Come è stato spesso osservato, ogni volta che si diffonde l'idea che l'America sia entrata in una fase di declino, essa reagisce e, al suo interno, si mettono in moto processi che le danno nuovo slancio, una nuova giovinezza. Le profezie sul declino americano (come quella dello storico Paul Kennedy negli anni Ottanta) erano insomma, fino a oggi, «profezie che si auto-falsificavano ».
Magari andrà così anche questa volta. C'è però una differenza rispetto agli anni Ottanta. Allora, l'America aveva di fronte solo un rivale in declino (l'Urss) e le ricette reaganiane bastarono a rivitalizzarla, rivitalizzando l'intero Occidente. Oggi, la crescita delle potenze asiatiche sembra un fatto irreversibile. La crisi finanziaria potrebbe allora accelerare (come ho scritto sul Corriere il 10 ottobre) la tendenza, già in atto, alla ridistribuzione del potere, il definitivo passaggio da un sistema internazionale unipolare (una sola superpotenza) a un sistema multipolare (quattro o cinque grandi potenze). Non mi pare che la possibile emergenza di un sistema multipolare sia in contraddizione con la constatazione che l'America resterà comunque a lungo la più forte potenza militare né con il fatto che solo l'America ha tuttora le risorse per far ripartire un nuovo ciclo economico espansivo. Sarebbe un multipolarismo asimmetrico (come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi), un sistema internazionale comunque diverso da quello che abbiamo conosciuto. Con regole diverse. La mia ipotesi è che un mondo del genere sarebbe più pericoloso (con più rischi di guerra) e più ostile alle libertà.
È stato il predominio indiscusso dell'America a favorire la diffusione della democrazia nel mondo (ci sono oggi molte più democrazie che in passato). Con un ridimensionamento, sia pure relativo, dell'America, quel processo perderebbe la spinta propulsiva. Che fine farebbe l'Europa in un sistema multipolare? Il multipolarismo è un sogno coltivato da molti europei desiderosi di sbarazzarsi degli arroganti americani. Al tempo dell'invasione del-l'Iraq, il francese Chirac e il tedesco Schroeder accarezzarono l'idea di dare vita, insieme alla Russia di Putin, a una coalizione capace di «bilanciare» gli Stati Uniti, come si fa, appunto, nei sistemi multipolari. All'epoca sembrava un soggetto da film di fantastoria. Ma domani? Per cavarsela in un mondo multipolare l'Europa avrebbe solo due possibi-lità: diventare in fretta un «Superstato» (gli Stati Uniti d'Europa) capace di trattare alla pari con le altre potenze o, in alternativa, mantenersi legata agli americani. Sul Corriere di ieri Mario Monti ha giustamente ricordato quale straordinario successo sia stato il raggiunto accordo fra i governi europei sulle misure per fronteggiare la crisi finanziaria. Un successo dei governi, come Monti ha sottolineato.
Penso si possa dire che abbiamo visto in azione una sorta di incarnazione della «Europa delle patrie» prefigurata a suo tempo dal generale de Gaulle. Proprio come de Gaulle sognava, il presidente Sarkozy sta oggi energicamente coordinando un'Europa dei governi impegnati a fronteggiare l'emergenza. La Commissione (che, insieme alla Corte di giustizia e alla Banca europea, rappresenta la dimensione sovranazionale dell'Unione) è invece emarginata. In una situazione da «stato d'eccezione», le decisioni spettano al potere vero, quello dei governi. Quali ne sono le implicazioni per un mondo multipolare? Raramente, in Italia almeno, il dibattito pubblico sull'Europa tiene conto dei risultati dei più seri «studi europei » (un filone sviluppatissimo nelle accademie e nei centri di ricerca occidentali). Esistono oggi molti bravi studiosi delle istituzioni europee. Sapete quanti di loro reputano possibile una prossima trasformazione dell'Unione in una Federazione, negli Stati Uniti d'Europa? Nemmeno uno. Gli studiosi possono sbagliarsi, per carità, ma la cosa più probabile è che l'Europa resti in futuro ciò che oggi è: un bizzarro amalgama di sovranazionalità (solo in certe materie) e di compromessi intergovernativi. Niente Stati Uniti d'Europa. Un'Europa che può scegliere la strada del massimo coordinamento nelle fasi di emergenza ma che è anche pronta a dividersi di nuovo (per esempio, sulla sicurezza) quando l'emergenza finisce.
Come farebbe un'Europa simile a fronteggiare il mondo multipolare, plausibilmente dominato dalla competizione fra grandi imperi? Sarebbe un vaso di coccio. Per difendere indipendenza e libertà, dovrebbe restare legata agli Stati Uniti e alla loro «egemonia liberale ». Se il «blocco transatlantico» resistesse, esso resterebbe comunque, anche con un'America in ripiegamento, la più importante concentrazione di potere politico, economico e militare. Ma resisterebbe quel blocco alle prevedibili tensioni? Se Barack Obama diventerà presidente ci sarà forse una nuova luna di miele fra Stati Uniti e Europa. Finita la luna di miele, l'insofferenza europea per gli americani e la voglia di prenderne le distanze (come si è visto ad agosto, in occasione della guerra russo-georgiana) torneranno a farsi sentire. Tanto più che dalla crisi finanziaria America e Europa usciranno in modi diversi. Lo ha scritto benissimo Salvatore Carrubba ( Il Sole 24 ore, 18 ottobre). Solo apparentemente America e Europa stanno reagendo allo stesso modo (con massicce iniezioni di statalismo) alla crisi in atto. Per l'America, infatti, si tratta di misure temporanee, prese obtorto collo (incoerenti con la sua radicata cultura individualista, liberale e libertaria). Per l'Europa (continentale), che nei decenni passati aveva subìto più che abbracciato con convinzione il liberalismo economico, si tratta invece di tornare, con le solite ricette socialdemocratiche (da chiunque gestite) e simil- keynesiane, allo statalismo di sempre.
Quando la crisi sarà superata, si scoprirà di quanto si siano allontanate, sul piano culturale prima ancora che su quello delle scelte politico-economiche, le due sponde dell'Atlantico. Pensare che il nuovo interventismo statale europeo possa restare a lungo senza effetti sui rapporti internazionali mi pare un'illusione. Comunque, vale la pena di parlarne. Sperando che, a forza di parlarne, diventi anche questa una profezia che si autofalsifica.
20 ottobre 2008 cosa ne pensate di questo editoriale di panebianco?
Magari andrà così anche questa volta. C'è però una differenza rispetto agli anni Ottanta. Allora, l'America aveva di fronte solo un rivale in declino (l'Urss) e le ricette reaganiane bastarono a rivitalizzarla, rivitalizzando l'intero Occidente. Oggi, la crescita delle potenze asiatiche sembra un fatto irreversibile. La crisi finanziaria potrebbe allora accelerare (come ho scritto sul Corriere il 10 ottobre) la tendenza, già in atto, alla ridistribuzione del potere, il definitivo passaggio da un sistema internazionale unipolare (una sola superpotenza) a un sistema multipolare (quattro o cinque grandi potenze). Non mi pare che la possibile emergenza di un sistema multipolare sia in contraddizione con la constatazione che l'America resterà comunque a lungo la più forte potenza militare né con il fatto che solo l'America ha tuttora le risorse per far ripartire un nuovo ciclo economico espansivo. Sarebbe un multipolarismo asimmetrico (come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi), un sistema internazionale comunque diverso da quello che abbiamo conosciuto. Con regole diverse. La mia ipotesi è che un mondo del genere sarebbe più pericoloso (con più rischi di guerra) e più ostile alle libertà.
È stato il predominio indiscusso dell'America a favorire la diffusione della democrazia nel mondo (ci sono oggi molte più democrazie che in passato). Con un ridimensionamento, sia pure relativo, dell'America, quel processo perderebbe la spinta propulsiva. Che fine farebbe l'Europa in un sistema multipolare? Il multipolarismo è un sogno coltivato da molti europei desiderosi di sbarazzarsi degli arroganti americani. Al tempo dell'invasione del-l'Iraq, il francese Chirac e il tedesco Schroeder accarezzarono l'idea di dare vita, insieme alla Russia di Putin, a una coalizione capace di «bilanciare» gli Stati Uniti, come si fa, appunto, nei sistemi multipolari. All'epoca sembrava un soggetto da film di fantastoria. Ma domani? Per cavarsela in un mondo multipolare l'Europa avrebbe solo due possibi-lità: diventare in fretta un «Superstato» (gli Stati Uniti d'Europa) capace di trattare alla pari con le altre potenze o, in alternativa, mantenersi legata agli americani. Sul Corriere di ieri Mario Monti ha giustamente ricordato quale straordinario successo sia stato il raggiunto accordo fra i governi europei sulle misure per fronteggiare la crisi finanziaria. Un successo dei governi, come Monti ha sottolineato.
Penso si possa dire che abbiamo visto in azione una sorta di incarnazione della «Europa delle patrie» prefigurata a suo tempo dal generale de Gaulle. Proprio come de Gaulle sognava, il presidente Sarkozy sta oggi energicamente coordinando un'Europa dei governi impegnati a fronteggiare l'emergenza. La Commissione (che, insieme alla Corte di giustizia e alla Banca europea, rappresenta la dimensione sovranazionale dell'Unione) è invece emarginata. In una situazione da «stato d'eccezione», le decisioni spettano al potere vero, quello dei governi. Quali ne sono le implicazioni per un mondo multipolare? Raramente, in Italia almeno, il dibattito pubblico sull'Europa tiene conto dei risultati dei più seri «studi europei » (un filone sviluppatissimo nelle accademie e nei centri di ricerca occidentali). Esistono oggi molti bravi studiosi delle istituzioni europee. Sapete quanti di loro reputano possibile una prossima trasformazione dell'Unione in una Federazione, negli Stati Uniti d'Europa? Nemmeno uno. Gli studiosi possono sbagliarsi, per carità, ma la cosa più probabile è che l'Europa resti in futuro ciò che oggi è: un bizzarro amalgama di sovranazionalità (solo in certe materie) e di compromessi intergovernativi. Niente Stati Uniti d'Europa. Un'Europa che può scegliere la strada del massimo coordinamento nelle fasi di emergenza ma che è anche pronta a dividersi di nuovo (per esempio, sulla sicurezza) quando l'emergenza finisce.
Come farebbe un'Europa simile a fronteggiare il mondo multipolare, plausibilmente dominato dalla competizione fra grandi imperi? Sarebbe un vaso di coccio. Per difendere indipendenza e libertà, dovrebbe restare legata agli Stati Uniti e alla loro «egemonia liberale ». Se il «blocco transatlantico» resistesse, esso resterebbe comunque, anche con un'America in ripiegamento, la più importante concentrazione di potere politico, economico e militare. Ma resisterebbe quel blocco alle prevedibili tensioni? Se Barack Obama diventerà presidente ci sarà forse una nuova luna di miele fra Stati Uniti e Europa. Finita la luna di miele, l'insofferenza europea per gli americani e la voglia di prenderne le distanze (come si è visto ad agosto, in occasione della guerra russo-georgiana) torneranno a farsi sentire. Tanto più che dalla crisi finanziaria America e Europa usciranno in modi diversi. Lo ha scritto benissimo Salvatore Carrubba ( Il Sole 24 ore, 18 ottobre). Solo apparentemente America e Europa stanno reagendo allo stesso modo (con massicce iniezioni di statalismo) alla crisi in atto. Per l'America, infatti, si tratta di misure temporanee, prese obtorto collo (incoerenti con la sua radicata cultura individualista, liberale e libertaria). Per l'Europa (continentale), che nei decenni passati aveva subìto più che abbracciato con convinzione il liberalismo economico, si tratta invece di tornare, con le solite ricette socialdemocratiche (da chiunque gestite) e simil- keynesiane, allo statalismo di sempre.
Quando la crisi sarà superata, si scoprirà di quanto si siano allontanate, sul piano culturale prima ancora che su quello delle scelte politico-economiche, le due sponde dell'Atlantico. Pensare che il nuovo interventismo statale europeo possa restare a lungo senza effetti sui rapporti internazionali mi pare un'illusione. Comunque, vale la pena di parlarne. Sperando che, a forza di parlarne, diventi anche questa una profezia che si autofalsifica.
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