FONTE LA STAMPA
"Siete ricchi e viziati, vi odio"
Un ragazzo ombroso diventato assassino: il killer del campus ha lasciato una lettera in cui accusa
gli universitari
MAURIZIO MOLINARI
INVIATO A BLACKSBURG
Colpa vostra, siete stati voi a spingermi a farlo». Il killer del Virginia Tech è il sudcoreano Cho Seung-hui, 23 anni, e ha consegnato a una lettera lunga diverse pagine i motivi che lo hanno portato a uccidere 32 persone prima di suicidarsi. «Siete dei ragazzi ricchi», «passate il tempo a mettere in atto inutili inganni» ha scritto in una confessione redatta fra le due stragi commesse, confermando di essere lo «studente solitario», «ombroso» e «silenzioso» descritto da Larry Hinker, portavoce della scuola. Uno studente suo ex compagno di lezioni di inglese ha raccontato che quando all’inizio del corso il professore chiese a tutti di presentarsi lui fu l’unico a non rispondere, restando con le labbra chiuse. Per altri si mostrava spesso «violento e erratico».
Immigrato dalla Sud Corea nel 1992, cresciuto in un sobborgo di Washington e arrivato al Virginia Tech per studiare «disegno creativo» Cho non aveva mai legato, si era autorecluso e, secondo fonti della polizia, era diventato dipendente da farmaci. E’ questo l’identikit dello studente che armato di due pistole - una 9 mm e una «piccola» calibro 22 - ha organizzato la strage con cura riuscendo a non sollevare sospetti e anche a beffarsi della sicurezza del campus nel giorno della strage, colpendo due volte in luoghi diversi, a distanza di circa due ore. Ma Cho non aveva tenuto del tutto nascoste le sue intenzioni. In un paio di testi teatrali, fatti leggere ai compagni, aveva inscenato il massacro, con tanto di dettagli, secondo la testimonianza dello studente Ian McFarland: «Erano qualcosa uscito da un incubo, con una violenza macabra, malata, e l’uso di armi a cui io non avrei mai neppure pensato».
Ciò che resta delle sue vittime sono cellulari, zainetti, piccoli portamonete colorati, cappellini con le insegne del Virginia Tech, orologi, spillette, braccialetti e molti anelli che sono stati posizionati con cura sul pavimento della grande aula al secondo piano del West Ambler Johnston Building. Alcuni sono chiazzati di sangue. Una lunga coda silenziosa di studenti sfila sulle scale fino alla porta semichiusa dalla quale è possible sbirciare verso il pavimento. Prevale il silenzio, alcune ragazze indiane non riescono a frenare il pianto, molti indossano al polso i braccialetti di stoffa arancione confezionati a mano nella notte da Maggie e Rachel, due compagne di classe di alcune delle vittime, che hanno rinunciato a dormire per creare in tempo record un oggetto capace di unire i quasi 26 mila studenti del Virginia Tech.
Alla finestra di uno dei dormitori in pietra chiara è affisso un grande striscione bianco con la scritta «04-16-07 Vt United» per indicare la solidarietà fra gli alunni del Politecnico cementata dalla data della strage. Gran parte dei 2600 ettari del campus sono stati dichiarati «scena criminale» da polizia statale, squadre della scientifica e agenti dell’Fbi. I nastri gialli recintano un ateneo assediato da satelliti televisivi e giornalisti di fronte ai quali si presentano volontariamente molti studenti e qualche professore per raccontare l’esperienza vissuta. L’unica ad accettare di parlare del killer è Lucinda Roy, insegnante di disegno creativo che aveva Cho fra gli allievi. Non vuole dire cosa disegnava «perché è una questione di privacy della classe» ma si lascia sfuggire che «esprimeva un aspetto molto turbolento del carattere».
Gli studenti, che si definiscono «sopravvissuti», si sfogano parlando delle vittime e dei loro sogni oramai spenti: c’era chi aspirava a progettare il tunnel sotto gli Oceani, chi si era appena innamorato e chi era venuto in quest’angolo della Montgomery County seguendo la passione della matematica. Fra i reduci vi sono anche degli italiani, come Massimiliano Naso, uno studente romano di ingegneria ambientale che ha lasciato l’aula poco prima della strage. «Li ha messi in fila dentro la mia classe, sparandogli in faccia, uno dopo l’altro - racconta - il riconoscimento del mio amico Daniel ha preso molto tempo perché gli aveva sparato in faccia». La rabbia dei sopravvissuti si indirizza verso il preside dell’Università, Charles Steger, ed il capo della polizia, Wendel Flunchman, accusati di aver reagito tardi e male all’emergenza-killer, commettendo errori tanto gravi da aver consentito a Cho di compiere indisturbato la strage nella Norris Hall.
Nell’albergo poco distante dal campus i genitori delle vittime ricevono i pasti preparati dall’Esercito della Salvezza - 500 solo nella giornata di ieri - chiedendo a chiunque si avvicina notizie sull’identificazione delle salme, che continua a tardare. La domanda più ricorrente fra loro è «Why?», verte sul perché di un movente che resta incomprensibile nonostante l’odio contro il prossimo contenuto nella lettera del killer. La chiave del mistero potrebbe essere la relazione sentimentale oramai finita con una ragazza che tutti cercano ma sembra svanita nel nulla, a cominciare dal suo stesso nome. Isolato nella campagna che si estende fra Virginia e Tennessee sullo sfondo delle Blue Ridge Mountains, il Virginia Tech si presenta come una cittadella del dolore che altro non aspetta che ritrovarsi, subito dopo il tramonto, con le candele in mano nel largo piazzale antistante all’ateneo per tenersi per mano, ricordando le vittime e interrogandosi sulla banalità del carnefice. Fra chi arriva con le candele in mano c’è chi si interroga su cosa avverrà al ritorno nelle classi e su quali garanzie di sicurezza verrano date agli studenti. Lynne, 24 anni, vorrebbe metal detector, recinzioni e la proibizione assoluta di portare armi non solo in questo ma «in tutti i campus d’America». E’ questa la richiesta che i sopravvissuti del Virginia Tech hanno consegnato al presidente George W.Bush e alla First Lady durante l’incontro privato avvenuto dopo la cerimonia collettiva in memoria delle vittime. Da queste parti l’Air Force One non era mai atterrato, l’evento ha suscitato sorpresa dentro i pochi negozi rimasti aperti sulla South Main Street, dove non è mancato qualche brontolio: «Bush doveva aspettare una strage per farsi vedere da queste parti?».
"Siete ricchi e viziati, vi odio"
Un ragazzo ombroso diventato assassino: il killer del campus ha lasciato una lettera in cui accusa
gli universitari
MAURIZIO MOLINARI
INVIATO A BLACKSBURG
Colpa vostra, siete stati voi a spingermi a farlo». Il killer del Virginia Tech è il sudcoreano Cho Seung-hui, 23 anni, e ha consegnato a una lettera lunga diverse pagine i motivi che lo hanno portato a uccidere 32 persone prima di suicidarsi. «Siete dei ragazzi ricchi», «passate il tempo a mettere in atto inutili inganni» ha scritto in una confessione redatta fra le due stragi commesse, confermando di essere lo «studente solitario», «ombroso» e «silenzioso» descritto da Larry Hinker, portavoce della scuola. Uno studente suo ex compagno di lezioni di inglese ha raccontato che quando all’inizio del corso il professore chiese a tutti di presentarsi lui fu l’unico a non rispondere, restando con le labbra chiuse. Per altri si mostrava spesso «violento e erratico».
Immigrato dalla Sud Corea nel 1992, cresciuto in un sobborgo di Washington e arrivato al Virginia Tech per studiare «disegno creativo» Cho non aveva mai legato, si era autorecluso e, secondo fonti della polizia, era diventato dipendente da farmaci. E’ questo l’identikit dello studente che armato di due pistole - una 9 mm e una «piccola» calibro 22 - ha organizzato la strage con cura riuscendo a non sollevare sospetti e anche a beffarsi della sicurezza del campus nel giorno della strage, colpendo due volte in luoghi diversi, a distanza di circa due ore. Ma Cho non aveva tenuto del tutto nascoste le sue intenzioni. In un paio di testi teatrali, fatti leggere ai compagni, aveva inscenato il massacro, con tanto di dettagli, secondo la testimonianza dello studente Ian McFarland: «Erano qualcosa uscito da un incubo, con una violenza macabra, malata, e l’uso di armi a cui io non avrei mai neppure pensato».
Ciò che resta delle sue vittime sono cellulari, zainetti, piccoli portamonete colorati, cappellini con le insegne del Virginia Tech, orologi, spillette, braccialetti e molti anelli che sono stati posizionati con cura sul pavimento della grande aula al secondo piano del West Ambler Johnston Building. Alcuni sono chiazzati di sangue. Una lunga coda silenziosa di studenti sfila sulle scale fino alla porta semichiusa dalla quale è possible sbirciare verso il pavimento. Prevale il silenzio, alcune ragazze indiane non riescono a frenare il pianto, molti indossano al polso i braccialetti di stoffa arancione confezionati a mano nella notte da Maggie e Rachel, due compagne di classe di alcune delle vittime, che hanno rinunciato a dormire per creare in tempo record un oggetto capace di unire i quasi 26 mila studenti del Virginia Tech.
Alla finestra di uno dei dormitori in pietra chiara è affisso un grande striscione bianco con la scritta «04-16-07 Vt United» per indicare la solidarietà fra gli alunni del Politecnico cementata dalla data della strage. Gran parte dei 2600 ettari del campus sono stati dichiarati «scena criminale» da polizia statale, squadre della scientifica e agenti dell’Fbi. I nastri gialli recintano un ateneo assediato da satelliti televisivi e giornalisti di fronte ai quali si presentano volontariamente molti studenti e qualche professore per raccontare l’esperienza vissuta. L’unica ad accettare di parlare del killer è Lucinda Roy, insegnante di disegno creativo che aveva Cho fra gli allievi. Non vuole dire cosa disegnava «perché è una questione di privacy della classe» ma si lascia sfuggire che «esprimeva un aspetto molto turbolento del carattere».
Gli studenti, che si definiscono «sopravvissuti», si sfogano parlando delle vittime e dei loro sogni oramai spenti: c’era chi aspirava a progettare il tunnel sotto gli Oceani, chi si era appena innamorato e chi era venuto in quest’angolo della Montgomery County seguendo la passione della matematica. Fra i reduci vi sono anche degli italiani, come Massimiliano Naso, uno studente romano di ingegneria ambientale che ha lasciato l’aula poco prima della strage. «Li ha messi in fila dentro la mia classe, sparandogli in faccia, uno dopo l’altro - racconta - il riconoscimento del mio amico Daniel ha preso molto tempo perché gli aveva sparato in faccia». La rabbia dei sopravvissuti si indirizza verso il preside dell’Università, Charles Steger, ed il capo della polizia, Wendel Flunchman, accusati di aver reagito tardi e male all’emergenza-killer, commettendo errori tanto gravi da aver consentito a Cho di compiere indisturbato la strage nella Norris Hall.
Nell’albergo poco distante dal campus i genitori delle vittime ricevono i pasti preparati dall’Esercito della Salvezza - 500 solo nella giornata di ieri - chiedendo a chiunque si avvicina notizie sull’identificazione delle salme, che continua a tardare. La domanda più ricorrente fra loro è «Why?», verte sul perché di un movente che resta incomprensibile nonostante l’odio contro il prossimo contenuto nella lettera del killer. La chiave del mistero potrebbe essere la relazione sentimentale oramai finita con una ragazza che tutti cercano ma sembra svanita nel nulla, a cominciare dal suo stesso nome. Isolato nella campagna che si estende fra Virginia e Tennessee sullo sfondo delle Blue Ridge Mountains, il Virginia Tech si presenta come una cittadella del dolore che altro non aspetta che ritrovarsi, subito dopo il tramonto, con le candele in mano nel largo piazzale antistante all’ateneo per tenersi per mano, ricordando le vittime e interrogandosi sulla banalità del carnefice. Fra chi arriva con le candele in mano c’è chi si interroga su cosa avverrà al ritorno nelle classi e su quali garanzie di sicurezza verrano date agli studenti. Lynne, 24 anni, vorrebbe metal detector, recinzioni e la proibizione assoluta di portare armi non solo in questo ma «in tutti i campus d’America». E’ questa la richiesta che i sopravvissuti del Virginia Tech hanno consegnato al presidente George W.Bush e alla First Lady durante l’incontro privato avvenuto dopo la cerimonia collettiva in memoria delle vittime. Da queste parti l’Air Force One non era mai atterrato, l’evento ha suscitato sorpresa dentro i pochi negozi rimasti aperti sulla South Main Street, dove non è mancato qualche brontolio: «Bush doveva aspettare una strage per farsi vedere da queste parti?».
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