Leader nel senso più vero, ecco l’unico termine che da solo può sintetizzare la straordinaria figura del “caudillo”.
Leader nel senso più vero, ecco l’unico termine che da solo può sintetizzare la straordinaria figura di Daniel Passarella.
Ma anche di più: “caudillo”, un dittatore alla sudamericana, per intenderci.
Basti pensare che i neo convocati della Nazionale argentina, al tempo in cui vi giocava da superbo libero, ricevevano da lui e da quell’altro simpaticone del centrocampista Gallego questo originale benvenuto: “Ehi, ragazzo, guarda che qui non c’è la democrazia: qui comandiamo noi due”.
Giocava a calcio, il piccolo Daniel, con una grinta inimmaginabile per la sua età. Segno del destino, evidentemente.
Nativo di Chacabuco, sperduta cittadina della Pampa distante duecento chilometri da Buenos Aires, fin dalle prime partite nei polverosi campi di periferia metteva in luce il suo incredibile temperamento.
Non di rado i genitori si trovarono costretti a trasportarlo sanguinante all’ospedale, reduce da un ruvido contrasto con qualche avversario più robusto di lui. Una volta, addirittura, picchiò la testa e fu dato per morto. Poi, ovviamente, si rialzò con l’unica idea di ricominciare da dove era stato interrotto. Era fatto così, a nulla valevano le raccomandazioni di mamma e papà: per Daniel ogni incontro era una battaglia da vincere a ogni costo. Sottrarsi alla pugna sarebbe stato da vili.
Senza questa forza di spirito quel ragazzino con la faccia da indio non sarebbe mai diventato il libero più forte del mondo.
A soli cinque anni, pensate, si impose di diventare mancino, per continuare a giocare a calcio nonostante il gesso che era stato costretto a portare alla gamba destra in seguito a un incidente d’auto occorsogli col nonno. Tanti bambini avrebbero rinunciato a correre dietro il pallone e si sarebbero dedicati ad altro per un mesetto, ma il piccolo Daniel no. A dispetto della giovane età, era spinto da una furia quasi mistica. Il pallone e niente altro.
La sua prima squadra fu l’Argentinos, nome tutt’altro che originale della formazione del suo paese natale. Aveva quindici anni, giocava all’ala sinistra e segnava caterve di gol di testa, nonostante la statura non... torreggiante. Con i compagni conquistò il titolo regionale, suscitando l’attenzione di alcuni talent-scout.
Il Boca Juniors, uno dei club più famosi d’Argentina, lo chiamò per un provino, che però andò male e non se ne fece nulla.
Ma il guerriero non si arrese neppure quando fu scartato da un altro club importante, l’Estudiantes. Anzi, raddoppiò l’impegno. La sua occasione stava per arrivare. Venne scelto dal Sarmiento, formazione che militava in Serie C. Sarebbe cominciato dal basso, nessun problema.
L’allenatore si chiamava Raul Hernandez e quel ragazzino con gli occhi di fuoco non lo vedeva proprio a giocare sull’ala. Gli diede allora il numero tre, certo che gli attaccanti avversari non avrebbero avuto vita facile con un tipo del genere. Non si sbagliava: nonostante la verde età, Daniel si impose presto come autentico faro della squadra, per la carica che sapeva infondere ai compagni e per il suo costante e fondamentale apporto anche nella metà campo avversaria. Quella stagione segnò quindici reti, cifra pazzesca per un difensore. Hernandez vide in quel giovane i numeri del campione e decise di segnalarlo all’amico Omar Sivori, che prontamente lo portò al River Plate. Il grande club, finalmente. Passarella non tardò a entrare nell’undici titolare, per consolidarsi definitivamente nel ruolo di libero. Giocava bene e giocava estremamente duro, ma soprattutto, anche a Buenos Aires, impressionò per la dedizione alla causa della squadra. Era una furia selvaggia: urlava come un ossesso per caricare i compagni anche in allenamento, in campo si ergeva come una diga davanti al portiere, sempre pronto a far ripartire l’azione con le sue potenti falcate.
La Nazionale ovviamente non poteva fare a meno di un tipo così e presto lo chiamò, per farne rapidamente un punto fermo. Erano anni importanti, l’Argentina aveva ottenuto per la prima volta l’organizzazione del Mondiale, bisognava fare le cose bene anche sul piano tecnico. Il Ct Menotti costruì una squadra tosta, tutt’altro che perfetta, ma pronta a dare battaglia anche e soprattutto grazie a quel leader che giganteggiava nelle retrovie. C’era già, straordinariamente precoce, un ragazzino di sedici anni, Maradona, ma Menotti, che pure stravedeva per i suoi colpi di genio, preferì portarlo alla rassegna come mascotte (soprattutto per garantirgli vitto sano e abbondante in vista della sua crescita).
Passarella era il capitano di quella formazione, che con qualche aiuto (ehm) ambientale alla fine trionfò, battendo in finale l’Olanda in un drammatico confronto in cui Passarella stacco' 4 denti a Neeskens con una gomitata. Tra i protagonisti assoluti, lui, il piccolo libero dal cuore grande e dalla forza smisurata.
Inevitabilmente le sirene dei club d’oltreoceano iniziarono a farsi sentire, ma Daniel preferì rimanere in patria per prepararsi al meglio a difendere il titolo di Campioni del Mondo in Spagna.
L’ossatura del ‘78, più i virgulti del Mondiale juniores, Diaz e Maradona: chi non avrebbe scommesso su un clamoroso bis? Invece l’epilogo è noto: Passarella finì la propria avventura iberica in lacrime, schiantato prima dall’Italia di Bearzot e poi dal tremendo Brasile dei mille fenomeni.
Nonostante l’umiliazione patita dalla Nazionale biancoceleste, il sudamericano era ancora ritenuto il libero più forte del mondo e le richieste da parte delle squadre di mezza Europa si rinnovarono.
A spuntarla sulla concorrenza di Roma e Real Madrid fu la Fiorentina.
Dopo otto gloriose stagioni con la maglia del River Plate, Daniel si preparava ad affrontare, ormai ventinovenne, l’avventura più difficile della sua straordinaria carriera.
In riva all’Arno i tifosi, ancora scottati dalla tremenda delusione patita nella stagione precedente, videro in Passarella l’uomo del riscatto, colui che avrebbe lavato l’onta con la sua carica di inimitabile trascinatore. Il ruolo, certo, lasciava perplesso qualcuno, ma il giocatore pareva una garanzia assoluta: determinante era stato con l’Argentina, avrebbe potuto esserlo anche in viola.
Su queste basi, col tempo, si sarebbe instaurato un rapporto intensissimo fra la città e il giocatore; più freddo, invece, sarebbe sempre rimasto quello con la famiglia Pontello.Il fatto è che gli esordi in maglia viola furono da dimenticare: abituato a prendere la squadra in pugno, si ritrovò a essere soltanto uno degli undici che scendevano in campo. Non si poteva più permettere le scorrerie che l’avevano reso celebre: l’allenatore De Sisti pretendeva da lui disciplina e ordine tattico. Chiuso nella gabbia, il suo valore autentico si annebbiava; costretto a fare il libero classico, col compito da svolgere senza sbavature, diventava un giocatore “normale”.
Inevitabili gli piovvero addosso le critiche della stampa e dei tifosi, che fecero prontamente sparire la bandiera argentina dalla Fiesole.
Si diceva che non sapesse “chiudere”, che facesse confusione avanzando con la palla al piede e addirittura che fosse scarso di testa. Troppo poco per stroncare uno come lui. Daniel decise di rispondere con i fatti. Si chiuse nel mutismo più assoluto per due mesi e si impose, a costo di violentare la sua indole ducesca, di seguire gli ordini del mister. Si adeguò con rigore alle istruzioni della panchina, pur con licenza di incursione nelle aree avversarie, e – come per magia – il vessillo biancoceleste tornò a garrire in curva. I tifosi avevano ritrovato il giocatore che aveva fatto innamorare un Paese, la squadra un nuovo leader.
Nonostante questo, la Fiorentina non riuscì mai a inserirsi nel vivo della lotta per lo scudetto, e si trovò relegata nelle posizioni di rincalzo. Passarella sarebbe rimasto altre tre stagioni, vissute costantemente da protagonista. Nel corso dell’ultima, poi, avrebbe stabilito il record di reti segnate da un difensore nel nostro campionato: ben undici. Al termine del torneo, però, i già non idilliaci rapporti con la famiglia Pontello si trasformarono in scontro aperto, e Daniel, abituato a firmare soltanto contratti annuali, cedette alle lusinghe dell’Inter di Trapattoni, che nutriva ambizioni di scudetto.
Forse scottato dal fatto di non aver potuto partecipare ai Mondiali messicani del 1986 per un virus e offuscato dallo splendore della stella di Diego Maradona ( tra i due astri del calcio entrambi dotati di personalita' debordante ci furono scintille nel ritiro di Mexico 86 , dopo che Bilardo tolse la fascia di capitano dal braccio di PAssarella dandola a Maradona) Passarella ormai ultratrentenne non riuscì a ergersi a leader dei nerazzurri, che vissero due stagioni interlocutorie.
Durante la sua permanenza a Milano, poi, il grande libero si rese protagonista di un episodio spiacevole (eufemismo): in un incontro con la Sampdoria a Marassi, sotto di un gol, l’argentino prese a calci con incredibile ferocia un giovane raccattapalle genovese che ritardava la restituzione della sfera. Messo in croce dalla stampa, fece pubblica ammenda, ma la sua immagine di fiero guerriero ne uscì irrimediabilmente compromessa. L’Inter, ormai presa dal progetto teutonico di Brehme e Matthäus, fu ben lieta di lasciarlo tornare al suo amato River Plate. La leggenda volgeva al tramonto.
http://www.storiedicalcio.altervista.org/daniel_passarella.html
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Leader nel senso più vero, ecco l’unico termine che da solo può sintetizzare la straordinaria figura di Daniel Passarella.
Ma anche di più: “caudillo”, un dittatore alla sudamericana, per intenderci.
Basti pensare che i neo convocati della Nazionale argentina, al tempo in cui vi giocava da superbo libero, ricevevano da lui e da quell’altro simpaticone del centrocampista Gallego questo originale benvenuto: “Ehi, ragazzo, guarda che qui non c’è la democrazia: qui comandiamo noi due”.
Giocava a calcio, il piccolo Daniel, con una grinta inimmaginabile per la sua età. Segno del destino, evidentemente.
Nativo di Chacabuco, sperduta cittadina della Pampa distante duecento chilometri da Buenos Aires, fin dalle prime partite nei polverosi campi di periferia metteva in luce il suo incredibile temperamento.
Non di rado i genitori si trovarono costretti a trasportarlo sanguinante all’ospedale, reduce da un ruvido contrasto con qualche avversario più robusto di lui. Una volta, addirittura, picchiò la testa e fu dato per morto. Poi, ovviamente, si rialzò con l’unica idea di ricominciare da dove era stato interrotto. Era fatto così, a nulla valevano le raccomandazioni di mamma e papà: per Daniel ogni incontro era una battaglia da vincere a ogni costo. Sottrarsi alla pugna sarebbe stato da vili.
Senza questa forza di spirito quel ragazzino con la faccia da indio non sarebbe mai diventato il libero più forte del mondo.
A soli cinque anni, pensate, si impose di diventare mancino, per continuare a giocare a calcio nonostante il gesso che era stato costretto a portare alla gamba destra in seguito a un incidente d’auto occorsogli col nonno. Tanti bambini avrebbero rinunciato a correre dietro il pallone e si sarebbero dedicati ad altro per un mesetto, ma il piccolo Daniel no. A dispetto della giovane età, era spinto da una furia quasi mistica. Il pallone e niente altro.
La sua prima squadra fu l’Argentinos, nome tutt’altro che originale della formazione del suo paese natale. Aveva quindici anni, giocava all’ala sinistra e segnava caterve di gol di testa, nonostante la statura non... torreggiante. Con i compagni conquistò il titolo regionale, suscitando l’attenzione di alcuni talent-scout.
Il Boca Juniors, uno dei club più famosi d’Argentina, lo chiamò per un provino, che però andò male e non se ne fece nulla.
Ma il guerriero non si arrese neppure quando fu scartato da un altro club importante, l’Estudiantes. Anzi, raddoppiò l’impegno. La sua occasione stava per arrivare. Venne scelto dal Sarmiento, formazione che militava in Serie C. Sarebbe cominciato dal basso, nessun problema.
L’allenatore si chiamava Raul Hernandez e quel ragazzino con gli occhi di fuoco non lo vedeva proprio a giocare sull’ala. Gli diede allora il numero tre, certo che gli attaccanti avversari non avrebbero avuto vita facile con un tipo del genere. Non si sbagliava: nonostante la verde età, Daniel si impose presto come autentico faro della squadra, per la carica che sapeva infondere ai compagni e per il suo costante e fondamentale apporto anche nella metà campo avversaria. Quella stagione segnò quindici reti, cifra pazzesca per un difensore. Hernandez vide in quel giovane i numeri del campione e decise di segnalarlo all’amico Omar Sivori, che prontamente lo portò al River Plate. Il grande club, finalmente. Passarella non tardò a entrare nell’undici titolare, per consolidarsi definitivamente nel ruolo di libero. Giocava bene e giocava estremamente duro, ma soprattutto, anche a Buenos Aires, impressionò per la dedizione alla causa della squadra. Era una furia selvaggia: urlava come un ossesso per caricare i compagni anche in allenamento, in campo si ergeva come una diga davanti al portiere, sempre pronto a far ripartire l’azione con le sue potenti falcate.
La Nazionale ovviamente non poteva fare a meno di un tipo così e presto lo chiamò, per farne rapidamente un punto fermo. Erano anni importanti, l’Argentina aveva ottenuto per la prima volta l’organizzazione del Mondiale, bisognava fare le cose bene anche sul piano tecnico. Il Ct Menotti costruì una squadra tosta, tutt’altro che perfetta, ma pronta a dare battaglia anche e soprattutto grazie a quel leader che giganteggiava nelle retrovie. C’era già, straordinariamente precoce, un ragazzino di sedici anni, Maradona, ma Menotti, che pure stravedeva per i suoi colpi di genio, preferì portarlo alla rassegna come mascotte (soprattutto per garantirgli vitto sano e abbondante in vista della sua crescita).
Passarella era il capitano di quella formazione, che con qualche aiuto (ehm) ambientale alla fine trionfò, battendo in finale l’Olanda in un drammatico confronto in cui Passarella stacco' 4 denti a Neeskens con una gomitata. Tra i protagonisti assoluti, lui, il piccolo libero dal cuore grande e dalla forza smisurata.
Inevitabilmente le sirene dei club d’oltreoceano iniziarono a farsi sentire, ma Daniel preferì rimanere in patria per prepararsi al meglio a difendere il titolo di Campioni del Mondo in Spagna.
L’ossatura del ‘78, più i virgulti del Mondiale juniores, Diaz e Maradona: chi non avrebbe scommesso su un clamoroso bis? Invece l’epilogo è noto: Passarella finì la propria avventura iberica in lacrime, schiantato prima dall’Italia di Bearzot e poi dal tremendo Brasile dei mille fenomeni.
Nonostante l’umiliazione patita dalla Nazionale biancoceleste, il sudamericano era ancora ritenuto il libero più forte del mondo e le richieste da parte delle squadre di mezza Europa si rinnovarono.
A spuntarla sulla concorrenza di Roma e Real Madrid fu la Fiorentina.
Dopo otto gloriose stagioni con la maglia del River Plate, Daniel si preparava ad affrontare, ormai ventinovenne, l’avventura più difficile della sua straordinaria carriera.
In riva all’Arno i tifosi, ancora scottati dalla tremenda delusione patita nella stagione precedente, videro in Passarella l’uomo del riscatto, colui che avrebbe lavato l’onta con la sua carica di inimitabile trascinatore. Il ruolo, certo, lasciava perplesso qualcuno, ma il giocatore pareva una garanzia assoluta: determinante era stato con l’Argentina, avrebbe potuto esserlo anche in viola.
Su queste basi, col tempo, si sarebbe instaurato un rapporto intensissimo fra la città e il giocatore; più freddo, invece, sarebbe sempre rimasto quello con la famiglia Pontello.Il fatto è che gli esordi in maglia viola furono da dimenticare: abituato a prendere la squadra in pugno, si ritrovò a essere soltanto uno degli undici che scendevano in campo. Non si poteva più permettere le scorrerie che l’avevano reso celebre: l’allenatore De Sisti pretendeva da lui disciplina e ordine tattico. Chiuso nella gabbia, il suo valore autentico si annebbiava; costretto a fare il libero classico, col compito da svolgere senza sbavature, diventava un giocatore “normale”.
Inevitabili gli piovvero addosso le critiche della stampa e dei tifosi, che fecero prontamente sparire la bandiera argentina dalla Fiesole.
Si diceva che non sapesse “chiudere”, che facesse confusione avanzando con la palla al piede e addirittura che fosse scarso di testa. Troppo poco per stroncare uno come lui. Daniel decise di rispondere con i fatti. Si chiuse nel mutismo più assoluto per due mesi e si impose, a costo di violentare la sua indole ducesca, di seguire gli ordini del mister. Si adeguò con rigore alle istruzioni della panchina, pur con licenza di incursione nelle aree avversarie, e – come per magia – il vessillo biancoceleste tornò a garrire in curva. I tifosi avevano ritrovato il giocatore che aveva fatto innamorare un Paese, la squadra un nuovo leader.
Nonostante questo, la Fiorentina non riuscì mai a inserirsi nel vivo della lotta per lo scudetto, e si trovò relegata nelle posizioni di rincalzo. Passarella sarebbe rimasto altre tre stagioni, vissute costantemente da protagonista. Nel corso dell’ultima, poi, avrebbe stabilito il record di reti segnate da un difensore nel nostro campionato: ben undici. Al termine del torneo, però, i già non idilliaci rapporti con la famiglia Pontello si trasformarono in scontro aperto, e Daniel, abituato a firmare soltanto contratti annuali, cedette alle lusinghe dell’Inter di Trapattoni, che nutriva ambizioni di scudetto.
Forse scottato dal fatto di non aver potuto partecipare ai Mondiali messicani del 1986 per un virus e offuscato dallo splendore della stella di Diego Maradona ( tra i due astri del calcio entrambi dotati di personalita' debordante ci furono scintille nel ritiro di Mexico 86 , dopo che Bilardo tolse la fascia di capitano dal braccio di PAssarella dandola a Maradona) Passarella ormai ultratrentenne non riuscì a ergersi a leader dei nerazzurri, che vissero due stagioni interlocutorie.
Durante la sua permanenza a Milano, poi, il grande libero si rese protagonista di un episodio spiacevole (eufemismo): in un incontro con la Sampdoria a Marassi, sotto di un gol, l’argentino prese a calci con incredibile ferocia un giovane raccattapalle genovese che ritardava la restituzione della sfera. Messo in croce dalla stampa, fece pubblica ammenda, ma la sua immagine di fiero guerriero ne uscì irrimediabilmente compromessa. L’Inter, ormai presa dal progetto teutonico di Brehme e Matthäus, fu ben lieta di lasciarlo tornare al suo amato River Plate. La leggenda volgeva al tramonto.
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