivi e fu inquadrato nelle Forze Per Operazioni Speciali.
                          Nello stesso anno i Carabinieri escono dall'Esercito costituendo una propria Forza Armata e di conseguenza il Reggimento Carabinieri Paracadutisti Tuscania esce dalla Folgore.
                          Nel 2001 viene ricostituito l'8° Reggimento Genio Guastatori Paracadutisti con sede a Legnago (Verona), che andrà a sostituire il Battaglione Genio Guastatori Paracadutisti di Lucca.
                          Nel 2001 l'ultimo cambiamento ai Battaglioni del 183°, 186° e 187° ai quali venne aggiunta una compagnia controcarri.

                          Tuttavia nel 1997, speculazioni di una nota corrente politica, hanno rischiato di far sparire per sempre i Baschi Amaranto, la Brigata folgore ha rischiato realmente lo scioglimento.
                          Montato ad arte il "Somalgate" dal settimanale "panorama", nell'Aprile 2001 la sentenza della Giustizia Italiana:
                          Le foto apparse sul periodico erano state manipolate, insomma, fotomontaggi. E i racconti accusatori dei pseudo-parà italiani, storie gonfiate ad arte da mitomani in cerca di notorietà, probabilmente finanziati da "qualcuno" che non ha mai gradito la Brigata Paracadutisti. Ma la Folgore ha "tenuto botta", si è chiusa in se stessa come fanno le Grandi Famiglie, ha resistito come è Suo Stile ed ha atteso il momento del grande riscatto.
                          Oggi la Brigata Paracadutisti è così composta:

                          Reparto Comando e Supporti Tattici - Sede a Livorno
                          Centro Addestramento Paracadutistmo - Sede a Pisa
                          183° Reggimento Paracadutisti "Nembo" - Sede a Pistoia
                          186° Reggimento Paracadutisti "Folgore" - Sede a Siena
                          187° Reggimento Paracadutisti "Folgore" - Sede a Livorno
                          8° Reggimento Genio Guastatori Paracadutisti - Sede a Legnago
                          185° Reggimento Acquisizione Obiettivi - Sede a Livorno
                          9° Reggimento D'assalto Paracadutisti "Col Moschin" - Sede a Livorno

                          Dopo anni di impiego a "singhiozzo" e di secondo livello nelle missioni umanitarie, la Folgore torna ad operare in quelle pericolosissime zone del mondo per cui è stata creata, essendo stata schierata negli ultimi anni in Kosovo ("richiamata" spesso nei Balcani per ristabilire l'ordine nei periodi di caos), in Afghanistan, Sudan ed Iraq. Nell'ultimo anno, 2005, ha addirittura schierato contemporaneamente i suoi cinque leggendari Reggimenti 9°, 183°, 185°, 186°, 187° tra Sudan ed Iraq.
                          Gli Incursori del 9° Reggimento Col Moschin, manco a dirlo, non hanno mai trovato pausa, sono l'unico Reggimento, non solo dell'Esercito, ma delle intere Forze Armate Italiane ad aver partecipato a tutte le missioni all'estero in cui è stata coinvolta l'Italia.
                          Dato importante è stato l'impiego dell'intera Brigata al G-8 di Genova nel luglio 2001. Ai Paracadutisti il compito di garantire la sicurezza all'aeroporto Cristoforo Colombo, considerato "zona rossa". Nei giorni caldi del G-8 i Parà italiani ebbero l'esclusivo ed importante incarico di garantire, insieme al personale americano, la sorveglianza all'Air Force One, l'aereo del Presidente degli Stati Uniti George Bush. Superata quindi "l'oscurita" voluta da una particolare componente politica che governava l'Italia nella seconda metà degli anni novanta, la Brigata è tornata nei posti che le competono, quelli dove è necessario un addestramento ai massimi livelli per disimpegnare i compiti assegnati.
                          Tutto ciò che ami rimane, il resto è scorie. Tutto ciò che ami non ti può essere sottratto. Tutto ciò che ami è la tua stessa eredità..." (Ezra Pound)

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                            il Don Chisciotte del mare
                            “Da mesi e mesi non faccio che pensare ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare. Penso che il mio posto è con loro”.
                            Così scrisse Salvatore Todaro il 12 dicembre 1942, un giorno prima di morire, in una lettera ad un suo amico salentino, che aveva vissuto con lui le incredibili vicende a bordo del sommergibile “Cappellini”. Todaro aveva solo trentaquattro anni e tutta una carriera davanti a se, aveva una moglie giovane e due figlie piccolissime (la secondogenita vedrà la luce, a Livorno, dove tuttora vive, proprio in quel giorno dedicato a Santo Spiridione, un pecoraio di Cipro rozzo e incolto che grazie alla fede e al coraggio diventò vescovo di Trmithonte ) e non aveva nessun motivo per desiderare la morte.
                            Todaro si trovava nel porto di La Galite, in Tunisia, a bordo del piropeschereccio Cefalo, un nome emblematico, mitico, che rievoca la leggenda del bellissimo cacciatore che uccide per errore la propria moglie e poi, pazzo di dolore, si getta in mare. Forse, chissà, anche lui riteneva di aver fatto un errore fatale nella sua ultima sanguinosa battaglia in Atlantico, una lunga e impari lotta condotta in superficie tra il suo sommergibile Cappellini e l’Emaueus, una grossa nave mercantile inglese trasformata in una sorta di incrociatore ausiliario, carica di truppe destinate in Africa, assai ben armata, con diversi cannoni a lunga gittata. Che cominciano a bersagliare il Cappellini su di un mare in tempesta le cui onde sono come frustate per il sommergibile italiano, lo spazzano da prora a poppa, lo sballottano come un sughero, asteria o osso di seppia. Ma alla fine Todaro, nonostante tutto, prevale e riesce ad affondare quel finto mercantile inglese carico di oltre tremila soldati. Che naufragano. Molti di essi moriranno, inghiottiti dalle onde gelide. E insieme a loro moriranno molti marinai dell’equipaggio.
                            Stavolta Todaro non li può aiutare, non può fare nulla per loro. Non ha a disposizione neppure una lancia di salvataggio e inoltre stanno sopraggiungendo gli aerei e le navi inglesi . Deve far presto a squagliarsela e non è per nulla facile. Il sommergibile è assai malandato, ci sono avarie un po’ da tutte le parti e naviga in superficie. E’ un’impresa sfuggire al tiro incrociato degli inglesi, che lo hanno ormai avvistato. Todaro opera una immersione di fortuna e cerca scampo sul fondo marino. Dopo varie peripezie riesce a salvarsi e a far ritorno a Bordeaux, dov’è la base dei sommergibili italiani. Ma quella battaglia denominata di “Freetown” segna il limite, il crinale dell’ascesa di Salvatore Todaro, il Don Chisciotte del mare . Quella vicenda lo aveva mutato profondamente. Qualcosa si era spento in lui, qualcosa di sacrale si era rotto dentro di lui.

                            Sacerdote del mare
                            Chi lo ha conosciuto bene lo ricorda come un asceta, un mistico, un sacerdote che appartiene ad una religione che ha per tempio il mare e per altare il sommergibile . Altri dicono che era come un antico spartano: sobrio, schivo, introverso, solitario, con un portamento fiero e un’andatura rigida, quasi altera. In realtà quell’andatura era dovuta al fatto che Todaro portava il busto, a causa di una frattura alla colonna vertebrale, riportata quando volava sugli idrovolanti come osservatore aereo. Oggi diremmo che Todaro era un invalido a tutti gli effetti e forse avrebbe il diritto alla pensione di invalidità, ma lui non voleva sentirlo dire neppure per scherzo. Non accettava neppure che si accennasse alla sua menomazione, peraltro a conoscenza di tutti i medici che lo avevano sottoposto a visita sanitaria, per timore di essere relegato al servizio sedentario. Del resto la cultura del sacrificio gli era connaturata e l’Accademia Navale di Livorno la sviluppò oltre ogni limite. Era – come scrisse un giornalista dell’epoca - “un soldato nel più puro senso della parola, un soldato nel più segreto fondo del suo spirito e lo dimostrò subito dopo quell’incidente applicandosi come un matto, giorno e notte, allo studio dei sommergibili e dei mezzi d’assalto per diventare, in capo a pochi anni, uno dei più grandi esperti e specialisti del settore”.

                            La vicenda del “Kabalo”
                            Allo scoppio della guerra ottiene il comando del sommergibile Cappellini, destinato in Atlantico. Todaro è tra i primi ad attraversare lo stretto di Gibilterra e a raggiungere Bordeaux, dove è la base del Comando dei sommergibili italiani, Betasom. Qui gli basta qualche mese per diventare famoso in tutta Europa. Per la cronaca è il pomeriggio del 15 ottobre 1940, quando avvista, con il periscopio, un grosso piroscafo belga, al servizio degli inglesi, il Kabalo. Lo affonda con il cannone, poi rimorchia i ventisei naufraghi e, incredibilmente, navigando in emersione ed esponendosi a tutti i rischi possibili, li trasporta in mare per ben quattro giorni e quattro notti. Alla fine di varie peripezie e dopo che per l’ennesima volta si è spezzato il cavo di rimorchio, Todaro decide di prendere a bordo i naufraghi. E’ un’altra “follia”, ma lui prosegue nell’estremo tentativo di salvare quegli uomini e dopo aver percorso oltre 750 miglia riesce finalmente a farli approdare, in sicurezza, sulla costa delle Azzorre . Si salvano tutti. E’ un miracolo. Si parla di lui su tutti i giornali d’Europa: E’ ormai il “Gentiluomo del mare”, o il “Don Chisciotte del Mare”.
                            “Neppure il buon samaritano della parabola evangelica avrebbe fatto una cosa del genere”, sbotta l’ammiraglio tedesco Donitz, che pure lo ammira. “Signori, - dice rivolgendosi ai colleghi italiani – io vi prego di voler ricordare ai vostri ufficiali che questa è una guerra e non una crociata missionaria. Il Signor Todaro è un bravo comandante, ma non può fare il Don Chisciotte del mare”.

                            L’onorificenza del “Tu”
                            Nella vicenda del Kabalo vi erano stati molti aspetti contrastanti e anche inconvenienti di natura diplomatica, e alla fine per Todaro anziché elogi ci furono richiami all’ordine e moniti da parte dei superiori. Ma il Don Chisciotte del mare non ne tenne affatto conto e un mese dopo ripeté pari pari l’operazione Kabalo, affondando e poi salvando i naufraghi del piroscafo inglese Shakespeare, confermando la sua fama di piantagrane e di “originale”, anche per il modo che aveva di combattere, (in emersione e con il cannone) assolutamente fuori dagli schemi. Non era sfuggito neppure il suo strano comportamento con gli inferiori, molti dei quali gli davano addirittura del “Tu”. Erano tutti quelli che aveva decorato sul campo con la frase rituale: “Da oggi tu mi darai del Tu”.
                            Questa onorificenza del Tu valeva più di una medaglia d’oro per i suoi fedeli marò, che lo adoravano come un semidio, tale era il suo carisma. Da tutta la sua persona promanava un grande senso di sicurezza, ardore e spregiudicatezza, quasi un senso di invulnerabilità. Era un vero capo che dava costantemente l’esempio per ardimento e smisurato spirito di sacrificio, era lui il primo ad esporsi ai pericoli, a soccorrere e incoraggiare i suoi uomini, ai quali riusciva a trasmettere autorevolezza e fiducia e un altissimo senso di protezione. Perciò non desta alcuna meraviglia che i suoi uomini facessero carte false per imbarcare con lui, che sembrava conoscere in anticipo l’esito delle battaglie e dava ordini con un tono pacato di voce, ordini che erano vaticini e profezie. E al riguardo c’è tutto un fiorire di aneddoti.

                            Mago Bakù
                            Todaro era anche un uomo di profonda e originale cultura: conosceva testi antichi e rari di letteratura, astronomia, matematica, e soprattutto aveva una vera e propria passione per la psicanalisi, fino al punto di sperimentare su di sé (una sorta di cavia volontaria, come lo era stato lo stato il padre della psicanalisi) le teorie freudiane . Ma alla fine gli predilesse Jung, allora poco conosciuto in Italia, soffermandosi a lungo sulla teoria dell’inconscio collettivo.
                            A Bordeaux, fra una missione di guerra e l’altra, passava lunghe giornate chiuso nel suo camerino a leggere, studiare, sperimentare. Si narra, a proposito di aneddoti, che una volta, per gioco, riuscì ad ipnotizzare una signora con estrema facilità. E così la sua fama di corsaro gentiluomo si colorò di altri aspetti, assunse toni accesi e istrioneschi. In effetti c’era, in quel suo pizzetto di barba nerissima, un che di mefistofelico ed anche nel suo sguardo obliquo, magnetico, indagatore, c’era un che di stregonesco.
                            Era quello il periodo in cui Todaro s’era appassionato alle teorie di Lombroso e continuava a leggere, disordinatamente, un po’ di tutto, dalla filosofia alla parapsicologia, ai libri sulle pratiche magiche. E così a bordo cominciarono a chiamarlo Mago Bakù. Si dice, in effetti, che avesse una sorta di preveggenza. C’è chi giura di averlo sentito fare delle previsioni che si sono avverate fin nei minimi particolari. Una volta lasciò a terra un marinaio perché prevedeva che ci sarebbero stati pericoli solo per lui. E infatti in mare non successe nulla, però il marinaio in questione fu colto da un violento attacco di appendicite, con pericolo di peritonite, e si salvò solo perché poté essere prontamente ricoverato in ospedale e trasportato in sala operatoria.

                            La morte di Stiepovich
                            Un’altra volta mandò in licenza il suo mitragliere più fido, che non voleva saperne di lasciare i suoi compagni. “E’ un ordine!”, gli disse con perentorietà il comandante Todaro . Poi confidò ad un amico che il giovane marinaio aveva il destino segnato. “ Che si goda qualche giorno in famiglia prima di quel giorno”. Un mese dopo il marinaio rimase ucciso, mentre si trovava alla sua mitragliera da uno scoppio di granata che frantumò la torretta del sommergibile. Fu infallibile fino a quel giorno.
                            Ma alla vigilia di Natale del 1941, mentre si accingeva a compiere l’ennesima missione, qualcosa lo turbò. Non riusciva ad avere quella sua solita serenità, quel distacco necessario per concentrarsi. Confidò ad un compagno di corso e amico, il comandante Fecia di Cossato, che improvvisamente s’era fatta nebbia dentro di lui. Era incapace di vedere con la mente. “Questa volta non so proprio che cosa ci capiterà”, disse all’amico sorridendo. Poi si fece serio e disse: “C’è qualcosa in me che non riesco a decifrare ed è la prima volta che mi capita. Se non dovessi tornare, ti prego, consegna questa a mia moglie”.
                            Si sfilò dall’anulare la fede nuziale e la diede all’amico.
                            “E’ l’unica cosa di valore che ho e desidero che torni a chi me l’ha donata”.
                            Usciti in mare si scontrarono con l’incrociatore inglese Eumaues. Todaro non morì in quella che sarebbe stata la drammatica battaglia di Freetown, ma morirono molti suoi marinai e il tenente Danilo Stiepovich, che aveva sostituito al pezzo un mitragliere gravemente ferito.
                            Colpito in pieno da una granata, con una gamba maciullata e molte altre gravi ferite, ormai morente, Stiepovich giaceva riverso sulla mitragliera. Todaro gli si avvicinò, se lo prese tra le braccia e gli chiese, con tutta la dolcezza possibile: “Che cosa posso fare per te, Danilo?”
                            “Non mi mandare in infermeria… Non servirebbe a nulla… Lasciami qui… Voglio vedere affondare quella là”, - rispose Stiepovich indicando con la mano la nave che continuava a cannoneggiare il sommergibile.
                            “Te lo prometto”, disse Todaro. E pochi minuti dopo l’ incrociatore inglese colava a picco colpito in pieno da un siluro. Stiepovich faceva in tempo a vederlo inabissarsi, poi spirava. Todaro gli si avvicinava e gli chiudeva gli occhi per sempre.

                            Il male è la guerra
                            E subito dopo inizia la lunga odissea del Cappellini in costante e disperata fuga, avvistato, inseguito, braccato, colpito, riporta gravi danni che sembrano irreparabili. Invece riesce a eludere il nemico acquattandosi sul fondo dell’Oceano per due giorni e due notti, al buio. Due giorni e due notti a seppellire i morti, a tamponare le mille avarie, ad innalzare preghiere al cielo, sotto milioni e milioni di tonnellate d’acqua marina. Infine il rientro di fortuna a Luz, un porto della Gran Canaria e, qualche giorno dopo, beffando ben cinque navi inglesi che lo attendevano al varco, fuori dal porto, riesce a raggiungere Bordeaux. Il Cappellini è davvero malridotto, rimarrà fuori uso per diversi mesi. E’ il momento buono per sbarazzarsi di Todaro che era diventato un problema per tutti, per Supermarina (il comando generale della Marina) e per gli alleati tedeschi, che pure ammirandolo molto (gli avevano conferito due croci di ferro) lo ritenevano troppo umanitario.
                            In realtà chiese lui di essere sbarcato perché sentiva di aver fallito la sua missione.
                            “Ma perché dici che hai fallito?,” gli ribatteva il fraterno amico Comandante Leoni. “Hai fatto l’impossibile, sei riuscito, nonostante le difficoltà estreme, a salvare molti marinai e a riportare il Cappellini in porto. Quello che hai fatto è miracoloso e tu dici che hai fallito. Perché?”
                            Non rispose. Forse era convinto di essere venuto meno nei confronti dei suoi marinai morti, molti dei quali aveva decorato sul campo con la frase rituale: “Da oggi tu mi darai del tu”. O forse le ragioni erano altre. Ma non ne voleva parlare. “Tu hai l’animo nitido e pulito come cristallo, - proseguiva Leoni - hai il massimo senso dell’onore, la tua coscienza ti detta sempre le mosse che devi compiere...”
                            “Nulla, nulla puoi rimproverarti, capisci? Di che cosa ti accusi, Totò?” - concluse accorato. In realtà, Todaro non sapeva dire perché si sentiva colpevole.
                            “Penso che il mio posto è con i miei marinai, sul fondo del mare, accanto a loro. Sì, questo penso.” Disse. E si tacque. Leoni scosse la testa e se ne andò.
                            Forse intuì che stava cambiando lo spirito della guerra, le regole erano diverse.
                            O forse capì, vedendo tanti naufraghi, migliaia di naufraghi, che chiedevano disperatamente aiuto, vedendo il sangue di Stiepovioch e dei suoi marinai caduti, che il male non era il nemico, ma la guerra stessa. “Sì, il male è la guerra”, pensò e il pensiero salì fino al cielo. In tutto l’universo gli sembrava che fosse disegnata, che campeggiasse, a caratteri infiniti, l’immensa scritta “ IL MALE E’ LA GUERRA”. Ed ecco allora la verità consequenziale. Tutta la sua lunga preparazione alla vita era stata un errore! Io ho passato tutto la mia vita a prepararmi per la guerra. Ma la guerra è un male, un male, capisci! Sono un fallito! Un fallito!
                            Così pensò quell’uomo che sembrava ormai privo di spirito, quell’uomo che aveva affondato molti piroscafi, molti incrociatori, che aveva lottato alla pari con navi molto più armate e potenti di lui e anche contro gli aerei, sempre rischiando in prima persona . Quel comandante che spesso si metteva al cannone, che aveva la canna così arroventata da cuocerci due uova, e ci si metteva a mani nude, mani bruciate, sanguinanti.
                            Quel guerriero del mare che aveva sempre combattuto con grande coraggio e spirito da cavaliere antico, con lealtà, generosità, magnanimità, senza mai veramente odiare il nemico. Ma ora forse avvertiva per la prima volta il peso del sentimento dell’odio. Ora capiva che non si può fare la guerra per cavalleria, perché fare la guerra significa dover uccidere e quindi odiare. E quel sentimento ignobile stava prevalendo su di lui e gli sarebbe rimasto per sempre appiccicato nell’anima .Questo non lo sopportava. Gli era intollerabile.

                            Il Comandante Todaro è morto
                            Chiese e ottenne di essere impiegato nelle operazioni più rischiose. Prima con i Mas in Crimea, poi al comando del piropeschereccio Cefalo, in Tunisia, che appoggiava i motoscafi d’assalto nelle imprese più difficili e rischiose. E aspettò la morte che inevitabilmente sarebbe arrivata.
                            Intanto viene a conoscenza degli orrendi misfatti perpetrati ai danni dei naufraghi italiani del Laconia, a cui avevano mozzato le mani per impedir loro di salire a bordo dell’imbarcazione di salvataggio . Alla fine i naufraghi italiani morti saranno ben 1350 su complessivi 1800. Tutti crudelmente abbandonati al proprio destino! E lui aveva rischiato cento mille volte la vita per salvare i ventisei naufraghi belgi del Kabalo! …
                            “Ma sì, ho sbagliato tutto, ora lo so, ne sono certo”, pensa, mentre sta effettuando l’ennesima missione notturna nel porto di Bona. Ma il tempo è pessimo e l'azione non si può effettuare. Ritorna nel porto di La Galite e si mette a dormire. E' il mattino del 13 dicembre 1942 e un aereo inglese, uno “Spitfire” scendendo a volo radente e spezzonando, mitraglia il Cefalo. La contraerea riesce a mettere in fuga l’aereo e subito dopo alcuni marinai italiani si precipitano a bordo del peschereccio, cercano Todaro. Lo chiamano, ma non risponde. Vanno nella sua cuccetta e lo trovano con gli occhi chiusi, sembra che dorma.
                            In tutto quel fracasso non s’è neppure mosso. Ma guardandolo meglio si nota una piccola scheggia che gli ha trapassato la tempia .Gli erano già a fianco le sirene del mare per trasportare la sua anima tra gli abissi insondabili.
                            “Il Comandante Todaro è morto”, grida un marinaio piangendo.
                            E tutti sono increduli e addolorati. Piangono in silenzio. Guardano il cadavere e non credono ai loro occhi. Sembra loro impossibile che Todaro sia morto. Per chiunque lo avesse conosciuto l’idea che un tal uomo potesse morire sembrava irreale. Aveva incarnato come pochi il mito dell’eroe buono. Ma in realtà il guerriero del mare, il cavaliere azzurro, il Don Chisciotte del mare era morto molto tempo prima.
                            “Morirò quando il mio spirito sarà lontano da me”, aveva detto più volte.
                            E il suo spirito si era cominciato ad allontanare da lui quel giorno della battaglia di “Freetown”, quel giorno in cui aveva preso coscienza del male della guerra, quel giorno in cui aveva cominciato a odiare il mestiere che faceva.
                            Il mitico eroe Salvatore Todaro era morto in quel giorno.
                            Quello che giaceva ora lì, nella cuccetta del Cefalo, non era il comandante Todaro, ma solo il suo simulacro.

                            "Nulla è gratuito in questo basso mondo. Tutto si sconta, il bene come il male, presto o tardi si paga. Il bene è necessariamente molto più caro."

                            L.F.Celine

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                              REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA: PARACADUTISTI UN NASTRO NERO BORDATO TRICOLORE “Per l'onore d'Italia" Marsilio Bruzio Era lì gettato come cosa inutile, sul lastricato bagnato di pioggia di una anonima stradina di un piccolo paese calabrese: Soveria Mannelli, nella tarda serata dell'8 settembre 1943. Colui che si era disfatto del rotolo per decorazioni, sapeva il perché di tale rifiuto o forse chi lo aveva trafugato lo considerava oggetto di scarso valore venale; comunque fosse, quel nastro nero con ai lati un sottile tricolore aveva ormai fatto il suo tempo e assolto anticipatamente i motivi che avevano ispirato la sua istituzione e il suo significato: 10 anni di anzianità nella MVSN - tale era la spiegazione del nastrino sormontato, generalmente, da un piccolo gladio bronzeo. Era la sera dell’armistizio e da poco tempo la radio aveva annunciato attraverso l'etere il funesto annuncio con cui l’Italia cedeva le armi. Quando il paracadutista lo scorse in terra rimase sorpreso; lo colse quasi istintivamente, lo ripulì con la mano, lo arrotolò con cura e lo ripose nel tascapane. Quel tricolore era il simbolo dell’Italia e non meritava certo di essere lasciato in terra sul selciato bagnato e fangoso fra l'indifferenza della gente spaurita dagli avvenimenti e dai movimenti militari sulla SS. 19 dove transitavano le truppe tedesche in marcia verso Salerno. Il giorno successivo, si decise la sorte del III/185° "Nembo" al comando del capitano Edoardo Sala, scosso intimamente dagli eventi, sollecitato dal suo temperamento ad una decisione che stava maturando dopo sofferta riflessione: continuare a combattere, respingere l'infamante armistizio, mantenere fede al patto militare con l'alleato germanico. Un impegno personale che non poteva essere disatteso. Restava come aspetto formale da adempiere, comunicare al proprio diretto superiore la decisione presa, nel rispetto della gerarchia e delle consuetudini militari. Al comando di reggimento il maggiore Massimino risultava assente per servizio da due giorni; altro tentativo fatto più tardi si rivelava infruttuoso. Non restava che avvisarlo con un biglietto tramite l'aiutante maggiore capitano Manfredi: un semplice pezzo di carta così concepito: "Signor Maggiore, il nemico non deve avere le nostre armi e noi le portiamo in salvo perché alla Patria possono ancora servire e la nostra vita anche. Per l'onore d'ltalia. F.to capitano Edoardo Sala comandante del III Btg. del 185° Rgt paracadutisti - 9 settembre 1943 - ore 22.00". La stessa sera il battaglione Sala che aveva accettato unanimemente la continuazione della guerra al fianco della Germania, proseguiva la marcia con i granatieri corazzati della 29a diretto verso la piana di Salerno. La decisione presa era di grande importanza, piena di incognite sull'immediato futuro, foriera di pesanti responsabilità personali che mettevano in gioco carriera e avvenire. Ma il dado oramai era stato tratto! Al mattino del 10, durante una sosta, uno sconosciuto paracadutista consegnò al suo comandante il rotolo di decorazioni trovato a Soveria Mannelli. Sala osservò attentamente interpretando con grande sensibilità nei colori del nastro, il nero come lutto per l'ignobile armistizio, il piccolo tricolore calpestato quasi ad offuscare l'immagine dell’Italia e dei suoi soldati; l'altro tricolore senza macchie, un segno di volontà, una possibile resurrezione morale, il suo riscatto militare. Sul tavolo la copia del biglietto di commiato e la frase finale: "per l'onore dell’Italia"; un nastro come simbolo, una frase significativa come motivazione ideale sorte spontaneamente da un atto di fede nella notte più buia della guerra italiana. Da quel giorno - 10 settembre 1943 - ognuno dei paracadutisti del battaglione Sala ebbe un pezzetto di nastro tricolore da portare come impegno morale sulla manica sinistra dell'uniforme, appena al di sotto del piccolo paracadute dorato: ricordare e non dimenticare! Più tardi il nastro ebbe una sua definizione formale ed una omologazione ufficiale poiché venne adottato dai paracadutisti del Raggruppamento "Nembo" del maggiore Rizzatti completato con la scritta in oro - 8. 9.1943 - PER L'ONORE D’ITALIA. - Era nato con quel piccolo tricolore il simbolo che avrebbe ispirato e guidato gli uomini e i principali ideali della RSI.
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