16/2/2010 (7:19) - RETROSCENA Ora il Cavaliere teme davvero
la tangentopoli-bis
UGO MAGRI
ROMA
Berlusconi scopre la «nuova Tangentopoli». Teme un bis del ‘94. Che si ripeta quel clima, tra arresti per ruberie vere o presunte, da cui la gente tragga l’idea di una corruzione politica dilagante. Proprio sotto elezioni regionali. Col risultato che a pagare il conto sarebbe lui, il Cavaliere: per una volta risparmiato dalle inchieste, ma tradito dai suoi uomini, tirato a fondo dal suo stesso partito...
Può darsi che il premier ne parli stamane, quando calerà da Arcore nella Capitale per dare il là alla campagna delle candidate donna, in primis la Polverini. Ci ragiona sopra da venerdì, molto l’ha impressionato la lettura del «Mattinale» (foglio a circolazione interna e riservata del Pdl, redatto dagli strateghi più attenti). Vi si punta l’indice contro le toghe scatenate «a sostegno dell’opposizione», ma soprattutto vi si annunciano cataclismi, cupi presagi, compreso «il rischio che la situazione degeneri pericolosamente, al punto da condizionare la campagna elettorale e il risultato del Pdl».
Ieri mattina, mentre di questo ragionava insieme coi fedelissimi, e dell’inchiesta fiorentina che trascina nel fango il coordinatore nazionale Verdini, e delle voci incontrollate di nuovi coinvolgimenti parecchio in alto, e del dramma di Bertolaso tuttora sull’orlo delle dimissioni, e del panico che circola nei Sacri Palazzi vaticani (leggi: Giubileo 2000), nel mezzo di tutto ciò Berlusconi è stato raggiunto dalla telefonata di un vecchio amico. Ne ha profittato per sfogarsi contro quanti orchestrano la nuova campagna di scandali, ce l’ha con i «seminatori di discordia», con i mandarini del vecchio e nuovo giornalismo... «Il mio consenso resiste, sono ancora al 67 per cento di gradimento», e quasi gli sembra un miracolo. Perché senza bisogno di consultare i sondaggi di Euromedia Research il premier capisce che qualcosa sta succedendo, da rabdomante coglie gli slittamenti d’umore sotterranei, un «mood» collettivo tendente al peggio.
Ma soprattutto Berlusconi si rende conto che stavolta non sono solo complotti, teoremi delle «toghe rosse»: qui ci sono amministratori presi con le mani nel sacco, prove inconfutabili, su Pennisi addirittura fotografiche. Per quanta fede possa nutrire nell’onestà dei suoi discepoli, il Cavaliere non è nato ieri: il presidente della Provincia di Vercelli agli arresti domiciliari (concussione), l’ex assessore al Turismo in Lombardia nel carcere di Voghera, un partito del Nord che, se si dà retta a chi lo frequenta, Berlusconi raderebbe al suolo tanto è incavolato. Vede Bossi spalancare le fauci come un alligatore («Noi della Lega stiamo sempre attenti a non fare pirlaggini...»), sente Fini ergersi a paladino dei buoni costumi («Chi ruba non lo fa per il partito ma perché è un ladro, un volgare lestofante») e smarcarsi al punto da proporre il rifugio nel sistema elettorale uninominale che segnò il tracollo della Prima Repubblica.
Tra gli intimi del premier vince la tesi che debba battere un colpo, magari più d’uno. «Serve un segnale forte e chiaro», supplica Letizia Moratti. Per rassicurare la Lombardia, il Piemonte, l’Italia intera. Le «liste pulite» a Milano non sono ancora abbastanza, per battere lo sconcerto Berlusconi deve metterci personalmente la faccia. Contrattaccare dando garanzie. E la prova del nove saranno le candidature: qui non si discute più di «veline» e soubrette, si parla di ras locali potenti che dalle patrie galere premono per essere ricandidati, o rivogliono il posto nonostante disavventure gravi. Al telefono col vecchio amico, il Cavaliere pare abbia detto: «Non ho mai rubato una lira, non voglio perdere voti per colpa di questi signori». Impugnerà la frusta contro i mercanti nel tempio?
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