la recupero leggendo di persone come queste..
Allarme ebola in congo: la testimonianza di un infermiere di «medici senza frontiere»
L'odore del sangue, le divise protettive
e l'impossibilità di stringere una mano
Ogni gesto è calcolato, il rischio c'è sempre. Mi immergo nel lavoro sperando che l'abilità con le mani mi sostenga
Un operatore in Congo con divisa protettiva (©MSF)KAMPUNGU (Congo) - Mi sveglio presto completamente bagnato come le lenzuola che mi avvolgono. La mia mano va automaticamente alla fronte per sentire se ho la febbre. Un riflesso incondizionato, un gesto "pavloviano" come se ogni goccia di sudore mi ricordasse la mia vulnerabilità quotidiana. Vedo che il telo della mia tenda è pieno di gocce di condensa e mi sento pervaso da un odore di muffa. Di solito appena esce un debole raggio di sole portiamo tutto fuori ad asciugare. Ho la sensazione di aver avuto un incubo la scorsa notte, che forse spiega la mia eccessiva traspirazione notturna. Ripercorro con la mente gli ultimi giorni, penso alla giornata di ieri e a una bambina di 13 anni che per aiutare la famiglia canta e sostiene i malati. È stata messa in isolamento e la sera siamo stati chiamati perché non si sentiva bene.
Anja, l’infermiera, e io siamo entrati nell’unità di isolamento alle 19.30. La nostra "divisa protettiva" ci sembrava meno pesante grazie a una leggera brezza che ci manteneva freschi! Dovevamo spostare un nuovo paziente dalla zona dei casi sospetti a quella riservata ai casi conclamati, zona ad alto rischio di infezione e volevamo farlo nel più breve tempo possibile per proteggere gli altri pazienti. Siamo quindi entrati in una piccola stanza e, nonostante gli sforzi e la massima attenzione prestata, i nostri corpi hanno sfiorato di quando in quando la parete, causando un altro motivo di stress e un rilascio di endorfina nei nostri corpi. Henriette giaceva sul letto ma era sveglia. L’odore di sangue si sentiva in tutta la stanza e un nauseante odore di liquidi fecali rendeva il nostro stare lì quasi insopportabile. Ma alla fine ci si abitua sempre.
Le abbiamo chiesto se voleva muoversi con sua nonna in un’altra parte dell’unità. Camminava con difficoltà e aveva bisogno di aiuto. Abbiamo steso della carta assorbente in terra, l’abbiamo coperta con un lenzuolo e abbiamo dato degli abiti di protezione alla nonna. La donna ci ha ringraziato e ci è venuta incontro porgendoci la mano. E in un gesto protettivo… ci siamo ritratti. Il mio respiro si è bloccato e ho pensato a quanto fosse stato disumano un gesto del genere, un gesto così gentile non dovrebbe essere proibito - non qui, oggi, adesso! Siamo usciti dalla stanza. Siamo stati disinfettati subito appena usciti e durante i 20 minuti in cui ci spogliavamo pensando e ripensando a ogni gesto con attenzione e meticolosità. Avevamo una lampada solare ma abbiamo acceso i fari della macchina per maggior sicurezza. Azaad, il nostro specialista in igiene e potabilizzazione dell’acqua, ci ha detto che abbiamo seguito alla lettera ogni movimento. Abbiamo avuto una riunione fino alle 11 di sera. Poi le luci sono calate insieme alle mie palpebre.
Il giorno dopo mi sono recato con Esther, un altro medico di MSF, nell’unità di isolamento per controllare lo stato di salute di Henriette, uno stato che abbiamo trovato completamente cambiato: praticamente non aveva né mangiato né bevuto. Abbiamo deciso di prendere un campione di sangue e al contempo metterle una flebo per evitare inutili sofferenze. Henriette aveva difficoltà a stare in piedi, stava lì senza parlare e con lo sguardo vitreo. Abbiamo cercato la vena e le abbiamo preso un campione di sangue. Ogni nostro gesto è calcolato e preciso, in fondo sai che il rischio è sempre davanti a te. Cerco di evitare il contatto visivo con gli altri e mi immergo nel lavoro sperando che la mia abilità con le mani mi sostenga, almeno oggi. Una volta che la flebo è in vena, osservo Henriette e ripenso alle sedute di sostegno psicologico quando lo psicologo mi dice sempre di far parlare il linguaggio del corpo, ove sia possibile. Qui ovviamente non lo è… quindi penso nella mia immaginazione che dovrei prendere la sua mano tra le mie e dirle «coraggio» nella sua lingua.
Luis Encinas, infermiere di Medici Senza Frontiere
Allarme ebola in congo: la testimonianza di un infermiere di «medici senza frontiere»
L'odore del sangue, le divise protettive
e l'impossibilità di stringere una mano
Ogni gesto è calcolato, il rischio c'è sempre. Mi immergo nel lavoro sperando che l'abilità con le mani mi sostenga
Un operatore in Congo con divisa protettiva (©MSF)KAMPUNGU (Congo) - Mi sveglio presto completamente bagnato come le lenzuola che mi avvolgono. La mia mano va automaticamente alla fronte per sentire se ho la febbre. Un riflesso incondizionato, un gesto "pavloviano" come se ogni goccia di sudore mi ricordasse la mia vulnerabilità quotidiana. Vedo che il telo della mia tenda è pieno di gocce di condensa e mi sento pervaso da un odore di muffa. Di solito appena esce un debole raggio di sole portiamo tutto fuori ad asciugare. Ho la sensazione di aver avuto un incubo la scorsa notte, che forse spiega la mia eccessiva traspirazione notturna. Ripercorro con la mente gli ultimi giorni, penso alla giornata di ieri e a una bambina di 13 anni che per aiutare la famiglia canta e sostiene i malati. È stata messa in isolamento e la sera siamo stati chiamati perché non si sentiva bene.
Anja, l’infermiera, e io siamo entrati nell’unità di isolamento alle 19.30. La nostra "divisa protettiva" ci sembrava meno pesante grazie a una leggera brezza che ci manteneva freschi! Dovevamo spostare un nuovo paziente dalla zona dei casi sospetti a quella riservata ai casi conclamati, zona ad alto rischio di infezione e volevamo farlo nel più breve tempo possibile per proteggere gli altri pazienti. Siamo quindi entrati in una piccola stanza e, nonostante gli sforzi e la massima attenzione prestata, i nostri corpi hanno sfiorato di quando in quando la parete, causando un altro motivo di stress e un rilascio di endorfina nei nostri corpi. Henriette giaceva sul letto ma era sveglia. L’odore di sangue si sentiva in tutta la stanza e un nauseante odore di liquidi fecali rendeva il nostro stare lì quasi insopportabile. Ma alla fine ci si abitua sempre.
Le abbiamo chiesto se voleva muoversi con sua nonna in un’altra parte dell’unità. Camminava con difficoltà e aveva bisogno di aiuto. Abbiamo steso della carta assorbente in terra, l’abbiamo coperta con un lenzuolo e abbiamo dato degli abiti di protezione alla nonna. La donna ci ha ringraziato e ci è venuta incontro porgendoci la mano. E in un gesto protettivo… ci siamo ritratti. Il mio respiro si è bloccato e ho pensato a quanto fosse stato disumano un gesto del genere, un gesto così gentile non dovrebbe essere proibito - non qui, oggi, adesso! Siamo usciti dalla stanza. Siamo stati disinfettati subito appena usciti e durante i 20 minuti in cui ci spogliavamo pensando e ripensando a ogni gesto con attenzione e meticolosità. Avevamo una lampada solare ma abbiamo acceso i fari della macchina per maggior sicurezza. Azaad, il nostro specialista in igiene e potabilizzazione dell’acqua, ci ha detto che abbiamo seguito alla lettera ogni movimento. Abbiamo avuto una riunione fino alle 11 di sera. Poi le luci sono calate insieme alle mie palpebre.
Il giorno dopo mi sono recato con Esther, un altro medico di MSF, nell’unità di isolamento per controllare lo stato di salute di Henriette, uno stato che abbiamo trovato completamente cambiato: praticamente non aveva né mangiato né bevuto. Abbiamo deciso di prendere un campione di sangue e al contempo metterle una flebo per evitare inutili sofferenze. Henriette aveva difficoltà a stare in piedi, stava lì senza parlare e con lo sguardo vitreo. Abbiamo cercato la vena e le abbiamo preso un campione di sangue. Ogni nostro gesto è calcolato e preciso, in fondo sai che il rischio è sempre davanti a te. Cerco di evitare il contatto visivo con gli altri e mi immergo nel lavoro sperando che la mia abilità con le mani mi sostenga, almeno oggi. Una volta che la flebo è in vena, osservo Henriette e ripenso alle sedute di sostegno psicologico quando lo psicologo mi dice sempre di far parlare il linguaggio del corpo, ove sia possibile. Qui ovviamente non lo è… quindi penso nella mia immaginazione che dovrei prendere la sua mano tra le mie e dirle «coraggio» nella sua lingua.
Luis Encinas, infermiere di Medici Senza Frontiere
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