Esecuzione in onda su Al Arabya: i taleban fanno sgozzare una "spia" ad un bambino
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CARLA RESCHIA
Morale talebana. Nell’Afghanistan che sta riscivolando verso l’incubo, un bambino non può far volare un aquilone, non può guardare la tv, nè ascoltare musica (e, se è femmina nemmeno frequentare l’unica scuola ammessa, quella coranica). Ma può, deve sgozzare un «traditore» sotto l’occhio attento delle telecamere, pronte a immortalare il gesto esemplare per proporlo al mondo.
Si cresce presto nell’ Afghanistan che da decenni non conosce tregua, ma ovunque 12 anni sono pochi per essere trasformati in «giustiziere». Dodici, forse. Perché il piccolo boia finito su Internet e rilanciato da Al Arabya nell’etere non ha età nè nome. Solo un piccolo viso innocente, occhi enormi e dilatati sotto la fascia islamista che gli cinge la fronte. E con impaccio e voce infantili recita la sua filastrocca guardando in camera, prima di tendere il braccio rigido e armato di coltello verso la gola della sua vittima, che un aiutante tiene ferma.
A questo punto, con il coltellaccio appoggiato alla carotide, i giornalisti di Al Arabya hanno ritenuto opportuno chiudere. Ma è difficile sperare in un montaggio: è vero il terrore del condannato, è vero lo scenario qualunque di un villaggio semidiroccato, dove sullo sfondo per tutto il tempo passa gente e qualcuno, cautamente, sbircia. È, in un certo senso, uno spaccato di vita quotidiana. La vittima viene bendata a vista e c’è modo per identificare il «traditore». Si chiama Gholam Nabi, il padre lo ha riconosciuto. Sì, ha confermato, è (era) suo figlio e, sì, i taleban lo hanno chiamato per informarlo che era accusato di spionaggio. Sarebbe stato lui, per convinzione o per denaro, ad aver aiutato gli americani a individuare e uccidere, il dicembre scorso, un pezzo grosso degli «studenti coranici», Aktar Mohammad Osman, additato come l’erede «spirituale» del mullah Omar. Un’esecuzione mirata: l’auto del capo taleban era stata individuata in una delle roccaforti del Sud dell’Afghanistan e colpita dall’alto, con un’operazione aerea.
Anche il filmato, un pugno nello stomaco e un’offesa all’infanzie, è un messaggio mirato. I taleban sono tutti velati: a volto scoperto ci sono solo l’ucciso, per rendere pubblica la sua sorte, e l’uccisore. Per far vedere, cosa? Questi anni hanno abituato alle esecuzioni filmate in diretta, da Fabrizio Quattrocchi sparato alla nuca in Iraq al giornalista Daniel Pearl, rapito, ucciso e decapitato in Pakistan da Al Zarqawi in persona. Che l’assassino sia un innocente è il messaggio. Non la novità. Anche gli iraniani mandavano i bambini a morire nelle paludi dello Shatt El Arab contro l’Iraq, con l’immagine di Khomeini sul petto. Ma allora Internet non c’era.
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CARLA RESCHIA
Morale talebana. Nell’Afghanistan che sta riscivolando verso l’incubo, un bambino non può far volare un aquilone, non può guardare la tv, nè ascoltare musica (e, se è femmina nemmeno frequentare l’unica scuola ammessa, quella coranica). Ma può, deve sgozzare un «traditore» sotto l’occhio attento delle telecamere, pronte a immortalare il gesto esemplare per proporlo al mondo.
Si cresce presto nell’ Afghanistan che da decenni non conosce tregua, ma ovunque 12 anni sono pochi per essere trasformati in «giustiziere». Dodici, forse. Perché il piccolo boia finito su Internet e rilanciato da Al Arabya nell’etere non ha età nè nome. Solo un piccolo viso innocente, occhi enormi e dilatati sotto la fascia islamista che gli cinge la fronte. E con impaccio e voce infantili recita la sua filastrocca guardando in camera, prima di tendere il braccio rigido e armato di coltello verso la gola della sua vittima, che un aiutante tiene ferma.
A questo punto, con il coltellaccio appoggiato alla carotide, i giornalisti di Al Arabya hanno ritenuto opportuno chiudere. Ma è difficile sperare in un montaggio: è vero il terrore del condannato, è vero lo scenario qualunque di un villaggio semidiroccato, dove sullo sfondo per tutto il tempo passa gente e qualcuno, cautamente, sbircia. È, in un certo senso, uno spaccato di vita quotidiana. La vittima viene bendata a vista e c’è modo per identificare il «traditore». Si chiama Gholam Nabi, il padre lo ha riconosciuto. Sì, ha confermato, è (era) suo figlio e, sì, i taleban lo hanno chiamato per informarlo che era accusato di spionaggio. Sarebbe stato lui, per convinzione o per denaro, ad aver aiutato gli americani a individuare e uccidere, il dicembre scorso, un pezzo grosso degli «studenti coranici», Aktar Mohammad Osman, additato come l’erede «spirituale» del mullah Omar. Un’esecuzione mirata: l’auto del capo taleban era stata individuata in una delle roccaforti del Sud dell’Afghanistan e colpita dall’alto, con un’operazione aerea.
Anche il filmato, un pugno nello stomaco e un’offesa all’infanzie, è un messaggio mirato. I taleban sono tutti velati: a volto scoperto ci sono solo l’ucciso, per rendere pubblica la sua sorte, e l’uccisore. Per far vedere, cosa? Questi anni hanno abituato alle esecuzioni filmate in diretta, da Fabrizio Quattrocchi sparato alla nuca in Iraq al giornalista Daniel Pearl, rapito, ucciso e decapitato in Pakistan da Al Zarqawi in persona. Che l’assassino sia un innocente è il messaggio. Non la novità. Anche gli iraniani mandavano i bambini a morire nelle paludi dello Shatt El Arab contro l’Iraq, con l’immagine di Khomeini sul petto. Ma allora Internet non c’era.
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