Che sfilino le brigate rosse !
Di Gabriele Adinolfi
Credo che l'Italia sia l'unica nazione al mondo che festeggia l'invasione del suo territorio: non era mai venuto in mente a nessuno. Certo una parte di italiani, invero assai sparuta, passò dalla parte del nemico nel settembre del 1943 quando il re coniglio e il primo ministro vigliacco scapparono a gambe levate nelle braccia del nemico e si affrettarono a chiamarlo amico. Quella piccolissima porzione d'italiani, alcuni per fede, altri per tornaconto, altri ancora per obbedienza, si misero a fiancheggiare l'avanzata del nemico, incuranti che questa fosse contrassegnata da bombardamenti di città, stupri e stermini di donne, violenze sui civili e persino eccidi ingiustificati. In poco meno di due anni la lunga marcia del nemico si concluse con la sua vittoria nella guerra. Ne derivarono eccidi, lo scempio vergognoso di Piazzale Loreto, epurazioni selvagge contrassegnate da regolamenti di conti per rivalità personali. Ne nacque la Repubblica fondata sull'accordo tra poteri affaristici, in particolare quelli mafiosi che avevano organizzato gli sbarchi americani in Sicilia e a Salerno e ottenuto in cambio la mano libera per i traffici sul versante tirrenico fino a Marsiglia. Ne seguì un periodo di lunga e vergognosa sottomissione internazionale accompagnata da un disprezzo nei nostri confronti, ancora oggi non del tutto sopito, dovuto appunto alle nostre capriole sfrontate. Al di là dei sentimenti non si capisce proprio cosa ci fosse da festeggiare, né tanto meno cosa ci sia da celebrare oggi.
Allora una ragione per mitizzare quel 25 aprile c'era; ce l'aveva un'intera classe politica sconfitta dalla storia e dal fascismo, emarginata dalla nazione, che per venti anni era passata a vita privata (ma sempre assistita dal buon Benito) o all'esilio parigino con tanto di stipendio mensile (mai accaduto in nessun altro contesto o in nessun'epoca). Uno stipendio mensile che cresceva con l'aumento della vita perché bastò che una figlia di Saragat andasse dal Duce (che riceveva...) per lamentarsi del caro-vita perché il buon Benito allargasse i cordoni della borsa. Ora quella classe politica di falliti cercava un posto al sole e lo reclamava dal nemico vittorioso al quale si era offerta ossequiosa e incurante della sorte dei suoi compatrioti. Bisognava mitizzarlo quel 25 aprile perché si doveva creare un'aura di epos e di gloria che desse autorevolezza ai falliti di ritorno. Così intervenne la retorica intrisa di ogni menzogna. Al punto di capovolgere la realtà oggettiva delle cose. “L'invasore” non fu più chi ci bombardava dal mare, chi sbarcava sulle nostre coste, violentava le nostre donne, occupava le nostre città, ovvero il nemico di guerra, anglo/franco/americano, bensì il tedesco che pure non solo era nostro alleato ma si trovava in Italia a difendere la nostra terra chiamatovi addirittura dal re coniglio in persona poche settimane prima della sua ignobile fuga. E allora, sulla falsa riga di questa mistificazione chi si era battuto contro “l'invasore”, per un sogno di libertà, in nome del tirannicidio, era nobile e da mitizzare. La sconfitta italiana - ma la sua vittoria – diventava così festa nazionale. E il “mito” partigiano s'impadronì della cultura politica, letteraria e poi televisiva delal penisola affranta.
Ora quella classe dirigente è sparita, morta di vecchiaia, dopo aver spolpato ogni bene dell'Italia e averla trascinata nella bancarotta. Che senso ha dunque continuare a celebrare il triste rito della contraffazione e il gusto dell'odio? Immagino che alcuni nostalgici delle rivoluzioni mancate, alcuni orfani degli arcobaleni e maniaci della legge di Lynch non possano fare altrimenti, ma il resto? Non si può superare questa stucchevole retorica resistenzialista, così come in molti iniziano a chiedere? Perché delle due l'una: o si supera quest'impasse o la si celebra fino in fondo. In tal caso si accetti e si esalti la cultura partigiana, quella dell'omicidio a freddo, del mordi e fuggi in nome di un sol dell'avvenire e di un qualsiasi tirannicidio. Si riprenda quella cultura che avvelenò gli animi negli anni Sessanta e Settanta da tutte le cattedre, da tutti gli schermi e che fece presa su migliaia di giovani che finirono per imitarli, e si facciano allora sfilare i Brigatisti Rossi che hanno di certo molti più numeri dell'Anpi.
Essi, infatti, hanno creduto alla retorica resistenzialista, ne hanno messo in atto il modello, sono insorti, hanno cecchinato, hanno ucciso. Ma, a differenza dei loro patrigni, non avevano alcun carro armato nemico da seguire e hanno quindi perso. E hanno pagato sulla loro pelle (e ovviamente su quella di molte loro vittime) la cultura del 25 aprile. Hanno trascorso dietro le sbarre periodi più lunghi del Ventennio mussoliniano e hanno, di certo, più titoli dei partigiani per camminare a fronte alta. Se la fronte può andare alta in marce fondate sull'odio e il rancore.
Gabriele Adinolfi
Di Gabriele Adinolfi
Credo che l'Italia sia l'unica nazione al mondo che festeggia l'invasione del suo territorio: non era mai venuto in mente a nessuno. Certo una parte di italiani, invero assai sparuta, passò dalla parte del nemico nel settembre del 1943 quando il re coniglio e il primo ministro vigliacco scapparono a gambe levate nelle braccia del nemico e si affrettarono a chiamarlo amico. Quella piccolissima porzione d'italiani, alcuni per fede, altri per tornaconto, altri ancora per obbedienza, si misero a fiancheggiare l'avanzata del nemico, incuranti che questa fosse contrassegnata da bombardamenti di città, stupri e stermini di donne, violenze sui civili e persino eccidi ingiustificati. In poco meno di due anni la lunga marcia del nemico si concluse con la sua vittoria nella guerra. Ne derivarono eccidi, lo scempio vergognoso di Piazzale Loreto, epurazioni selvagge contrassegnate da regolamenti di conti per rivalità personali. Ne nacque la Repubblica fondata sull'accordo tra poteri affaristici, in particolare quelli mafiosi che avevano organizzato gli sbarchi americani in Sicilia e a Salerno e ottenuto in cambio la mano libera per i traffici sul versante tirrenico fino a Marsiglia. Ne seguì un periodo di lunga e vergognosa sottomissione internazionale accompagnata da un disprezzo nei nostri confronti, ancora oggi non del tutto sopito, dovuto appunto alle nostre capriole sfrontate. Al di là dei sentimenti non si capisce proprio cosa ci fosse da festeggiare, né tanto meno cosa ci sia da celebrare oggi.
Perché intervenne quella retorica
Allora una ragione per mitizzare quel 25 aprile c'era; ce l'aveva un'intera classe politica sconfitta dalla storia e dal fascismo, emarginata dalla nazione, che per venti anni era passata a vita privata (ma sempre assistita dal buon Benito) o all'esilio parigino con tanto di stipendio mensile (mai accaduto in nessun altro contesto o in nessun'epoca). Uno stipendio mensile che cresceva con l'aumento della vita perché bastò che una figlia di Saragat andasse dal Duce (che riceveva...) per lamentarsi del caro-vita perché il buon Benito allargasse i cordoni della borsa. Ora quella classe politica di falliti cercava un posto al sole e lo reclamava dal nemico vittorioso al quale si era offerta ossequiosa e incurante della sorte dei suoi compatrioti. Bisognava mitizzarlo quel 25 aprile perché si doveva creare un'aura di epos e di gloria che desse autorevolezza ai falliti di ritorno. Così intervenne la retorica intrisa di ogni menzogna. Al punto di capovolgere la realtà oggettiva delle cose. “L'invasore” non fu più chi ci bombardava dal mare, chi sbarcava sulle nostre coste, violentava le nostre donne, occupava le nostre città, ovvero il nemico di guerra, anglo/franco/americano, bensì il tedesco che pure non solo era nostro alleato ma si trovava in Italia a difendere la nostra terra chiamatovi addirittura dal re coniglio in persona poche settimane prima della sua ignobile fuga. E allora, sulla falsa riga di questa mistificazione chi si era battuto contro “l'invasore”, per un sogno di libertà, in nome del tirannicidio, era nobile e da mitizzare. La sconfitta italiana - ma la sua vittoria – diventava così festa nazionale. E il “mito” partigiano s'impadronì della cultura politica, letteraria e poi televisiva delal penisola affranta.
Ora è tempo di scelte
Ora quella classe dirigente è sparita, morta di vecchiaia, dopo aver spolpato ogni bene dell'Italia e averla trascinata nella bancarotta. Che senso ha dunque continuare a celebrare il triste rito della contraffazione e il gusto dell'odio? Immagino che alcuni nostalgici delle rivoluzioni mancate, alcuni orfani degli arcobaleni e maniaci della legge di Lynch non possano fare altrimenti, ma il resto? Non si può superare questa stucchevole retorica resistenzialista, così come in molti iniziano a chiedere? Perché delle due l'una: o si supera quest'impasse o la si celebra fino in fondo. In tal caso si accetti e si esalti la cultura partigiana, quella dell'omicidio a freddo, del mordi e fuggi in nome di un sol dell'avvenire e di un qualsiasi tirannicidio. Si riprenda quella cultura che avvelenò gli animi negli anni Sessanta e Settanta da tutte le cattedre, da tutti gli schermi e che fece presa su migliaia di giovani che finirono per imitarli, e si facciano allora sfilare i Brigatisti Rossi che hanno di certo molti più numeri dell'Anpi.
Essi, infatti, hanno creduto alla retorica resistenzialista, ne hanno messo in atto il modello, sono insorti, hanno cecchinato, hanno ucciso. Ma, a differenza dei loro patrigni, non avevano alcun carro armato nemico da seguire e hanno quindi perso. E hanno pagato sulla loro pelle (e ovviamente su quella di molte loro vittime) la cultura del 25 aprile. Hanno trascorso dietro le sbarre periodi più lunghi del Ventennio mussoliniano e hanno, di certo, più titoli dei partigiani per camminare a fronte alta. Se la fronte può andare alta in marce fondate sull'odio e il rancore.
Gabriele Adinolfi
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