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Straordinaria, è vero, ma pure old
E' la prima postata.
...ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta»
NERUDA (che secondo me non è neanche un poeta, ma un pittore che dipinge con le parole, l'immagine della pazienza ardente è straordinaria)
Lentamente muore
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.
Muere lentamente quien se transforma en esclavo del hábito, repitiendo todos los días los mismos trayectos, quien no cambia de marca, no arriesga vestir un color nuevo y no le habla a quien no conoce.
Muere lentamente quien hace de la televisión su gurú.
Muere lentamente quien evita una pasión, quien prefiere el ***** sobre blanco y los puntos sobre las "íes" a un remolino de emociones, justamente las que rescatan el brillo de los ojos, sonrisas de los bostezos, corazones a los tropiezos y sentimientos.
Muere lentamente quien no voltea la mesa cuando está infeliz en el trabajo, quien no arriesga lo cierto por lo incierto para ir detrás de un sueño, quien no se permite por lo menos una vez en la vida, huir de los consejos sensatos.
Muere lentamente quien no viaja, quien no lee, quien no oye música, quien no encuentra gracia en sí mismo.
Muere lentamente quien destruye su amor propio, quien no se deja ayudar.
Muere lentamente, quien pasa los días quejándose de su mala suerte o de la lluvia incesante.
Muere lentamente, quien abandona un proyecto antes de iniciarlo, no preguntando de un asunto que desconoce o no respondiendo cuando le indagan sobre algo que sabe.
Evitemos la muerte en suaves cuotas, recordando siempre que estar vivo exige un esfuerzo mucho mayor que el simple hecho de respirar.
Solamente la ardiente paciencia hará que conquistemos una espléndida felicidad.
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie' mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua, 15
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio, 20
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.
Dall'Alpi alle Piramidi, 25
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar. 30
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito 35
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno; 40
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria, 45
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato, 50
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio 55
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor. 60
Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere 65
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese, 70
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei, 75
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli, 80
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio 85
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò; 90
e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre 95
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza 100
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita, 105
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
"
Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"
So che non rientra negli spazi tipici di un post, non ha "i tempi televsivi" potremmo dire. Eppure è la quintessenza della lirica leopardiana, una poesia la cui esegesi potrebbe durare giorni.
LA GINESTRA
O IL FIORE DEL DESERTO
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte. ma_75@bodyweb.com
troppa cultura in questo topic: mi mettete in soggezione.Dispiace spezzarla...conosco poche poesie.Eccone una che forse l'autore del topic conosce e apprezza
ICARO di Yukio Mishima da "Sole e acciaio" 1968
Icaro
Appartengo, fin dal principio, al cielo?
Se non v'appartengo, perché
mi ha fissato così, per un attimo,
con il suo sguardo infinitamente azzurro,
e mi ha attirato lassù, con la mia mente,
in alto, sempre più in alto,
e senza tregua mi seduce e mi trascina
verso altezze remote all'umano?
L'equilibrio severamente studiato,
il volo razionalmente calcolato,
nessuna anomalia sarebbe possibile:
perché dunque la brama di salire nel cielo
è così simile, in sé, alla follia?
Niente mi può appagare,
subito mi tedia qualsiasi novita' terrestre.
Più in alto, più in alto, instabilmente
vengo trascinato sempre più vicino al fulgore del sole.
Perché la sorgente di luce della ragione mi brucia,
perché la sorgente di luce della ragione mi annienta?
Sotto di me, in lontananza, villaggi e fiumi sinuosi
assai più tollerabili appaiono di quando sono vicini.
Perché mi perdonano, mi approvano, mi invitano,
suggerendo che da così lontano
potrei anche amare l'umano
sebbene un simile amore non possa essere la mia meta?
E, se anche lo fosse, non avrei forse ragione
di appartenere fin dal principio al cielo?
Mai ho invidiato la libertà degli uccelli,
mai ho desiderato l'indolenza della natura,
incitato solo dal misterioso struggimento
a salire, ad avvicinarmi,
ad immergermi nell'azzurro del cielo.
Così contrario alle gioie organiche,
così lontano dai piaceri di uno spirito superiore.
Più in alto, più in alto,
irretito, forse, dalla lusinga e dalla vertigine delle ali di cera?
E dunque, Se dal principio appartenessi alla terra?
E perché la terra, se così non fosse,
provocherebbe con tanta rapidità la mia caduta
senza concedermi il tempo di pensare o di sentire?
Perché la terra così morbida e languida,
mi ha accolto con l'urto della lamina d'acciaio?
La tenera terra si è trasformata in acciaio
solo per mostrarmi la mia fragilità,
affinché la natura mi mostrasse
che la caduta è molto più naturale del volo,
molto più naturale di quella misteriosa passione?
L'azzurro del cielo è un'illusione
prodotta dall'ebbrezza bruciante ed effimera
delle ali di cera, e tutto, fin dal principio
fu escogitato dalla terra, a cui io appartengo.
O forse il cielo, segretamente, favorì il piano
per colpirmi con la sua punizione?
Per punirmi della colpa
di non credere che esista un io,
o di credere troppo nel mio io,
di volere impazientemente conoscere a chi io appar*tenga,
o di presumere di sapere tutto
e di tentare di volare lontano,
verso l'ignoto,
o verso il conosciuto,
sempre verso il punto di un azzurro simbolo?
il re si è disteso e non sorgerà più,
il Signore di Kullab non sorgerà più;
egli ha vinto il male,non verrà più;
benchè fosse forte di braccio,non sorgerà più.
So che non rientra negli spazi tipici di un post, non ha "i tempi televsivi" potremmo dire. Eppure è la quintessenza della lirica leopardiana, una poesia la cui esegesi potrebbe durare giorni.
beh sì è il suo manifesto, e che manifesto.
ma la cosa che mi appassionava di leopardi era ripescare nello zibaldone i pensieri scritti in prosa e vedere come sono confluiti in poesia.
resti lì, con la mandibola a terra e capisci che c'è un tocco di divino.
ci sono pagine e pagine che descrivono il volto, le movenze, i capelli, l'incedere, i denti, il naso e poi "occhi ridenti e fuggitivi"
tre parole. un mondo.
quindi sì, a fare l'esegesi di una sola strofa viene fuori un libro.
(ma il kit fai dai te dell'ermo colle di berlusconi te lo ricordi? quando si è fatto trapiantare gli ulivi secolari sulla sua collina finta con la panchina? santiddio)
So che non rientra negli spazi tipici di un post, non ha "i tempi televsivi" potremmo dire. Eppure è la quintessenza della lirica leopardiana, una poesia la cui esegesi potrebbe durare giorni.
LA GINESTRA
Hai ragione, meriterebbe da sola un Thread a parte.
Non posso, essendo il paese del Poeta il mio paese, non postare anch'io una sua "canzone", tra le più belle poesie di amore e morte mai scritte, in ogni luogo e di ogni tempo;
Questi versi immortali sono sulla tomba di un mio amico, anche lui da chiuso morbo combattuto e vinto
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
...ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta»
LA SPIGOLATRICE DI SAPRI (di Luigi Mercantini, 1857)
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Me ne andavo al mattino a spigolare,
quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore;
e alzava una bandiera tricolore;
all'isola di Ponza s'è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s'è ritornata ed è venuta a terra; sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.
Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,
ma s'inchinaron per baciar la terra,
ad uno ad uno li guardai nel viso;
tutti aveano una lagrima e un sorriso. Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
«Siam venuti a morir pel nostro lido».
Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»
Guardommi e mi rispose: «O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella». Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: «V'aiuti 'l Signore!»
Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare.
Due volte si scontrar con li gendarmi, e l'una e l'altra li spogliar dell'armi;
ma quando fur della Certosa ai muri,
s'udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra 'l fumo e gli spari e le scintille
piombaro loro addosso più di mille.
Eran trecento, e non voller fuggire;
parean tremila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a lor correa sangue il piano:
fin che pugnar vid'io per lor pregai; ma un tratto venni men, né più guardai;
io non vedeva più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
"
Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma scappare, però, non potrete giammai, perché là, vi sta guardando Notre Dame"
ma la cosa che mi appassionava di leopardi era ripescare nello zibaldone i pensieri scritti in prosa e vedere come sono confluiti in poesia.
resti lì, con la mandibola a terra e capisci che c'è un tocco di divino.
ci sono pagine e pagine che descrivono il volto, le movenze, i capelli, l'incedere, i denti, il naso e poi "occhi ridenti e fuggitivi"
tre parole. un mondo.
quindi sì, a fare l'esegesi di una sola strofa viene fuori un libro.
(ma il kit fai dai te dell'ermo colle di berlusconi te lo ricordi? quando si è fatto trapiantare gli ulivi secolari sulla sua collina finta con la panchina? santiddio)
Oddio, quanto stride la tua ultima citazione con le cime eteree della poesia. La stessa differenza esistente tra un vaso greco appena emerso dalla terra e la sua copia plasticosa nella bancarella del souvenir.
PS: egli, in una delle sue magioni sarde, si è fatto costruire anche un finto nuraghe.
Hai ragione, meriterebbe da sola un Thread a parte.
Non posso, essendo il paese del Poeta il mio paese, non postare anch'io una sua "canzone", tra le più belle poesie di amore e morte mai scritte, in ogni luogo e di ogni tempo;
Questi versi immortali sono sulla tomba di un mio amico, anche lui da chiuso morbo combattuto e vinto
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Poesia che soffre solo della banalizzazione scolastica, ma la cui verità appare in tutto il suo dolore quando ci viene sulle labbra a proposito di vicende nostre.
In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte. ma_75@bodyweb.com
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