ultime poesie di un uomo che muore

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  • Arturo Bandini
    Bodyweb Senior
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    ultime poesie di un uomo che muore

    raymond carver...

    UNA PACCHIA
    Non c’è altra parola. Perché proprio quello è stata. Una pacchia.
    Una pacchia, questi ultimi dieci anni.
    Vivo, sobrio, ha lavorato, ha amato,
    riamato, una brava donna. Undici anni
    fa gli avevano detto che aveva solo sei mesi da vivere
    se continuava così. E non poteva che
    peggiorare. Così cambiò vita,
    in qualche modo. Smise di bere! E per il resto?
    Dopo, fu tutta una pacchia, ogni minuto,
    fino a quando e anche quando gli dissero che,
    be’, c’era qualcosa che non andava e qualcosa
    che gli cresceva dentro la testa. “Non piangete per me”,
    disse ai suoi amici. “Sono un uomo fortunato.
    Ho campato dieci anni di più di quanto io o chiunque altro
    si aspettasse. Una vera pacchia. Non ve lo scordate”.

    CHIARORE RESIDUO
    Scende il crepuscolo. Poco fa è caduta
    un po’ di pioggia. Si apre un cassetto e dentro ci si trova
    la foto di un uomo e ci si rende conto che ha solo altri due anni
    di vita. Lui questo non lo sa, è chiaro,
    è per questo che posa sorridente davanti all’obiettivo.
    Come può sapere cosa gli sta mettendo radici nella testa
    in quel momento? Se si guarda verso destra
    tra i rami e i tronchi, si intravedono
    macchie rossastre di chiarore residuo. Non ci sono ombre, né
    chiaroscuri. L’aria è umida e calma...
    Lui continua a posare sorridente. Rimetto la foto
    a posto con le altre e concentro
    invece l’attenzione sul chiarore residuo lungo i monti lontani,
    che si posa dorato sulle rose del giardino.
    Poi non posso fare a meno di lanciare un’altra occhiata
    alla foto. Il suo ammiccare, il gran sorriso,
    l’inclinazione spavalda della sigaretta.


    ULTIMO FRAMMENTO
    E hai ottenuto quello che
    volevi da questa vita, nonostante tutto?
    Sì.
    E cos’è che volevi?
    Potermi dire amato, sentirmi
    amato sulla terra.


    NON C’È BISOGNO
    Vedo un posto vuoto a tavola.
    Di chi è? Di chi altro? Chi voglio prendere in giro?
    La barca attende. Non c’è bisogno di remi
    né di vento. La chiave l’ho lasciata
    nel solito posto. Tu sai dove.
    Ricordati di me e di tutto quello che abbiamo fatto insieme.
    Ora stringimi forte. Così. Dammi un bel bacio
    sulle labbra. Ecco. Ora
    lasciami andare, carissima. Lasciami andare.
    Non c’incontreremo più in questa vita,
    perciò ora dammi un bacio d’addio. Su, ancora uno.
    E un altro. Ecco. Adesso basta.
    Adesso, carissima, lasciami andare.
    È ora di avviarsi.

    TRA I RAMI
    Sotto la finestra, sul balcone, ci sono degli uccellini malridotti
    che si affollano attorno al cibo. Sono gli stessi, credo,
    che vengono tutti i giorni a mangiare bisticciando. C’era un tempo,
    [c’era un tempo,
    gridano e si beccano. Sì, è quasi ora.
    Il cielo rimane cupo tutto il giorno, il vento viene da ovest e
    non smette di soffiare... Dammi la mano per un po’. Tienimi la
    mia. Così va bene, sì. Stringimela forte. C’era un tempo in cui
    pensavamo di avere il tempo dalla nostra. C’era un tempo, c’era
    [un tempo,
    gridano gli uccellini malridotti.
  • Arturo Bandini
    Bodyweb Senior
    • Aug 2003
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    #2
    "non c'è bisogno" è la mia preferita
    ..un uomo che si prepara a andare, non ha più niente da fare qui

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    • Jolly
      Bodyweb Senior
      • Nov 2003
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      #3
      allegriaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
      Originariamente Scritto da Sean
      Questa società non è più disposta ad accettare i modi di fare di quel sistema. Il punto è solo questo. Non devono essere gli altri a dirci come condurre la nostra guerra. Noi rivogliamo tutto, e vogliamo l'allenatore assolto.
      Originariamente Scritto da Pesca
      avanti savoia

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      • Theycallmechobo
        Il Pontificatore misericordioso
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        • Savana
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        #4
        Originariamente Scritto da Jolly Visualizza Messaggio
        allegriaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa

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        • EGMario86
          Crossfit addicted
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          • Palermo
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          #5
          da tagliarsi le vene
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          • Gary
            Queen Of The Balls - Ex Mod.
            • Mar 2007
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            • Tempio Pausania
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            #6
            mi pare difficile che a qualcuno possa piacere questa roba
            Originariamente Scritto da modgallagher
            gandhi invece di giocarsi il libretto della macchina si gioca la cartella clinica
            " tra noi sarebbe come abbinare un vino pregiato a un ottimo cibo " ..


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            • Arturo Bandini
              Bodyweb Senior
              • Aug 2003
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              #7
              a me piace... è raymond carver, il più grande narratore del 900, l' inventore del minimalismo, mica il primo coglione

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              • Gary
                Queen Of The Balls - Ex Mod.
                • Mar 2007
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                • Tempio Pausania
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                #8
                da quel che ho letto delle sue scritture avrei pensato proprio il contrario
                Originariamente Scritto da modgallagher
                gandhi invece di giocarsi il libretto della macchina si gioca la cartella clinica
                " tra noi sarebbe come abbinare un vino pregiato a un ottimo cibo " ..


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                • Ector
                  Bodyweb member
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                  #9
                  Arturo dimmi un pò....che ne pensi di Pippo che è arrivato a quota 63?
                  Pulcinella si è messo a piangere.... niente firma quindi!

                  Per favore, non chiedetemi opinioni/consigli medici. Vi è una sezione dedicata sul forum

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                  • Arturo Bandini
                    Bodyweb Senior
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                    #10
                    Originariamente Scritto da Ector Visualizza Messaggio
                    Arturo dimmi un pò....che ne pensi di Pippo che è arrivato a quota 63?
                    bravo bravo palombini bravo bravo
                    e bravo palombini!

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                    • EGMario86
                      Crossfit addicted
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                      #11
                      Originariamente Scritto da Gary Visualizza Messaggio
                      da quel che ho letto delle sue scritture avrei pensato proprio il contrario
                      concordo
                      FACEBOOK - BLOG
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                      • Al2
                        Bodyweb Member
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                        #12
                        arturo come sottonick dovresti avere "presa male user"
                        Originariamente Scritto da pumbaa
                        La donna è come la bistecca: quando sanguina bisogna girarla (cit.)

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                        • Gary
                          Queen Of The Balls - Ex Mod.
                          • Mar 2007
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                          #13
                          e tu " brutto avatar "
                          Originariamente Scritto da modgallagher
                          gandhi invece di giocarsi il libretto della macchina si gioca la cartella clinica
                          " tra noi sarebbe come abbinare un vino pregiato a un ottimo cibo " ..


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                          • Sean
                            Csar
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                            #14
                            Meglio "L'antologia di Spoon River" a mio parere...

                            Almeno lì i protagonisti sono già morti.
                            ...ma di noi
                            sopra una sola teca di cristallo
                            popoli studiosi scriveranno
                            forse, tra mille inverni
                            «nessun vincolo univa questi morti
                            nella necropoli deserta»

                            C. Campo - Moriremo Lontani


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                            • Arturo Bandini
                              Bodyweb Senior
                              • Aug 2003
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                              #15
                              Originariamente Scritto da Gary Visualizza Messaggio
                              da quel che ho letto delle sue scritture avrei pensato proprio il contrario
                              gary leggiti questo (ma leggilo davvero)
                              poi dimmi

                              C
                              ATTEDRALE

                              C’era questo cieco, un vecchio amico di mia moglie, che doveva
                              arrivare per passare la notte da noi. Gli era appena morta la moglie.
                              E così era andato a trovare i parenti di lei in Connecticut. Aveva
                              chiamato mia moglie da casa loro. Avevano preso accordi. Sarebbe
                              arrivato in treno, un viaggio di cinque ore, e mia moglie sarebbe
                              andata a prenderlo alla stazione. Non l’aveva più visto da
                              quando aveva lavorato per lui un’estate a Seattle, dieci anni prima.
                              Comunque, lei e il cieco si erano tenuti in contatto. Registravano
                              dei nastri e se li spedivano per posta avanti e indietro. Non è che
                              fossi entusiasta di questa visita. Era un tizio che non conoscevo affatto.
                              E il fatto che fosse cieco mi dava un po’ di fastidio. L’idea
                              che avevo della cecità me l’ero fatta al cinema. Nei film i ciechi si
                              muovono lentamente e non ridono mai. Avolte sono accompagnati
                              dai cani-guida. Insomma, avere un cieco per casa non è che fosse
                              proprio il primo dei miei pensieri.
                              Quell’estate a Seattle lei aveva bisogno di un lavoro. Non aveva
                              un soldo. L’uomo che avrebbe sposato alla fine dell’anno frequentava
                              un corso per ufficiali. Non aveva un soldo neanche lui.
                              Ma lei era innamorata di questo tizio e lui era innamorato di lei, eccetera
                              eccetera. Insomma, lei aveva visto un annuncio sul giornale
                              CERCASI LETTORE PER CIECO – e un numero di telefono. Aveva
                              chiamato, era andata per un colloquio ed era stata assunta su due

                              piedi. Per tutta l’estate aveva lavorato con questo cieco. Gli leggeva
                              della roba, relazioni, rapporti, cose del genere. Lo aiutava a
                              mandare avanti il suo ufficetto nel dipartimento assistenza sociale
                              della contea. Erano diventati buoni amici, mia moglie e il cieco.
                              Come faccio a sapere queste cose? Me le ha dette lei. E mi ha anche
                              detto un’altra cosa. L’ultimo giorno di lavoro, il cieco le aveva
                              chiesto se poteva toccarle il viso. Lei gli aveva detto di sì. Mi ha
                              raccontato che lui l’aveva sfiorata con le dita dappertutto: il viso, il
                              naso... perfino il collo! Lei non se l’era più scordato. Aveva addirittura
                              cercato di scriverci su una poesia. Era sempre lì a cercare di
                              scrivere una poesia, lei. Ne scriveva una o due all’anno, di solito subito
                              dopo che le era successo qualcosa di molto importante.
                              Quando abbiamo cominciato a uscire insieme, me l’ha fatta leggere,
                              quella poesia. Rievocava le dita di lui e il modo in cui s’erano
                              mosse sul suo viso. Nella poesia, parlava delle sensazioni che aveva
                              provato all’epoca, di quello che le passava per la testa mentre il
                              cieco le toccava il naso e le labbra. Ricordo che non è che mi piacesse
                              molto, quella poesia. Naturalmente, non glielo dissi mica.
                              Sarà che io la poesia non la capisco proprio. Devo ammettere che
                              non è la prima cosa che prendo quando ho voglia di leggere un po’.
                              Ad ogni modo, il tizio che per primo aveva goduto dei suoi favori,
                              il futuro ufficiale, era stato il suo fidanzatino di sempre. Perciò,
                              va bene. Quel che voglio dire è che, alla fine dell’estate in cui
                              aveva lasciato che il cieco le toccasse il viso, gli ha detto addio, ha
                              sposato il suo fidanzatino eccetera, che intanto era diventato ufficiale,
                              e se ne è andata da Seattle. Però si erano mantenuti in contatto,
                              il cieco e lei. L’aveva cercato lei per prima, più o meno un anno
                              dopo. L’aveva chiamato una sera da una base dell’aeronautica
                              in Alabama. Aveva voglia di parlare. Parlarono. Lui le chiese di
                              mandargli un nastro e di raccontargli cosa faceva. Lei lo fece. Gli
                              mandò il nastro. Nel nastro gli raccontava del marito e della loro
                              vita insieme nell’ambiente militare. Gli disse che amava suo ma-
                              rito, ma che non le piaceva per niente dove vivevano e il fatto che
                              lui facesse parte del coso, del complesso militare-industriale. Disse
                              al cieco che aveva scritto una poesia e che c’era dentro anche
                              lui. Gli disse pure che ne stava scrivendo un’altra per raccontare
                              che cosa voleva dire essere la moglie di un ufficiale dell’aeronautica.
                              Quella poesia non l’aveva ancora finita. La stava ancora scrivendo.
                              Il cieco registrò un nastro di risposta. Glielo mandò. Lei a
                              sua volta ne registrò un altro. Ed è andata avanti così per anni.
                              L’ufficiale di mia moglie veniva trasferito da una base all’altra.
                              Lei mandò al cieco nastri dalla base Moody, da McGuire, McConnell
                              e infine da Travis, vicino Sacramento, dove una sera lei s’era
                              sentita sola e tagliata fuori dalla gente che continuava a lasciarsi
                              dietro in quella vita vagabonda. Era arrivata al punto che le pareva
                              di non riuscire più ad andare avanti. Allora aveva inghiottito tutte
                              le pasticche e capsule che aveva trovato nell’armadietto delle medicine
                              e le aveva annaffiate con una bottiglia di gin. Poi s’era infilata
                              in un bagno caldo e lì era svenuta.
                              Ma invece di morire si è sentita male. Ha vomitato tutto. Il suo
                              ufficialetto – perché dovrebbe avere un nome? è stato il suo fidanzatino
                              da sempre, che altro vuole? – è tornato a casa da non so dove,
                              l’ha trovata e ha chiamato un’ambulanza. Con il tempo, ha raccontato
                              tutta la storia su nastro e l’ha spedita al cieco. Con il passare
                              degli anni, ha registrato un sacco di cose e spediva nastri a tutta
                              birra. Oltre a scrivere una poesia all’anno, credo fosse il suo
                              principale mezzo di svago. In uno dei nastri, aveva detto al cieco
                              che aveva deciso di vivere lontano dal suo ufficiale per un certo
                              periodo. In un altro, gli aveva detto del divorzio. Poi io e lei abbiamo
                              cominciato a uscire insieme e, naturalmente, lei ne aveva parlato
                              al cieco. Insomma, gli raccontava tutto, o per lo meno così mi
                              pareva. Una volta mi ha perfino chiesto se volevo ascoltare l’ultimo
                              nastro che le aveva mandato il cieco. È stato un anno fa. Ha
                              detto che c’ero anch’io, sul nastro. E così le ho detto va bene, sen-
                              tiamo. Ho preparato da bere e ci siamo accomodati in soggiorno.
                              Eravamo pronti ad ascoltarlo. Prima di tutto lei ha messo il nastro
                              nel registratore e ha regolato un paio di manopole. Poi ha spinto un
                              pulsante. Il nastro ha fischiato un po’ e poi qualcuno ha cominciato
                              a parlare a voce molto alta. Lei ha abbassato il volume. Dopo
                              qualche secondo di chiacchiere, ho sentito il mio nome sulla bocca
                              di questo estraneo, un cieco che non conoscevo neanche! E poi
                              ha detto: “Da tutto quello che mi hai detto di lui, posso solo concludere...”
                              Ma a quel punto siamo stati interrotti. Hanno bussato
                              alla porta o qualcosa del genere e poi non siamo mai più tornati ad
                              ascoltarlo, quel nastro. Magari è stato meglio così. Avevo già sentito
                              tutto quello che volevo sentire.
                              E adesso questo stesso cieco veniva a dormire a casa mia.
                              “Magari lo posso portare al bowling”, ho detto a mia moglie.
                              Era al lavello che pelava le patate per lo sformato. Ha messo giù il
                              coltello e si è girata verso di me.
                              “Senti, se mi vuoi bene”, ha detto, “mi puoi fare questo favore.
                              Se non mi vuoi bene, pazienza. Ma se tu avessi un amico, qualsiasi
                              amico, e il tuo amico venisse a casa nostra, mi sforzerei di farlo
                              sentire a suo agio”. Si è asciugata le mani su uno strofinaccio.
                              “Io non ho nessun amico cieco”, le ho detto.
                              “Tu non hai nessun amico”, ha detto lei. “Punto. E poi”, ha aggiunto,
                              “accidenti, gli è appena morta la moglie! Possibile che non
                              capisci? Quel poveraccio ha appena perso la moglie!”
                              Non le ho neanche risposto. E così lei si è messa a raccontarmi
                              un po’ della moglie del cieco. Si chiamava Beulah. Beulah! È un
                              nome da donna di colore.
                              “Allora la moglie era negra?”, le ho chiesto.
                              “Ma sei matto?”, ha detto mia moglie. “Ti ha dato di volta il
                              cervello o che?” Ha preso su un’altra patata. L’ho vista cadere per
                              terra e rotolare sotto il fornello. “Si può sapere che ti piglia?”, ha
                              detto lei. “Sei ubriaco?”
                              “Stavo solo chiedendo”, ho detto io.
                              E allora mia moglie si è messa a raccontarmi tutto fornendo più
                              particolari di quanti ne avessi bisogno. Mi sono preparato da bere e
                              mi sono seduto ad ascoltarla. Pezzo dopo pezzo, la storia cominciava
                              a filare.
                              A quanto pare Beulah si era messa a lavorare per il cieco l’estate
                              dopo che mia moglie aveva smesso di lavorare per lui. Ben
                              presto Beulah e il cieco si sono ritrovati all’altare. Una piccola cerimonia
                              – ma chi ci andrebbe a un matrimonio del genere? – solo
                              loro due, il pastore e la moglie del pastore. Però si sono sposati in
                              chiesa lo stesso. Era stato un desiderio di Beulah, aveva detto lui.
                              Ma già all’epoca Beulah doveva portarsi dentro il cancro alle
                              ghiandole. Dopo essere stati inseparabili per otto anni – proprio
                              così, ha detto mia moglie,
                              inseparabili – la salute di Beulah era cominciata
                              rapidamente a peggiorare. Era morta in una stanza d’ospedale
                              a Seattle, con il cieco seduto al suo capezzale che le teneva
                              la mano. Si erano sposati, avevano vissuto e lavorato insieme,
                              dormito insieme – e pure scopato, certo – e poi il cieco l’ha dovuta
                              seppellire. Tutto questo senza che lui potesse mai vedere nemmeno
                              che faccia aveva quell’accidenti di donna. Proprio non ci arrivavo
                              a capire una cosa del genere. Asentire questa storia, mi è dispiaciuto
                              un po’per il cieco, devo dire. E poi mi sono ritrovato a riflettere
                              sulla vita disgraziata che quella poveraccia doveva aver
                              avuto. Immaginate un po’ una donna che non può mai riconoscersi
                              negli occhi dell’uomo che ama. Una donna che deve vivere giorno
                              dopo giorno senza mai ricevere il benché minimo complimento
                              dal suo amato. Una donna il cui marito non sarebbe mai riuscito
                              a leggere un’espressione sul suo volto, fosse di sofferenza o di
                              gioia. Una che poteva truccarsi oppure no – tanto che differenza
                              faceva per lui? Se voleva, poteva mettersi l’ombretto verde solo su
                              un occhio, infilarsi uno spillone nel naso, indossare pantaloni gialli

                              e scarpe viola, tanto non importava. E poi scivolare verso la mor-
                              te, con il cieco che le teneva la mano, con gli occhi opachi pieni di
                              lacrime – me lo sto immaginando – magari il suo ultimo pensiero
                              era stato proprio questo: che lui non aveva mai saputo neanche che
                              aspetto avesse e ormai lei era su un treno che la stava portando
                              dritta alla tomba. ARobert erano rimasti solo i soldi di una modesta
                              assicurazione e mezza moneta da venti pesos messicani. L’altra
                              metà era finita nella bara insieme a lei. Che storia patetica!
                              Insomma, quando è arrivato il momento, mia moglie è andata
                              a prenderlo giù alla stazione. Rimasto lì senza niente da fare – certo,
                              davo la colpa a lui anche di quello – mi stavo bevendo un goccetto
                              davanti alla televisione quando ho sentito la macchina imboccare
                              il vialetto. Mi sono alzato dal divano e con il bicchiere ancora
                              in mano sono andato alla finestra a guardare fuori.
                              Ho visto mia moglie ridere mentre parcheggiava. L’ho vista
                              scendere dalla macchina e chiudere lo sportello. Sorrideva ancora.
                              Incredibile. Ha girato intorno al cofano per andare dall’altra parte
                              dove il cieco stava già uscendo dalla macchina. Il cieco, immaginate
                              un po’, aveva un gran barbone! Un cieco con la barba! Un po’eccessivo,
                              secondo me. Il cieco ha allungato la mano sul sedile di dietro
                              e ha tirato fuori una valigia. Mia moglie l’ha preso per un braccio,
                              ha chiuso lo sportello e, senza smettere un attimo di chiacchierare,
                              l’ha guidato lungo il vialetto e poi su per i gradini della veranda.
                              Ho spento la televisione. Mi sono scolato il mio bicchiere, l’ho
                              sciacquato e mi sono asciugato le mani. Poi sono andato alla porta.
                              Mia moglie ha detto: “Ti voglio presentare Robert. Robert, lui
                              è mio marito. Sai già tutto di lui”. Era raggiante. Teneva il cieco
                              per la manica della giacca.
                              Il cieco ha mollato la valigia e mi ha porto la mano.
                              Gliel’ho presa. Me l’ha stretta forte e a lungo, e poi l’ha lasciata
                              andare.
                              “Ho come la sensazione di conoscerti già”, ha detto con voce
                              roboante.
                              “Anch’io”, ho detto. Non sapevo che altro dire. Poi ho aggiunto:
                              “Benvenuto. Ho sentito molto parlare di te”. Ci siamo spostati,
                              tutti insieme, dalla veranda al soggiorno, con mia moglie che lo
                              guidava per il braccio. Il cieco portava la valigia con l’altra mano.
                              Mia moglie diceva cose tipo: “Qui a sinistra, Robert. Sì, così. Adesso
                              attento, c’è una sedia. Ecco. Siediti qua. È il divano. L’abbiamo
                              appena comprato due settimane fa”.
                              Stavo per cominciare a dire qualcosa a proposito del vecchio
                              divano. C’ero affezionato, a quel vecchio divano. Ma non ho detto
                              niente. Poi volevo dirgli qualcos’altro, così, tanto per fare due
                              chiacchiere, sul panorama che si vede risalendo la valle dell’Hudson.
                              Sul fatto che
                              andando a New York, bisognerebbe sedersi sul
                              lato destro del treno, mentre
                              venendo da New York, sul sinistro.
                              “Hai fatto buon viaggio?”, gli ho chiesto. “A proposito, da quale
                              lato del treno eri seduto?”
                              “Che razza di domanda? Su quale lato!”, è intervenuta mia moglie.
                              “Che importa su quale lato ci si siede?”
                              “Stavo solo chiedendo”, ho detto.
                              “Sul destro”, ha risposto il cieco. “Erano quasi quarant’anni
                              che non salivo più su un treno. Da quando ero piccolo. Con i miei.
                              Ne è passato di tempo. Avevo quasi dimenticato che cosa si prova.
                              Ormai l’inverno è arrivato anche sulla mia barba”, ha detto. “Perlomeno,
                              così mi dicono. Ti pare che abbia un aspetto distinto, mia
                              cara?”, ha chiesto il cieco a mia moglie.
                              “Hai un aspetto molto distinto, Robert”, ha detto lei. “Robert”,
                              ha ripetuto. “Robert, sono proprio contenta di rivederti”.
                              Finalmente mia moglie è riuscita a staccare gli occhi di dosso
                              al cieco, e mi ha guardato. Ho avuto l’impressione che non le piacesse
                              quello che vedeva. Ho alzato le spalle.
                              Non avevo mai incontrato o conosciuto personalmente una
                              persona cieca. Questo cieco aveva quasi cinquant’anni ed era un

                              uomo massiccio, un po’ stempiato, con le spalle curve, come se
                              portasse un grande fardello. Indossava pantaloni marroni, scarpe
                              marroni, una camicia marroncina, la cravatta e una giacca sportiva.
                              Molto chic. E poi aveva questo barbone. Però non aveva né il
                              bastone né gli occhiali scuri. Ero convinto che gli occhiali scuri
                              fossero obbligatori per i ciechi. Il fatto è che mi sarebbe piaciuto
                              che li portasse. A prima vista, i suoi occhi sembravano normali.
                              Ma se si faceva più attenzione, avevano qualcosa di diverso. Tanto
                              per cominciare c’era troppo bianco intorno all’iride, e poi le pupille
                              sembravano muoversi nelle orbite senza che lui se ne rendesse
                              conto o fosse in grado di fermarle. Faceva venire la pelle
                              d’oca. Mentre lo guardavo fisso in faccia, ho visto la pupilla sinistra
                              girarsi verso il naso, mentre l’altra faceva lo sforzo di rimanere
                              ferma in un posto. Ma era solo uno sforzo, perché anche quell’occhio
                              s’è messo a vagare senza che lui lo sapesse, o che volesse
                              farlo.
                              Gli ho detto: “Ti prendo da bere. Cosa ti va? Abbiamo un po’di
                              tutto. È uno dei nostri passatempi preferiti”.
                              “Fratello, io sono un tifoso dello scotch”, ha risposto subito
                              con quel suo vocione.
                              “Ottimo”, ho detto io. Fratello! “Si vede subito. Ci avrei scommesso”.
                              Con le dita sfiorò la valigia che aveva messo accanto al divano.
                              Stava cercando di orientarsi. Non gliene facevo certo una colpa.
                              “Te la porto di sopra, in camera tua”, gli ha detto mia moglie.
                              “No, va bene”, ha detto il cieco sempre a voce alta. “Può andare
                              di sopra quando ci vado io”.
                              “Un po’ d’acqua nello scotch?”, gli ho chiesto.
                              “Giusto una goccia”, ha risposto lui.
                              “Ci avrei scommesso”, ho detto io.
                              Ha aggiunto: “Appena uno schizzo. Hai presente quell’attore
                              irlandese, Barry Fitzgerald? Be’, la penso come lui. Quando bevo
                              acqua, diceva Fitzgerald, bevo acqua. Quando bevo whisky, bevo
                              whisky”. Mia moglie si è messa a ridere. Il cieco si è portato una
                              mano sotto la barba. L’ha sollevata e poi l’ha fatta ricadere.
                              Ho preparato da bere, tre bei bicchieroni di scotch con appena
                              uno schizzo d’acqua dentro. Poi ci siamo messi comodi e abbiamo
                              cominciato a parlare dei viaggi di Robert. Prima il lungo volo dalla
                              costa occidentale al Connecticut, la cronaca completa. Poi il
                              viaggio fin qui con il treno. Quella tappa ha richiesto un altro bicchiere.
                              Ricordavo di aver letto da qualche parte che i ciechi non fumano
                              perché, secondo quella teoria, non vedono il fumo che esalano.
                              Sapevo questa cosa sui ciechi e, anzi, era l’unica cosa che sapevo
                              di loro. Ma questo cieco qui fumava le sigarette fino al filtro e poi
                              se ne accendeva subito un’altra. Insomma, lui lì a riempire il posacenere
                              e mia moglie a svuotarlo.
                              Quando ci siamo seduti a tavola per cena, ci siamo fatti il terzo
                              bicchiere. Mia moglie ha riempito il piatto di Robert con filetto,
                              sformato di patate e fagiolini. Io gli ho imburrato due fette di pane
                              e gli ho detto: “Ecco qua un po’ di pane e burro”. Ho mandato giù
                              un sorso dal mio bicchiere. “E adesso preghiamo”, ho detto poi, e
                              il cieco ha subito abbassato la testa. Mia moglie mi ha guardato a
                              bocca aperta. “Preghiamo che il telefono non squilli e che il cibo
                              non si freddi”, ho detto.
                              Ci abbiamo dato dentro. Abbiamo mangiato tutto il mangiabile
                              finché non è rimasto più niente in tavola. Abbiamo mangiato come
                              se il sole non dovesse più sorgere. Senza dire una parola. Abbiamo
                              mangiato e basta. Anzi, ci siamo abbuffati. Abbiamo spolverato
                              la tavola. Una mangiata seria. Il cieco ha localizzato subito
                              le pietanze, sapeva benissimo dov’era ogni cosa che aveva nel
                              piatto. L’osservavo ammirato tagliare la carne con il coltello tenendola
                              ferma con la forchetta. Tagliava due pezzetti di carne, se
                              li infilava in bocca e poi andava a caccia delle patate, poi dei fagiolini,
                              quindi staccava un pezzetto di pane imburrato e mangiava
                              pure quello. Alla fine, si beveva un bel sorso di latte. E non si faceva
                              particolari problemi a usare le dita, di tanto in tanto.
                              Abbiamo finito tutto, compresa mezza torta alle fragole. Per
                              qualche secondo siamo rimasti lì, come fulminati. Avevamo la
                              faccia imperlata di sudore. Alla fine ci siamo alzati lasciando i
                              piatti sporchi sul tavolo. Non ci siamo neanche girati a guardarli.
                              Ci siamo trasferiti in soggiorno e siamo sprofondati nei nostri posti.
                              Robert e mia moglie sedevano sul divano e io nella poltrona
                              grande. Ci siamo fatti altri due o tre bicchieri di scotch mentre loro
                              parlavano delle cose principali che gli erano capitate negli ultimi
                              dieci anni. Per lo più, io stavo solo a sentire. Ogni tanto dicevo
                              qualcosa. Non volevo che lui pensasse che ero uscito dalla stanza
                              o che lei credesse che mi sentissi tagliato fuori. Parlavano di cose
                              che erano successe a loro – a loro! – negli ultimi dieci anni. Ho
                              aspettato invano di sentire il mio nome pronunciato dalle dolci
                              labbra di mia moglie: “E poi è entrato in scena il mio caro maritino...”,
                              qualcosa del genere. Ma niente da fare. Si è parlato sempre
                              di Robert. Aquanto pare, Robert aveva fatto di tutto un po’, un vero
                              e proprio tuttofare cieco. Ma negli ultimi tempi lui e la moglie
                              si erano messi a distribuire prodotti della Amway e, da quello che
                              ho capito, riuscivano a ricavare di che vivere, bene o male. Il cieco
                              era anche un provetto radioamatore. Con il suo vocione ci ha
                              raccontato delle conversazioni che aveva avuto con i colleghi radioamatori
                              a Guam, nelle Filippine, in Alaska e perfino a Tahiti.
                              Diceva che avrebbe avuto un sacco di amici in quei posti, se mai
                              fosse riuscito a visitarli. Di tanto in tanto, voltava lo sguardo cieco
                              verso di me; si metteva la mano sotto la barba e mi chiedeva
                              qualcosa. Da quanto tempo lavoravo nell’attuale impiego? (Tre
                              anni.) Mi piaceva il mio lavoro? (Neanche un po’.) Avrei continuato
                              a farlo? (Che scelta avevo?) Alla fine, quando mi pareva
                              che gli si stessero per esaurire le batterie, mi sono alzato e ho acceso
                              la tv.
                              Mia moglie mi ha dato un’occhiataccia irritata. Stava per entrare
                              in ebollizione. Poi ha guardato il cieco e gli ha chiesto: “Di’
                              un po’, Robert, ma tu ce l’hai il televisore?”
                              Il cieco le ha risposto: “Mia cara, ne ho due di televisori. Uno a
                              colori e un pezzo d’antiquariato in bianco e nero. È buffo, ma se
                              l’accendo, e l’accendo spesso, accendo sempre quello a colori.
                              Non ti sembra buffo?”
                              Non sapevo che dire in proposito. Assolutamente niente. Nessuna
                              opinione. E così mi sono messo a guardare il telegiornale e ho
                              provato ad ascoltare quello che diceva l’annunciatore.
                              “Questo televisore qui è a colori”, ha detto il cieco. “Non chiedetemi
                              come faccio a saperlo, ma riesco a capire la differenza”.
                              “Sì, l’abbiamo cambiato da poco”, ho detto io.
                              Il cieco ha preso un altro sorso del suo scotch. Ha tirato su la
                              barba, l’ha annusata e poi l’ha lasciata ricadere. Si è chinato in
                              avanti sul divano. Si è sistemato il posacenere davanti sul tavolinetto,
                              poi s’è acceso la sigaretta. Si è riappoggiato allo schienale e
                              ha incrociato le caviglie.
                              Mia moglie si è coperta la bocca e ha sbadigliato. Si è stirata un
                              po’. Ha detto: “Mi sa che vado di sopra a mettermi in vestaglia. Mi
                              sa che mi cambio adesso. Robert, tu mettiti pure a tuo agio”.
                              “Sono a mio agio”, ha detto il cieco.
                              “Voglio che ti senti a tuo agio in questa casa”, ha detto lei.
                              “Sono a mio agio”, ha ripetuto il cieco.
                              Dopo che lei è uscita, io e lui abbiamo sentito le previsioni del
                              tempo e poi il riepilogo delle notizie sportive. Aquel punto se n’era
                              andata da tanto di quel tempo che non ero mica sicuro che sarebbe
                              tornata. Ho pensato che se ne fosse andata a letto, ormai. Volevo
                              tanto che riscendesse. Non volevo essere lasciato da solo con
                              il cieco. Gli ho chiesto se voleva un altro goccio e lui ha detto come
                              no? Poi gli ho chiesto se voleva farsi uno spinello insieme a
                              me. L’ho informato che ne avevo appena rollato uno. Non era vero,
                              ma avevo in mente di farlo in men che non si dica.
                              “Lo provo insieme a te”, ha detto lui.
                              “Giusto, accidenti!”, ho esclamato io. “Così si fa”.
                              Ho preparato lo scotch e mi sono seduto sul divano accanto a
                              lui. Poi ho rollato due bei cannoni. Ne ho acceso uno e gliel’ho
                              passato, mettendoglielo tra le dita. Lui l’ha preso e ha aspirato.
                              “Tienilo dentro finché puoi”, gli ho detto. Avevo capito che
                              non se ne intendeva per niente.
                              Mia moglie è tornata di sotto con la sua vestaglia rosa e le pantofole
                              rosa.
                              “Che cos’è questo odore?”, ha detto.
                              “Abbiamo pensato di farci un po’ di marijuana”, le ho detto.
                              Mia moglie mi ha lanciato un’occhiata furibonda. Poi ha guardato
                              il cieco e gli ha detto: “Robert, non sapevo che fumassi”.
                              Lui le ha risposto: “Be’, adesso lo sto facendo, mia cara. C’è
                              una prima volta per tutto. Ma ancora non sento niente”.
                              “È roba piuttosto leggera”, ho detto io. “Roba tenera. Erba con
                              cui si ragiona”, ho aggiunto. “Non è che ti sconvolge troppo”.
                              “No, non troppo, davvero, fratello”, ha detto e si è messo a ridere.
                              Mia moglie si è seduta sul divano tra me e il cieco. Le ho passato
                              lo spinello. Lei lo ha preso e gli ha dato una tirata, poi me l’ha
                              ripassato. “Da che parte gira?”, ha chiesto. Poi ha detto: “Non dovrei
                              fumarlo. Già non riesco a tenere gli occhi aperti. Quella cena
                              mi ha steso. Non avrei dovuto mangiare tanto”.
                              “Tutta colpa della torta alle fragole”, ha detto il cieco. “È stata
                              senz’altro quella”. È scoppiato in una delle sue risate sonore. Poi
                              ha scosso la testa.
                              “Ce n’è ancora di torta alle fragole”, ho detto io.
                              “Ne vuoi ancora un po’, Robert?”, gli ha chiesto mia moglie.
                              “Magari più tardi”, ha risposto lui.
                              Abbiamo rivolto la nostra attenzione alla tv. Mia moglie ha
                              sbadigliato di nuovo. Poi ha detto: “Il letto è pronto, quando vuoi
                              andare a letto, Robert. So che devi aver avuto una giornata faticosa.
                              Appena sei pronto per andare a letto, non hai che da dirlo”. Gli
                              ha dato un strattone. “Robert?”
                              Lui si è riscosso e ha detto: “Mi sono divertito un sacco, davvero.
                              Altro che nastri, eh?”
                              Gli ho detto: “È in arrivo”, e gli ho infilato lo spinello tra le dita.
                              Lui ha inalato, ha trattenuto il fumo e poi l’ha lasciato andare.
                              Adesso era come se l’avesse sempre fatto da quando aveva nove
                              anni.
                              “Grazie, fratello”, ha detto. “Ma mi sa che adesso mi fermo. Mi
                              sa che comincio a sentirlo”. Ha passato il mozzicone fumante a
                              mia moglie.
                              “Idem come sopra”, ha detto lei. “Mi fermo anch’io”. Ha preso
                              il mozzicone e me l’ha passato. “Magari me ne sto seduta un altro
                              po’ qui tra voi, ragazzi, e chiudo gli occhi. Ma fate come se io non
                              ci fossi, d’accordo? Se dà fastidio a uno di voi, basta che me lo dite.
                              Altrimenti, magari me ne sto seduta qui buona buona con gli occhi
                              chiusi finché non siete pronti per andare a letto. Il tuo letto è
                              pronto, Robert, appena sei pronto. È proprio accanto alla nostra
                              camera, in cima alle scale. Appena sei pronto, ti accompagniamo
                              di sopra. Sentite, ragazzi, se mi dovessi addormentare, svegliatemi”.
                              Appena detto così, ha chiuso gli occhi e si è addormentata.
                              Alla fine del telegiornale, mi sono alzato e ho cambiato canale.
                              Poi mi sono riseduto sul divano. Avrei voluto che mia moglie non
                              fosse crollata in quel modo. Aveva la testa appoggiata allo schienale
                              del divano ed era rimasta a bocca aperta. Si era girata in modo
                              che la vestaglia le era scivolata sulle gambe, lasciando scoperta
                              una coscia succulenta. Ho allungato un braccio per richiudergliela
                              ed è stato a quel punto che ho dato un’occhiata al cieco. Al
                              diavolo! Con un colpetto, le ho riaperto la vestaglia.
                              “Appena ti va ancora un po’ di torta alle fragole, non hai che da
                              dirmelo”, gli ho detto.
                              “Certo”.
                              Poi gli ho chiesto: “Sei stanco? Vuoi che ti porti di sopra, a letto?
                              Sei pronto per metterti a nanna?”
                              “Ancora no”, ha risposto. “No, starò alzato con te ancora un po’,
                              fratello. Se non ti dispiace. Starò su finché non sei pronto per ritirarti.
                              Non abbiamo avuto la possibilità di fare due chiacchiere. Capisci
                              che cosa voglio dire? Mi è parso che io e lei abbiamo un po’
                              monopolizzato la serata”. Ha sollevato di nuovo la barba e l’ha lasciata
                              ricadere. Ha raccolto il pacchetto di sigarette e l’accendino.
                              “Non ti preoccupare”, l’ho rassicurato. Poi ho detto: “Anzi, mi
                              fa piacere un po’ di compagnia”.
                              E mi sa che era vero. Tutte le sere mi fumavo uno spinello e rimanevo
                              alzato finché non cadevo dal sonno. Io e mia moglie ormai
                              raramente ce ne andavamo a letto alla stessa ora. Quando poi
                              mi addormentavo, facevo un sacco di sogni. Avolte mi svegliavo
                              nel bel mezzo di uno di questi sogni, con il cuore che correva all’impazzata.
                              In tv c’era un documentario sulla chiesa e il medioevo. Non era
                              certo il solito programma televisivo. Volevo guardare qualcos’altro.
                              Ho fatto un giro dei canali. Ma anche sugli altri non c’era niente
                              d’interessante. Così ho rimesso sul primo canale e mi sono scusato
                              con lui.
                              “Non c’è problema, fratello”, ha detto il cieco. “Per me va bene
                              qualsiasi cosa. Quello che vuoi vedere tu, a me sta bene. Imparo
                              sempre qualcosa. Non si finisce mai d’imparare. Non mi farà
                              certo male imparare qualcosa anche stasera. Le orecchie mi funzionano”,
                              ha detto.
                              Se n’è stato zitto per un po’. Era curvo in avanti, con la testa rivolta
                              a me e l’orecchio destro puntato verso l’apparecchio. Un po’
                              sconcertante. Di tanto in tanto le palpebre gli calavano sugli occhi,
                              ma poi si riaprivano di scatto. Di tanto in tanto s’infilava le dita nella
                              barba e gli dava una tiratina, come se stesse riflettendo su qualcosa
                              di quello che sentiva alla televisione.
                              Sullo schermo, un gruppo di uomini incappucciati era attaccato
                              e tormentato da altri vestiti da scheletri o in costume da diavolo. I
                              diavoli portavano maschere diaboliche, corna e lunghe code. Questa
                              scena faceva parte di una processione. Il commentatore aveva un accento
                              inglese e diceva che la processione si svolgeva in Spagna una
                              volta all’anno. Ho cercato di spiegare al cieco quello che succedeva.
                              “Scheletri”, ha detto lui. “Lo so che cosa sono gli scheletri”, ha
                              detto, annuendo.
                              La tv ha fatto vedere questa cattedrale. Poi c’è stata una lunga,
                              lenta carrellata su un’altra cattedrale. Alla fine sul video è apparsa
                              quella famosissima di Parigi, con gli archi rampanti e le guglie che
                              puntano alle nuvole. La telecamera è arretrata per mostrare l’intera
                              cattedrale che si stagliava all’orizzonte.
                              In certi momenti il commentatore inglese restava in silenzio e
                              si limitava a lasciare che la telecamera inquadrasse varie parti della
                              cattedrale. Oppure l’obiettivo vagava per paesaggi rurali, con
                              uomini nei campi che camminavano dietro ai buoi. Finché ho potuto,
                              sono rimasto in silenzio anch’io. Poi mi sono sentito in dovere
                              di parlare. Ho detto: “Adesso stanno facendo vedere l’esterno di
                              una cattedrale. I grondoni, statuette scolpite a forma di mostri.
                              Adesso mi sa che stanno in Italia. Sì, stanno proprio in Italia. Le
                              pareti di questa chiesa sono tutte dipinte”.
                              “Per caso sono affreschi, fratello?”, ha chiesto lui, sorseggiando
                              dal suo bicchiere.
                              Ho allungato la mano per prendere il mio. Ma era vuoto. Ho
                              cercato di ricordarmi tutto quello che potevo ricordare. “Mi stai
                              chiedendo se sono affreschi?”, ho detto. “Bella domanda. Non lo
                              so mica”.
                              Le riprese sono passate a mostrare una cattedrale fuori Lisbona.
                              Le differenze tra la cattedrale portoghese rispetto a quelle francesi
                              o italiane non erano poi così marcate. Eppure c’erano. Riguardavano
                              per lo più gli arredi interni. Poi m’è venuta in mente
                              una cosa e ho detto: “M’è appena venuta in mente una cosa. Ma tu
                              ce l’hai un’idea di che cos’è una cattedrale? Cioè, di che aspetto
                              hanno? Capisci? Se qualcuno ti dice ‘cattedrale’, hai un’idea di
                              che cosa sta parlando? Per esempio, la sai la differenza che passa
                              tra quella e una chiesa battista?”
                              Lui ha lasciato uscire pian piano del fumo dalla bocca. “So che
                              ci sono voluti centinaia di uomini e cinquanta o cento anni per costruirle”,
                              ha detto. “L’ho appena sentito dire da quel tizio, naturalmente.
                              So che intere generazioni di una stessa famiglia a volte
                              hanno lavorato a una cattedrale. L’ho sentito dire anche questo.
                              Quelli che hanno messo tutto il lavoro della loro vita per cominciarle,
                              non hanno mai visto l’opera finita. Da quel punto di vista,
                              fratello, non è che siano molto diversi dal resto di noi, giusto?” Si
                              è messo a ridere. Poi le palpebre gli sono calate giù di nuovo. Ha
                              tentennato un po’ la testa. Pareva sonnecchiare. Magari stava immaginando
                              di essere in Portogallo. In tv adesso stavano facendo
                              vedere un’altra cattedrale. In Germania, questa volta. La voce dell’inglese
                              continuava a commentare, monotona. “Cattedrali”, ha
                              detto il cieco. Si è tirato su a sedere e ha cominciato a dondolare la
                              testa da una parte all’altra. “Se vuoi sapere la verità, fratello, questo
                              è su per giù tutto quel che so. Quello che ho appena detto. Quello
                              che ho sentito dire da quel tizio. Ma magari me ne puoi descrivere
                              una tu, eh? Vorrei tanto che lo facessi. Mi piacerebbe un sacco.
                              Se proprio vuoi saperlo, un’idea precisa non ce l’ho mica”.
                              Io mi sono concentrato sull’inquadratura della cattedrale sullo
                              schermo. Come si fa a descriverla, anche a grandi linee? Ma supponiamo
                              che ne andasse della mia vita. Diciamo che un pazzo mi
                              minacciasse, dicendo che dovevo farlo, altrimenti...
                              Ho fissato ancora un po’ la cattedrale prima che l’inquadratura
                              passasse di nuovo al paesaggio circostante. Ma era inutile. Mi sono
                              rivolto al cieco e gli ho detto: “Tanto per cominciare, sono altissime”.
                              Mi sono guardato intorno nella stanza in cerca d’aiuto.
                              “Svettano nel cielo. Sempre più su. Puntate dritte al cielo. Alcune
                              sono così grandi che devono avere questa specie di puntelli. Per
                              sostenerle in aria, per così dire. Questi puntelli si chiamano archi
                              rampanti. Per qualche motivo, mi fanno venire in mente dei viadotti.
                              Ma magari tu non sai nemmeno che cosa sono i viadotti, eh?
                              Avolte le cattedrali hanno diavoli e roba del genere scolpiti all’esterno
                              sulla facciata. Altre volte, dame e cavalieri. Non mi chiedere
                              come mai”, ho detto.
                              Lui annuiva. Tutta la parte superiore del corpo sembrava oscillare
                              avanti e indietro.
                              “Non me la sto cavando tanto bene, vero?”, gli ho chiesto.
                              Lui ha smesso di annuire e si è chinato in avanti, sul bordo del
                              divano. Mentre mi ascoltava, continuava a passarsi le dita in mezzo
                              alla barba. Mi rendevo conto che non glielo stavo spiegando
                              tanto bene. Però voleva che andassi avanti lo stesso. Mi sono sforzato
                              di pensare a cos’altro dire. “Sono davvero grandi”, ho aggiunto.
                              “Massicce. Sono fatte di pietra. Avolte di marmo. Ai vecchi
                              tempi, quando costruivano le cattedrali, gli uomini volevano
                              essere vicini a Dio. Ai vecchi tempi, Dio era una parte importante
                              della vita di ognuno. Lo si capisce da tutte le cattedrali che costruivano.
                              Scusa”, gli ho detto poi, “ma mi sa tanto che questo è il
                              massimo che posso fare per te. È che non ne sono proprio capace”.
                              “Non ti preoccupare, fratello”, ha detto il cieco. “Ehi, sta’ a sentire.
                              Spero che non ti dispiaccia quello che sto per chiederti. Posso
                              chiederti una cosa? È una domanda semplice, sì o no. Sono solo curioso,
                              senza offesa. Sono ospite a casa tua. Ma permettimi di chiederti:
                              sei in qualche modo religioso? Ti dispiace se te lo chiedo?”
                              Ho scrollato la testa. Ma lui non poteva mica vederlo. Se an-
                              nuisci o gli fai l’occhietto, per un cieco è la stessa identica cosa.
                              “Mi sa tanto che non ci credo mica. In niente. A volte è dura, sai.
                              Capisci cosa voglio dire?”
                              “Certo”, ha detto lui.
                              “Appunto”, ho detto io.
                              L’inglese continuava ad andare avanti imperterrito. Mia moglie
                              ha sospirato nel sonno. Ha tirato un lungo respiro e ha continuato a
                              dormire.
                              “Mi dovrai scusare”, gli ho detto. “Ma non ci riesco proprio a
                              spiegarti com’è fatta una cattedrale. Non ne sono proprio capace.
                              Non posso fare meglio di così”.
                              Il cieco è rimasto seduto immobile e mi ascoltava con la testa
                              abbassata.
                              Ho detto: “Il fatto è che le cattedrali non è che significhino
                              niente di speciale per me. Niente. Le cattedrali. Sono solo cose da
                              vedere in tv la sera tardi. Tutto lì”.
                              È stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola. Gli è venuto
                              su qualcosa. Ha tirato fuori un fazzoletto dalla tasca di dietro.
                              Poi ha detto: “Ho capito, fratello. Non è un problema. Capita. Non
                              stare a preoccupartene troppo”, così ha detto. “Ehi, sta’ a sentire.
                              Me lo fai un favore? Mi è venuta un’idea. Perché non ti procuri un
                              pezzo di carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne
                              disegniamo una insieme. Prendi una penna e un pezzo di carta pesante.
                              Coraggio, fratello, trovali e portali qua”, ha detto.
                              E così sono salito di sopra. Mi pareva di non avere più un briciolo
                              di forza nelle gambe. Me le sentivo come dopo aver fatto una corsa.
                              Ho rovistato un po’ nello studio di mia moglie. Ho trovato delle
                              penne a sfera in un cestino sulla scrivania. E poi mi sono sforzato di
                              pensare a dove potevo trovare il tipo di carta che mi aveva chiesto.
                              Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del supermercato
                              che aveva ancora delle bucce di cipolla in fondo. L’ho
                              svuotata scuotendola per bene. L’ho portata di là in soggiorno e mi
                              sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un
                              po’ di roba, ho allisciato la busta e l’ho stesa sul tavolino.
                              Il cieco si è tirato giù dal divano e si è seduto accanto a me sul
                              tappeto.
                              Ha passato le dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e giù i margini.
                              I bordi, perfino i bordi. Ne ha tastato per bene gli angoli.
                              “Perfetto”, ha detto. “Perfetto, facciamola”.
                              Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua
                              mano sulla mia. “Coraggio, fratello, disegna”, ha detto. “Disegna.
                              Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà tutto bene. Comincia subito a fare
                              come ti dico. Vedrai. Disegna”, ha detto il cieco.
                              E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola
                              che pareva una casa. Poteva essere anche la casa in cui abitavo. Poi
                              ci ho messo sopra un tetto. Alle due estremità del tetto, ho disegnato
                              delle guglie. Roba da matti.
                              “Benone”, ha detto lui. “Magnifico. Vai benissimo”, ha detto.
                              “Non avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere,
                              eh, fratello? Be’, la vita è strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua
                              pure. Non smettere”.
                              Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi
                              rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. I programmi
                              della televisione erano finiti. Ho posato la penna e ho aperto e
                              chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la carta. La sfiorava con
                              la punta delle dita, passando sopra a tutto quello che avevo disegnato,
                              e annuiva.
                              “Vai forte”, ha detto infine.
                              Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato
                              ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho
                              continuato a disegnare lo stesso.
                              Mia moglie ha aperto gli occhi e ci ha fissato. Si è tirata a sedere
                              sul divano, con la vestaglia tutta aperta. Ha detto: “Che cosa state
                              facendo? Ditemelo, voglio sapere”.
                              Non le ho risposto.
                              Il cieco ha detto: “Stiamo disegnando una cattedrale. Ci stiamo
                              lavorando insieme, io e lui. Premi più forte”, ha detto, rivolto a me.
                              “Sì, così. Così va bene”, ha aggiunto. “Certo. Ce l’hai fatta, fratello.
                              Si capisce bene, adesso. Non credevi di farcela, eh? Ma ce l’hai
                              fatta, ti rendi conto? Adesso sì che vai forte. Capisci cosa voglio
                              dire? Tra un attimo qui avremo un vero capolavoro. Come va il
                              braccio?”, ha chiesto. “Ora mettici un po’ di gente. Che cattedrale
                              è senza la gente?”
                              Mia moglie ha chiesto: “Ma che succede? Robert, che cosa stai
                              facendo? Si può sapere che succede?”
                              “Tutto a posto”, le ha detto lui. “E adesso chiudi gli occhi”, ha
                              aggiunto, rivolto a me.
                              L’ho fatto. Li ho chiusi proprio come m’ha detto lui.
                              “Li hai chiusi?”, ha chiesto. “Non imbrogliare”.
                              “Li ho chiusi”, ho risposto io.
                              “Tienili così”, ha detto. Poi ha aggiunto: “Adesso non fermarti.
                              Continua a disegnare”.
                              E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre
                              la mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non
                              avevo mai provato prima in vita mia.
                              Poi lui ha detto: “Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta”,
                              ha detto. “Da’ un po’ un’occhiata. Che te ne pare?”
                              Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli
                              chiusi ancora un po’. Mi pareva una cosa che dovevo fare.
                              “Allora?”, ha chiesto. “La stai guardando?”
                              Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma
                              avevo come la sensazione di non stare dentro a niente.
                              “È proprio fantastica”, ho detto.

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