La storia Vittima delle leggi razziali, lasciò Milano per Filadelfia
L'ex bimbo espulso dal duce
non riesce a tornare italiano
Nel '39 gli fu tolta la cittadinanza, lo Stato non gliela rende
Umberto VorchheimerNEW YORK — L'hanno data a Martin Scorsese, Patti Lupone e Robert De Niro, che ora può votare nel paese dei bisnonni. Per la jure sanguinis il tempo d'attesa è di un anno; sei mesi soltanto per quella da matrimonio. Ad ottenerla sono per lo più italo-americani di seconda, terza, persino quarta generazione che non hanno mai vissuto in Italia. Né hanno intenzione di farlo.
Ma l'irrefrenabile boom di cittadinanze italiane conferite dal Bel Paese ai cittadini d'oltreoceano esclude alcuni individui che, paradossalmente, italiani già lo sono. Come il 75enne Umberto Vorchheimer, milanese trapiantato a Filadelfia che dopo ben quattro anni di vani tentativi non riesce ad ottenere da Roma il riconferimento della cittadinanza rubatagli dai fascisti nel 39, in quanto ebreo. All'indomani della polemica sollevata da Famiglia Cristiana sul «rischio di un ritorno al fascismo», l'incredibile vicenda di Vorchheimer suona come un caso a dir poco emblematico, in odore d'antisemitismo. «Oggi è più facile ottenere per la prima volta la cittadinanza piuttosto che riacquisire quella perduta», spiega Giorgina Vitale, 82 anni, ebrea torinese emigrata in Connecticut che da ben 15 anni cerca di coronare lo stesso sogno di Vorchheimer. L'odissea di quest'ultimo inizia nel febbraio del 1933 a Milano, dove l'unico figlio di Vittorio Felice — facoltoso commerciante di origine tedesca trasferitosi in Italia nel 1912 e dal 1936 cittadino italiano — vede la luce in un appartamento in via Visconti di Modrone. Tre anni più tardi la serena esistenza dell'affiatata famiglia va in frantumi.
«Nel giro di pochi mesi mia madre morì di cancro a 31 anni», rievoca Vorchheimer, ex dirigente della General Electric in pensione, sposato con l'americana Carol e padre di due figlie, Ellen e Shahana — Mussolini ci revocò la cittadinanza e papà fu costretto a svendere per poche lire ai fascisti il suo negozio di cappelli in corso Venezia». Dopo un pellegrinaggio tra Liguria e Svizzera, dove frequenta la scuola e viene accudito dall'adorata nonna materna Omi, è il momento di lasciare l'Italia. «Il giorno del mio settimo compleanno nonna mi disse che sarei partito per New York insieme a papà, mentre lei avrebbe raggiunto i suoi figli a Buenos Aires». L'ultimo giorno di scuola, quando un compagno gli grida dietro «l'America perderà», lui non sa di cosa stia parlando. Dopo aver ritirato il visto al consolato americano di Napoli, padre e figlio si recano al cimitero Maggiore di Milano per dire addio alla moglie e madre: «Papà recitò sottovoce il Kaddish, mentre io deposi una pietra sulla tomba». Salpano per l'America a bordo del transatlantico Rex e al loro arrivo a New York vengono accolti da zio Julius, tratto in salvo da Dachau dal fratello Vittorio Felice verso la metà degli anni 30. «Quando papà seppe che Julius vi era stato internato, si presentò al campo di concentramento con i documenti secondo cui il parente diretto di un cittadino italiano non poteva essere detenuto», racconta. «"Ha ragione", risposero i nazisti e lo lasciarono andare». Ma un decreto in data 15/12/1939 emanato da Vittorio Emanuele III su proposta del Duce revocherà «ad ogni effetto» la loro cittadinanza italiana. Da quando, anni fa, seppe che Usa e Italia avevano introdotto la doppia cittadinanza, Vorchheimer non si dà pace.
Per riottenerla si è appellato persino a Fiamma Nirenstein, vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera(Pdl), senza ottenere il minimo riscontro. E così il suo dossier — protocollo numero 7947 — continua a giacere tra le carte impolverate dell'ufficio cittadinanza del ministero dell'Interno. «Se Vorchheimer avesse fatto richiesta di cittadinanza regolare avrebbe già concluso», teorizza adesso Renzo Oliva, viceconsole a Filadelfia. «E invece ha chiesto la riconcessione: un tipo di pratica laboriosa gestita dal Viminale con un arretrato di oltre tre anni». «Il consolato ignora i fatti», ribatte Giuseppe Ascrizzi, vice prefetto presso il ministero dell'Interno, presidente della Commissione interministeriale che deve esprimere parere positivo o negativo sulle richieste di cittadinanza. «La cittadinanza viene ripristinata automaticamente su dichiarazione degli interessati all'ultimo comune italiano di residenza. La questione riguarda marginalmente il ministero». «Mi domando come sarebbe stata la mia vita se non mi avessero cacciato dall'Italia — riflette adesso Vorchheimer —. Milano è la mia città, un buon posto per crescere e diventare vecchi». L'amarezza ha accompagnato anche suo padre, fino alla morte: «Era un uomo infelice, non l'ho mai visto ridere». Ma lui e Giorgina non si arrendono: «Non chiediamo soldi o restituzione dei beni ma solo che il governo ci riconosca che siamo italiani. È un gesto simbolico che per noi avrebbe un valore grandissimo. Se verrà quando siamo ancora vivi».
L'ex bimbo espulso dal duce
non riesce a tornare italiano
Nel '39 gli fu tolta la cittadinanza, lo Stato non gliela rende
![](http://www.corriere.it/Media/Foto/2008/08/24/Umberto--140x180.jpg)
Ma l'irrefrenabile boom di cittadinanze italiane conferite dal Bel Paese ai cittadini d'oltreoceano esclude alcuni individui che, paradossalmente, italiani già lo sono. Come il 75enne Umberto Vorchheimer, milanese trapiantato a Filadelfia che dopo ben quattro anni di vani tentativi non riesce ad ottenere da Roma il riconferimento della cittadinanza rubatagli dai fascisti nel 39, in quanto ebreo. All'indomani della polemica sollevata da Famiglia Cristiana sul «rischio di un ritorno al fascismo», l'incredibile vicenda di Vorchheimer suona come un caso a dir poco emblematico, in odore d'antisemitismo. «Oggi è più facile ottenere per la prima volta la cittadinanza piuttosto che riacquisire quella perduta», spiega Giorgina Vitale, 82 anni, ebrea torinese emigrata in Connecticut che da ben 15 anni cerca di coronare lo stesso sogno di Vorchheimer. L'odissea di quest'ultimo inizia nel febbraio del 1933 a Milano, dove l'unico figlio di Vittorio Felice — facoltoso commerciante di origine tedesca trasferitosi in Italia nel 1912 e dal 1936 cittadino italiano — vede la luce in un appartamento in via Visconti di Modrone. Tre anni più tardi la serena esistenza dell'affiatata famiglia va in frantumi.
«Nel giro di pochi mesi mia madre morì di cancro a 31 anni», rievoca Vorchheimer, ex dirigente della General Electric in pensione, sposato con l'americana Carol e padre di due figlie, Ellen e Shahana — Mussolini ci revocò la cittadinanza e papà fu costretto a svendere per poche lire ai fascisti il suo negozio di cappelli in corso Venezia». Dopo un pellegrinaggio tra Liguria e Svizzera, dove frequenta la scuola e viene accudito dall'adorata nonna materna Omi, è il momento di lasciare l'Italia. «Il giorno del mio settimo compleanno nonna mi disse che sarei partito per New York insieme a papà, mentre lei avrebbe raggiunto i suoi figli a Buenos Aires». L'ultimo giorno di scuola, quando un compagno gli grida dietro «l'America perderà», lui non sa di cosa stia parlando. Dopo aver ritirato il visto al consolato americano di Napoli, padre e figlio si recano al cimitero Maggiore di Milano per dire addio alla moglie e madre: «Papà recitò sottovoce il Kaddish, mentre io deposi una pietra sulla tomba». Salpano per l'America a bordo del transatlantico Rex e al loro arrivo a New York vengono accolti da zio Julius, tratto in salvo da Dachau dal fratello Vittorio Felice verso la metà degli anni 30. «Quando papà seppe che Julius vi era stato internato, si presentò al campo di concentramento con i documenti secondo cui il parente diretto di un cittadino italiano non poteva essere detenuto», racconta. «"Ha ragione", risposero i nazisti e lo lasciarono andare». Ma un decreto in data 15/12/1939 emanato da Vittorio Emanuele III su proposta del Duce revocherà «ad ogni effetto» la loro cittadinanza italiana. Da quando, anni fa, seppe che Usa e Italia avevano introdotto la doppia cittadinanza, Vorchheimer non si dà pace.
Per riottenerla si è appellato persino a Fiamma Nirenstein, vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera(Pdl), senza ottenere il minimo riscontro. E così il suo dossier — protocollo numero 7947 — continua a giacere tra le carte impolverate dell'ufficio cittadinanza del ministero dell'Interno. «Se Vorchheimer avesse fatto richiesta di cittadinanza regolare avrebbe già concluso», teorizza adesso Renzo Oliva, viceconsole a Filadelfia. «E invece ha chiesto la riconcessione: un tipo di pratica laboriosa gestita dal Viminale con un arretrato di oltre tre anni». «Il consolato ignora i fatti», ribatte Giuseppe Ascrizzi, vice prefetto presso il ministero dell'Interno, presidente della Commissione interministeriale che deve esprimere parere positivo o negativo sulle richieste di cittadinanza. «La cittadinanza viene ripristinata automaticamente su dichiarazione degli interessati all'ultimo comune italiano di residenza. La questione riguarda marginalmente il ministero». «Mi domando come sarebbe stata la mia vita se non mi avessero cacciato dall'Italia — riflette adesso Vorchheimer —. Milano è la mia città, un buon posto per crescere e diventare vecchi». L'amarezza ha accompagnato anche suo padre, fino alla morte: «Era un uomo infelice, non l'ho mai visto ridere». Ma lui e Giorgina non si arrendono: «Non chiediamo soldi o restituzione dei beni ma solo che il governo ci riconosca che siamo italiani. È un gesto simbolico che per noi avrebbe un valore grandissimo. Se verrà quando siamo ancora vivi».
Commenta