...le due razze italiane e il colore della loro pelle.....
è un articolo che ho trovato interessante, un po' lungo ma vale la pena leggerlo:
SPECIALE / CULTURA / In America senza la lingua
di Francesca Bellù
Perché su quasi sedici milioni di italo-americani residenti negli Stati Uniti solo il 2% parla italiano? Come mai la maggioranza degli italiani e dei loro discendenti emigrati in Australia, in Canada e in Gran Bretagna ha invece conservato meglio e più a lungo la lingua etnica?
Studiando le caratteristiche del contesto storico, economico, sociale, culturale e politico dei parlanti della lingua italiana negli Stati Uniti all’epoca della grande migrazione di massa è possibile fornire una chiave di interpretazione dell’avanzato stato del processo di perdita linguistica in atto tra gli emigrati italiani e i loro discendenti. L’analisi di tale contesto permette, infatti, di riscontrare una situazione particolarmente sfavorevole al mantenimento della lingua etnica da parte degli emigrati. Se si confrontano i differenti contesti dell’emigrazione italiana nei paesi di lingua inglese, è possibile individuare due peculiari fattori, che, negli Stati Uniti, sembrano aver contribuito in modo significativo ad accelerare l’abbandono della lingua etnica da parte degli emigrati: la discriminazione razziale e la forte pressione assimilante imposta dalla società statunitense.
Dei fenomeni discriminatori subiti dagli emigrati negli Stati Uniti poco si è scritto e ancor meno si è discusso, in Italia. Anche negli USA, forse per il generale sentimento di benevolenza di cui sono attualmente oggetto gli italiani e il diffuso apprezzamento per le loro tradizioni (specie quelle culinarie), si dimentica spesso che, almeno per tutta la prima metà del ventesimo secolo, gli italiani hanno subito una severa ed estensiva discriminazione razziale. Per comprendere l’impatto che la discriminazione può aver avuto sul comportamento linguistico degli emigrati è dunque importante illustrare il fenomeno in modo approfondito, portando alla luce alcuni degli aspetti più dolenti, e forse per questo maggiormente taciuti, della storia degli italiani emigrati nel ''Nuovo Mondo''.
Non molti sanno che il processo di ‘razializzazione’ cui sono stati sottoposti gli italiani – soprattutto i meridionali – negli Stati Uniti, ha avuto in realtà inizio in Italia, prima dell’emigrazione. Verso la fine dell’Ottocento, i primi scritti degli antropologi positivisti avevano infatti diffuso la convinzione, fondata su ‘prove scientifiche’, che l’arretratezza socio-economica del Meridione fosse radicata nell’irrimediabile inferiorità razziale dei suoi abitanti. Sulla base dell’analisi dei crani umani, gli antropologi Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo cercarono di dimostrare di avere scoperto prove dell’esistenza di una razza ''mediterranea'' di origine africana, preponderante nel Sud del paese, e di una razza ''germanica'' o ''celtica'' dominante al nord. Secondo Sergi e Niceforo le due ''varietà'' di popolazioni, oltre che per le differenze nella costituzione fisica, si distinguevano anche per alcuni tratti psicologici ''congeniti''. Mentre i ''germanici'' mostravano ''una naturale disposizione all’ordine e all’organizzazione, e uno spiccato senso di coscienza sociale'', i ''mediterranei'' manifestavano invece ''una tendenza selvaggia nell’individualità che portava a delitti di sangue e all’associazione a delinquere''. In pratica, Sergi e Niceforo attribuivano tale presunta diversità di comportamento tra le due popolazioni alla loro natura antropologica, cioè alla loro razza, come fatto essenziale, e ad essa attribuivano l’''antagonismo'' delle condizioni sociali ed economiche tra il nord e il sud del paese. Queste credenze, che godevano all’epoca di ampia considerazione in ambito scientifico, vennero rapidamente diffuse anche da una larga parte della produzione culturale di massa italiana, e rapidamente, l’Italia meridionale divenne metafora di anarchia, ignoranza e barbarie ben al di là del mondo accademico. Proprio a quell’epoca, all’acme dell’assalto popolare e scientifico contro gli italiani del sud, centinaia di migliaia dei tanto denigrati meridionali sbarcavano sulle coste americane.
Gli Stati Uniti in cui arrivarono gli emigranti erano una nazione profondamente fratturata da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza. Le ideologie razziali sui meridionali vennero dunque prontamente assorbite dagli americani, soprattutto dai bianchi di origine anglosassone. Allarmati dall’eccezionale flusso migratorio proveniente dall’Italia, le istituzioni e i cittadini americani fecero ampio uso delle credenze sulla razza diffuse dai positivisti italiani. Nel 1911, la Commissione Dillingham sull’Immigrazione pubblicò un rapporto in quarantadue volumi che alcuni anni più tardi divenne il fulcro delle nuove leggi sull’immigrazione negli Stati Uniti. Il rapporto sostanziava una categorizzazione già introdotta 1899 dal United States Bureau of Immigration, che classificava tutti gli immigranti come appartenenti a quarantacinque razze diverse, incluse le due razze degli Italiani del Nord e del Sud. Citando direttamente gli scritti di Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, la Commissione asseriva che ''gli italiani del Nord e del Sud differivano materialmente gli uni dagli altri nella lingua, nella costituzione fisica e nel carattere'' e che mentre i settentrionali erano ''freddi, riflessivi, pazienti e in grado di ottenere grandi progressi nelle organizzazioni sociali e politiche delle moderne civiltà'', i meridionali erano ''eccitabili, impulsivi, privi di senso pratico e scarsamente adattabili alle società altamente organizzate''. Il Dizionario delle Razze o dei Popoli, allegato al rapporto, aveva inoltre sollevato la congettura che gli immigranti provenienti dall’Europa potessero introdurre invisibili gocce di sangue africano nella nazione americana. Gli italiani del Sud erano particolarmente sospetti, giacché, stando alle osservazioni di Sergi e Niceforo riportate dalla Commissione, potevano discendere da una stirpe ''negroide''. In un paese già ossessionato dal colore della pelle, la pubblica ruminazione di studiosi circa la possibilità che i ''mediterranei'' fossero portatori di sangue nero, provocò intensi ed allarmati dibattiti. La Commissione per l’Immigrazione mise apertamente in questione l’appartenenza degli italiani del Sud alla razza ''caucasica'' (la razza bianca) e i meridionali scontarono pesantemente le ripercussioni del dibattito circa il loro status di ''less than white'' (bianchi ''non puri''); subirono infatti quel tipo di discriminazione generalmente ‘riservato’ agli africani-americani, come il linciaggio, la ghettizzazione, l’esclusione da determinate scuole, teatri e ristoranti, la pubblica avversione e derisione.
Che agli italiani non fosse automaticamente garantito lo status di bianchi viene mostrato in modo esemplare nel caso giuridico di ''Jim Rollins contro lo Stato dell’Alabama'' riportato da Matthew Jacobson nel libro Whiteness of a Different Color (1998).Nel 1922, una Corte d’Appello del Circuito dell’Alabama capovolse la sentenza di colpevolezza inflitta a Jim Rollins, un africano-americano reo del crimine di ‘commistione tra razze’ (miscegenation) sulla base del fatto che lo Stato non aveva prodotto elementi sufficienti a dimostrare che la donna in questione, Edith Labue, fosse bianca. Edith Labue era un’immigrata siciliana, un fatto che, secondo la Corte, ''non poteva dimostrare in modo conclusivo che fosse bianca, o escludere che fosse nera, o di origine negroide''. Sebbene è importante segnalare che la Corte non stabilì che un siciliano fosse a priori un non-bianco, essa decretò che non era parimenti possibile definire in modo conclusivo che un siciliano fosse necessariamente bianco. Se dunque la Corte lasciò l’aula ventilando l’ipotesi che Edith Labue potesse essere bianca, stabilì anche chiaramente che non era quel tipo di donna bianca la cui ‘purezza’ doveva essere protetta tramite quel baluardo della supremazia bianca, lo statuto che proibiva la commistione delle due razze.
Anche il vocabolario razziale americano rifletteva le condizioni di materiali e le relazioni di potere che si stabilivano su base quotidiana nei posti di lavoro e nelle comunità. Le espressioni discriminatorie non erano solamente il mezzo attraverso il quale i ‘nativi’ bianchi marchiavano i nuovi immigrati come inferiori, ma anche il mezzo attraverso il quale gli emigrati imparavano a collocare se stessi e quelli simili a loro nella gerarchia razziale della nazione. Gli italiani venivano chiamati ''guinea'', un termine che venne lungamente usato dai bianchi per riferirsi agli africani e ai loro discendenti, o ''dago'', una variante di ''white nigger''. Questi termini suggerivano una connessione tra gli africani e gli italiani, in modo che quest’ultimi potessero posizionarsi correttamente nella scala gerarchica delle razze degli Stati Uniti.
A sottolineare lo status anomalo degli italiani tra i bianchi e i neri, provvedeva la stessa documentazione necessaria ad acquisire la cittadinanza americana. Coloro che presentavano istanza di naturalizzazione dovevano sottoscrivere una descrizione delle proprie caratteristiche fisiche che veniva redatta dagli addetti dell’ufficio di immigrazione. Se per entrambe le ‘razze’ degli italiani del Nord e del Sud l’appartenenza alla varietà ''caucasica'' veniva stabilita in modo automatico, una specificazione differente veniva riservata al colore della pelle (significativamente, anch’esso richiesto nella descrizione).
I meridionali erano costretti a certificare che il colore della loro pelle era scuro (complexion ‘dark’). In questo modo, paradossalmente, sottoscrivevano di divenire cittadini statunitensi bianchi, ma dalla pelle scura.
Gli italiani non solo non apparivano bianchi a certi arbitri sociali, ma soprattutto negli stati del Sud, non agivano secondo quelli che si consideravano i costumi e i modi di vita dei bianchi. In particolare, accettavano tipi di lavoro che comunemente erano svolti dai neri, come il lavoro nelle piantagioni e nelle fattorie. Luigi Villari, un rappresentante del governo italiano inviato in Louisiana per investigare la situazione dei mezzadri siciliani, osservò con stupore che ''la maggioranza dei proprietari delle piantagioni non riusciva a persuadersi che ... gli italiani fossero bianchi'' ritenendo invece che fossero ''dei neri dalla pelle bianca che lavoravano meglio di quelli dalla pelle scura''. Tramite il tipo di lavoro che svolgevano dunque, gli italiani assumevano uno status simile a quello degli africani-americani; nel Sud, infatti, i bianchi lasciavano che i lavori manuali, specie quelli nelle piantagioni, venissero svolti dai neri. Vedendo che gli italiani accettavano quel tipo di occupazioni, gli americani li equiparavano automaticamente ai neri. Per il modo di pensare sudista, come osservato sarcasticamente da Jacobson, tra l’''essere neri'' e l’''essere miserabili quanto i neri'' la differenza era minima.
Anche nei giornali, che nella maggior parte dei casi si occupavano degli italiani solo quando erano implicati in fatti di cronaca nera, gli italiani venivano descritti come orde di sporchi, rozzi, ignoranti e inguaribili criminali. Secondo il The Illustrated American del 7-4-1894 le ''pesti importate dall’Europa'' come venivano definiti i meridionali, manifestavano frequentemente il ''loro atteggiamento tendenzialmente delinquente, il loro spirito di clan, e la loro insubordinazione alle leggi del potere costituito''. Sul New York Times del 1 Gennaio 1884 un articolo dal titolo Brigands at Home in the Italian Quarter testimoniava tale diffuso atteggiamento: ''L’episodio di brigantaggio italiano sulla Seconda strada pare aver scosso i timidi. Perché mai non dovrebbero esserci briganti italiani? Abbiamo circa trentamila italiani a New York, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l’industria nazionale. Non fa meraviglia che questi briganti portino con sé una dedizione per la loro attività originaria. All’epoca dei Borboni il brigantaggio veniva considerato una carriera gloriosa, ed era collocato tanto in alto nella stima popolare quanto lo erano da noi i saccheggiatori dei treni [ ...] La città di New York offre eccellenti possibilità al brigantaggio di vero stampo italiano. Una banda di briganti si troverebbe più a suo agio tra i nidi di cornacchie a Mulberry Street che non nella foresta calabrese, e sarebbe anche molto più al sicuro. I briganti, inseguiti dalla polizia, potrebbero passare di tetto in tetto, stare in agguato dietro i comignoli, difendere strette botole di fronte ad una forza molto superiore, ed infine prendere il largo con più facilità di quanto non potrebbe fare una banda circondata da un reggimento in una foresta italiana [...]''.
I supposti fondamenti scientifici della discriminazione razziale negli Stati Uniti si dissolsero lentamente nella seconda parte del secolo, e sebbene le convinzioni popolari circa la diversità razziale perdurino fino ai nostri giorni, la razza cessò di essere considerata come una categoria scientifica solo intorno agli anni ’50.
La severa discriminazione razziale subita dagli italiani può essere considerata come un fattore che ha contribuito ad accelerare l’abbandono della lingua etnica negli Stati Uniti perché l’identificazione con il ''nuovo mondo'', la sua lingua e la sua cultura, costituiva, per gli italiani emigrati all’epoca di massima intensità dei fenomeni discriminatori, l’unico strumento di emancipazione dallo stato di inferiorità in cui li aveva collocati la società americana. Gli italiani erano infatti pienamente consapevoli che, tra i diversi individui della loro origine, quelli che venivano considerati come più simili agli americani erano avvantaggiati sugli altri nel conseguimento delle posizioni lavorative più desiderabili e quindi, delle maggiori gratificazioni economiche. La lingua, evidente marchio etnico per gli italiani, era uno dei tratti che potevano (e dovevano) essere eliminati con maggiore rapidità nella seconda generazione. L’atteggiamento degli emigrati nei confronti della propria lingua non è tuttavia stato modellato da particolari sentimenti di rifiuto della propria identità, o di slealtà nei confronti del proprio paese, ma dalla necessità di migliorare le proprie condizioni economiche e sociali – un’esigenza che, va ricordato – costituiva la ragione fondamentale dell’emigrazione. Il rapido abbandono del dialetto per l’inglese, sembra pertanto configurarsi come il risultato di una scelta obbligata da parte degli italiani: essa offriva contemporaneamente il beneficio di migliorare le loro condizioni economiche e di cancellare uno degli indicatori più espliciti della loro stigmatizzata identità.
L’altro fattore che sembra aver maggiormente contribuito al rapido abbandono dell’italiano da parte degli emigrati è la pressione assimilante e uniformante imposta su di essi dalle istituzioni e dalla società statunitense. Il supporto che la lingua originaria di un gruppo emigrato ottiene nel contesto di un’altra lingua, è un importante fattore da considerare in relazione agli esiti del loro contatto. L’attuazione di politiche che preservino la cultura etnica può infatti favorire tassi più alti di mantenimento linguistico, mentre politiche di tipo assimilante promuovono più frequentemente la perdita linguistica. Quest’ultime sono senza dubbio le politiche che le istituzioni statunitensi hanno esercitato nei confronti delle lingue e delle culture degli emigrati per la maggior parte del ventesimo secolo. Il sistema scolastico è stato individuato come uno dei più potenti agenti dell’anglicizzazione e del monoculturalismo tra i gruppi immigrati.
Negli anni compresi tra la fine del diciannovesimo e la prima decade del ventesimo secolo, i programmi scolastici e gli educatori assegnati alle scuole pubbliche statunitensi maggiormente frequentate dagli immigrati, non forniscono elementi che indichino che i dirigenti scolastici giudicassero le esigenze culturali dei nuovi venuti, o dei loro figli, diverse da quelle degli altri studenti. Al contrario, l’eredità culturale degli immigrati veniva considerata, nel migliore dei casi, come un fardello quotidiano da parte degli educatori, che si adoperavano energicamente per sopprimerla il prima possibile. La scuola veniva concepita come il mezzo principale tramite il quale insegnare ai figli degli immigrati le ''virtù americane'' e gli standard americani in fatto di maniere, igiene e dieta. Ogni bambino veniva educato a pensare in una sola lingua, e ad apprendere gli stili di vita e i valori morali americani. Secondo le istituzioni americane tale processo di ''americanizzazione'' doveva considerarsi come un fatto del tutto desiderabile da parte degli immigrati, poiché era nel loro interesse assimilare quanto più e meglio possibile, la lingua, la cultura e i principi del loro nuovo paese.
Con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, la classe media americana si trovò tuttavia ad affrontare una dimensione del problema immigrati che in precedenza non aveva destato grandi preoccupazioni. Uno degli effetti shock della guerra fu di portare alla luce l’esistenza di sentimenti nazionalistici diversi tra la grande popolazione ‘straniera’ degli Stati Uniti. Se infatti i ‘veri’ americani erano già da lungo tempo consapevoli della minaccia rappresentata dagli immigrati, essa era sempre stata contemplata in termini razziali, religiosi e sociali, ma non in termini politici. Gli stessi Reports della Commissione per l’Immigrazione del 1911, che consideravano i nuovi immigrati come un pericolo per la purezza razziale dello ''stock'' americano, non avevano espresso alcun particolare timore a proposito di una loro significativa resistenza al processo di americanizzazione.
Il fatto che la nuova percezione degli immigrati come ‘alieni’ anche dal punto di vista della lealtà nazionale fosse emersa soprattutto nel contesto della guerra in Europa, spiega molto del movimento che si sviluppò in seguito. La guerra conferì all’americanizzazione un carattere febbrile. La diversità divenne sinonimo di slealtà e l’americanizzazione divenne una parte integrante della cultura politica di quegli anni. Dal 1916 la diversità culturale iniziò a configurarsi come una crisi nazionale. Theodore Roosevelt fece dell’''americanismo al cento per cento'' un tema centrale della sua campagna per la nomina a candidato del partito progressista alle elezioni presidenziali di quell’anno. Roosevelt annunciò che non avrebbe accettato il supporto di nessuno, a meno che quella persona non fosse ''preparata a sostenere che ogni cittadino di questo paese debba essere pro-Stati Uniti all’inizio, alla fine, e durante tutto il tempo, e non pro-qualunque altra cosa''. Sul fronte democratico Woodrow Wilson assunse toni altrettanto duri. Individuò nell’''indivisibilità e nella forza compatta della nazione'' la ''questione suprema'' della sua campagna, denunciò presunte ''cospirazioni'' disegnate per ''sostenere gli interessi stranieri'' e condannò le associazioni etniche come ''sovversive'' dichiarando che il loro obiettivo era l’''avanzamento degli interessi di un potere straniero''.
è un articolo che ho trovato interessante, un po' lungo ma vale la pena leggerlo:
SPECIALE / CULTURA / In America senza la lingua
di Francesca Bellù
Perché su quasi sedici milioni di italo-americani residenti negli Stati Uniti solo il 2% parla italiano? Come mai la maggioranza degli italiani e dei loro discendenti emigrati in Australia, in Canada e in Gran Bretagna ha invece conservato meglio e più a lungo la lingua etnica?
Studiando le caratteristiche del contesto storico, economico, sociale, culturale e politico dei parlanti della lingua italiana negli Stati Uniti all’epoca della grande migrazione di massa è possibile fornire una chiave di interpretazione dell’avanzato stato del processo di perdita linguistica in atto tra gli emigrati italiani e i loro discendenti. L’analisi di tale contesto permette, infatti, di riscontrare una situazione particolarmente sfavorevole al mantenimento della lingua etnica da parte degli emigrati. Se si confrontano i differenti contesti dell’emigrazione italiana nei paesi di lingua inglese, è possibile individuare due peculiari fattori, che, negli Stati Uniti, sembrano aver contribuito in modo significativo ad accelerare l’abbandono della lingua etnica da parte degli emigrati: la discriminazione razziale e la forte pressione assimilante imposta dalla società statunitense.
Dei fenomeni discriminatori subiti dagli emigrati negli Stati Uniti poco si è scritto e ancor meno si è discusso, in Italia. Anche negli USA, forse per il generale sentimento di benevolenza di cui sono attualmente oggetto gli italiani e il diffuso apprezzamento per le loro tradizioni (specie quelle culinarie), si dimentica spesso che, almeno per tutta la prima metà del ventesimo secolo, gli italiani hanno subito una severa ed estensiva discriminazione razziale. Per comprendere l’impatto che la discriminazione può aver avuto sul comportamento linguistico degli emigrati è dunque importante illustrare il fenomeno in modo approfondito, portando alla luce alcuni degli aspetti più dolenti, e forse per questo maggiormente taciuti, della storia degli italiani emigrati nel ''Nuovo Mondo''.
Non molti sanno che il processo di ‘razializzazione’ cui sono stati sottoposti gli italiani – soprattutto i meridionali – negli Stati Uniti, ha avuto in realtà inizio in Italia, prima dell’emigrazione. Verso la fine dell’Ottocento, i primi scritti degli antropologi positivisti avevano infatti diffuso la convinzione, fondata su ‘prove scientifiche’, che l’arretratezza socio-economica del Meridione fosse radicata nell’irrimediabile inferiorità razziale dei suoi abitanti. Sulla base dell’analisi dei crani umani, gli antropologi Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo cercarono di dimostrare di avere scoperto prove dell’esistenza di una razza ''mediterranea'' di origine africana, preponderante nel Sud del paese, e di una razza ''germanica'' o ''celtica'' dominante al nord. Secondo Sergi e Niceforo le due ''varietà'' di popolazioni, oltre che per le differenze nella costituzione fisica, si distinguevano anche per alcuni tratti psicologici ''congeniti''. Mentre i ''germanici'' mostravano ''una naturale disposizione all’ordine e all’organizzazione, e uno spiccato senso di coscienza sociale'', i ''mediterranei'' manifestavano invece ''una tendenza selvaggia nell’individualità che portava a delitti di sangue e all’associazione a delinquere''. In pratica, Sergi e Niceforo attribuivano tale presunta diversità di comportamento tra le due popolazioni alla loro natura antropologica, cioè alla loro razza, come fatto essenziale, e ad essa attribuivano l’''antagonismo'' delle condizioni sociali ed economiche tra il nord e il sud del paese. Queste credenze, che godevano all’epoca di ampia considerazione in ambito scientifico, vennero rapidamente diffuse anche da una larga parte della produzione culturale di massa italiana, e rapidamente, l’Italia meridionale divenne metafora di anarchia, ignoranza e barbarie ben al di là del mondo accademico. Proprio a quell’epoca, all’acme dell’assalto popolare e scientifico contro gli italiani del sud, centinaia di migliaia dei tanto denigrati meridionali sbarcavano sulle coste americane.
Gli Stati Uniti in cui arrivarono gli emigranti erano una nazione profondamente fratturata da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza. Le ideologie razziali sui meridionali vennero dunque prontamente assorbite dagli americani, soprattutto dai bianchi di origine anglosassone. Allarmati dall’eccezionale flusso migratorio proveniente dall’Italia, le istituzioni e i cittadini americani fecero ampio uso delle credenze sulla razza diffuse dai positivisti italiani. Nel 1911, la Commissione Dillingham sull’Immigrazione pubblicò un rapporto in quarantadue volumi che alcuni anni più tardi divenne il fulcro delle nuove leggi sull’immigrazione negli Stati Uniti. Il rapporto sostanziava una categorizzazione già introdotta 1899 dal United States Bureau of Immigration, che classificava tutti gli immigranti come appartenenti a quarantacinque razze diverse, incluse le due razze degli Italiani del Nord e del Sud. Citando direttamente gli scritti di Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, la Commissione asseriva che ''gli italiani del Nord e del Sud differivano materialmente gli uni dagli altri nella lingua, nella costituzione fisica e nel carattere'' e che mentre i settentrionali erano ''freddi, riflessivi, pazienti e in grado di ottenere grandi progressi nelle organizzazioni sociali e politiche delle moderne civiltà'', i meridionali erano ''eccitabili, impulsivi, privi di senso pratico e scarsamente adattabili alle società altamente organizzate''. Il Dizionario delle Razze o dei Popoli, allegato al rapporto, aveva inoltre sollevato la congettura che gli immigranti provenienti dall’Europa potessero introdurre invisibili gocce di sangue africano nella nazione americana. Gli italiani del Sud erano particolarmente sospetti, giacché, stando alle osservazioni di Sergi e Niceforo riportate dalla Commissione, potevano discendere da una stirpe ''negroide''. In un paese già ossessionato dal colore della pelle, la pubblica ruminazione di studiosi circa la possibilità che i ''mediterranei'' fossero portatori di sangue nero, provocò intensi ed allarmati dibattiti. La Commissione per l’Immigrazione mise apertamente in questione l’appartenenza degli italiani del Sud alla razza ''caucasica'' (la razza bianca) e i meridionali scontarono pesantemente le ripercussioni del dibattito circa il loro status di ''less than white'' (bianchi ''non puri''); subirono infatti quel tipo di discriminazione generalmente ‘riservato’ agli africani-americani, come il linciaggio, la ghettizzazione, l’esclusione da determinate scuole, teatri e ristoranti, la pubblica avversione e derisione.
Che agli italiani non fosse automaticamente garantito lo status di bianchi viene mostrato in modo esemplare nel caso giuridico di ''Jim Rollins contro lo Stato dell’Alabama'' riportato da Matthew Jacobson nel libro Whiteness of a Different Color (1998).Nel 1922, una Corte d’Appello del Circuito dell’Alabama capovolse la sentenza di colpevolezza inflitta a Jim Rollins, un africano-americano reo del crimine di ‘commistione tra razze’ (miscegenation) sulla base del fatto che lo Stato non aveva prodotto elementi sufficienti a dimostrare che la donna in questione, Edith Labue, fosse bianca. Edith Labue era un’immigrata siciliana, un fatto che, secondo la Corte, ''non poteva dimostrare in modo conclusivo che fosse bianca, o escludere che fosse nera, o di origine negroide''. Sebbene è importante segnalare che la Corte non stabilì che un siciliano fosse a priori un non-bianco, essa decretò che non era parimenti possibile definire in modo conclusivo che un siciliano fosse necessariamente bianco. Se dunque la Corte lasciò l’aula ventilando l’ipotesi che Edith Labue potesse essere bianca, stabilì anche chiaramente che non era quel tipo di donna bianca la cui ‘purezza’ doveva essere protetta tramite quel baluardo della supremazia bianca, lo statuto che proibiva la commistione delle due razze.
Anche il vocabolario razziale americano rifletteva le condizioni di materiali e le relazioni di potere che si stabilivano su base quotidiana nei posti di lavoro e nelle comunità. Le espressioni discriminatorie non erano solamente il mezzo attraverso il quale i ‘nativi’ bianchi marchiavano i nuovi immigrati come inferiori, ma anche il mezzo attraverso il quale gli emigrati imparavano a collocare se stessi e quelli simili a loro nella gerarchia razziale della nazione. Gli italiani venivano chiamati ''guinea'', un termine che venne lungamente usato dai bianchi per riferirsi agli africani e ai loro discendenti, o ''dago'', una variante di ''white nigger''. Questi termini suggerivano una connessione tra gli africani e gli italiani, in modo che quest’ultimi potessero posizionarsi correttamente nella scala gerarchica delle razze degli Stati Uniti.
A sottolineare lo status anomalo degli italiani tra i bianchi e i neri, provvedeva la stessa documentazione necessaria ad acquisire la cittadinanza americana. Coloro che presentavano istanza di naturalizzazione dovevano sottoscrivere una descrizione delle proprie caratteristiche fisiche che veniva redatta dagli addetti dell’ufficio di immigrazione. Se per entrambe le ‘razze’ degli italiani del Nord e del Sud l’appartenenza alla varietà ''caucasica'' veniva stabilita in modo automatico, una specificazione differente veniva riservata al colore della pelle (significativamente, anch’esso richiesto nella descrizione).
I meridionali erano costretti a certificare che il colore della loro pelle era scuro (complexion ‘dark’). In questo modo, paradossalmente, sottoscrivevano di divenire cittadini statunitensi bianchi, ma dalla pelle scura.
Gli italiani non solo non apparivano bianchi a certi arbitri sociali, ma soprattutto negli stati del Sud, non agivano secondo quelli che si consideravano i costumi e i modi di vita dei bianchi. In particolare, accettavano tipi di lavoro che comunemente erano svolti dai neri, come il lavoro nelle piantagioni e nelle fattorie. Luigi Villari, un rappresentante del governo italiano inviato in Louisiana per investigare la situazione dei mezzadri siciliani, osservò con stupore che ''la maggioranza dei proprietari delle piantagioni non riusciva a persuadersi che ... gli italiani fossero bianchi'' ritenendo invece che fossero ''dei neri dalla pelle bianca che lavoravano meglio di quelli dalla pelle scura''. Tramite il tipo di lavoro che svolgevano dunque, gli italiani assumevano uno status simile a quello degli africani-americani; nel Sud, infatti, i bianchi lasciavano che i lavori manuali, specie quelli nelle piantagioni, venissero svolti dai neri. Vedendo che gli italiani accettavano quel tipo di occupazioni, gli americani li equiparavano automaticamente ai neri. Per il modo di pensare sudista, come osservato sarcasticamente da Jacobson, tra l’''essere neri'' e l’''essere miserabili quanto i neri'' la differenza era minima.
Anche nei giornali, che nella maggior parte dei casi si occupavano degli italiani solo quando erano implicati in fatti di cronaca nera, gli italiani venivano descritti come orde di sporchi, rozzi, ignoranti e inguaribili criminali. Secondo il The Illustrated American del 7-4-1894 le ''pesti importate dall’Europa'' come venivano definiti i meridionali, manifestavano frequentemente il ''loro atteggiamento tendenzialmente delinquente, il loro spirito di clan, e la loro insubordinazione alle leggi del potere costituito''. Sul New York Times del 1 Gennaio 1884 un articolo dal titolo Brigands at Home in the Italian Quarter testimoniava tale diffuso atteggiamento: ''L’episodio di brigantaggio italiano sulla Seconda strada pare aver scosso i timidi. Perché mai non dovrebbero esserci briganti italiani? Abbiamo circa trentamila italiani a New York, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l’industria nazionale. Non fa meraviglia che questi briganti portino con sé una dedizione per la loro attività originaria. All’epoca dei Borboni il brigantaggio veniva considerato una carriera gloriosa, ed era collocato tanto in alto nella stima popolare quanto lo erano da noi i saccheggiatori dei treni [ ...] La città di New York offre eccellenti possibilità al brigantaggio di vero stampo italiano. Una banda di briganti si troverebbe più a suo agio tra i nidi di cornacchie a Mulberry Street che non nella foresta calabrese, e sarebbe anche molto più al sicuro. I briganti, inseguiti dalla polizia, potrebbero passare di tetto in tetto, stare in agguato dietro i comignoli, difendere strette botole di fronte ad una forza molto superiore, ed infine prendere il largo con più facilità di quanto non potrebbe fare una banda circondata da un reggimento in una foresta italiana [...]''.
I supposti fondamenti scientifici della discriminazione razziale negli Stati Uniti si dissolsero lentamente nella seconda parte del secolo, e sebbene le convinzioni popolari circa la diversità razziale perdurino fino ai nostri giorni, la razza cessò di essere considerata come una categoria scientifica solo intorno agli anni ’50.
La severa discriminazione razziale subita dagli italiani può essere considerata come un fattore che ha contribuito ad accelerare l’abbandono della lingua etnica negli Stati Uniti perché l’identificazione con il ''nuovo mondo'', la sua lingua e la sua cultura, costituiva, per gli italiani emigrati all’epoca di massima intensità dei fenomeni discriminatori, l’unico strumento di emancipazione dallo stato di inferiorità in cui li aveva collocati la società americana. Gli italiani erano infatti pienamente consapevoli che, tra i diversi individui della loro origine, quelli che venivano considerati come più simili agli americani erano avvantaggiati sugli altri nel conseguimento delle posizioni lavorative più desiderabili e quindi, delle maggiori gratificazioni economiche. La lingua, evidente marchio etnico per gli italiani, era uno dei tratti che potevano (e dovevano) essere eliminati con maggiore rapidità nella seconda generazione. L’atteggiamento degli emigrati nei confronti della propria lingua non è tuttavia stato modellato da particolari sentimenti di rifiuto della propria identità, o di slealtà nei confronti del proprio paese, ma dalla necessità di migliorare le proprie condizioni economiche e sociali – un’esigenza che, va ricordato – costituiva la ragione fondamentale dell’emigrazione. Il rapido abbandono del dialetto per l’inglese, sembra pertanto configurarsi come il risultato di una scelta obbligata da parte degli italiani: essa offriva contemporaneamente il beneficio di migliorare le loro condizioni economiche e di cancellare uno degli indicatori più espliciti della loro stigmatizzata identità.
L’altro fattore che sembra aver maggiormente contribuito al rapido abbandono dell’italiano da parte degli emigrati è la pressione assimilante e uniformante imposta su di essi dalle istituzioni e dalla società statunitense. Il supporto che la lingua originaria di un gruppo emigrato ottiene nel contesto di un’altra lingua, è un importante fattore da considerare in relazione agli esiti del loro contatto. L’attuazione di politiche che preservino la cultura etnica può infatti favorire tassi più alti di mantenimento linguistico, mentre politiche di tipo assimilante promuovono più frequentemente la perdita linguistica. Quest’ultime sono senza dubbio le politiche che le istituzioni statunitensi hanno esercitato nei confronti delle lingue e delle culture degli emigrati per la maggior parte del ventesimo secolo. Il sistema scolastico è stato individuato come uno dei più potenti agenti dell’anglicizzazione e del monoculturalismo tra i gruppi immigrati.
Negli anni compresi tra la fine del diciannovesimo e la prima decade del ventesimo secolo, i programmi scolastici e gli educatori assegnati alle scuole pubbliche statunitensi maggiormente frequentate dagli immigrati, non forniscono elementi che indichino che i dirigenti scolastici giudicassero le esigenze culturali dei nuovi venuti, o dei loro figli, diverse da quelle degli altri studenti. Al contrario, l’eredità culturale degli immigrati veniva considerata, nel migliore dei casi, come un fardello quotidiano da parte degli educatori, che si adoperavano energicamente per sopprimerla il prima possibile. La scuola veniva concepita come il mezzo principale tramite il quale insegnare ai figli degli immigrati le ''virtù americane'' e gli standard americani in fatto di maniere, igiene e dieta. Ogni bambino veniva educato a pensare in una sola lingua, e ad apprendere gli stili di vita e i valori morali americani. Secondo le istituzioni americane tale processo di ''americanizzazione'' doveva considerarsi come un fatto del tutto desiderabile da parte degli immigrati, poiché era nel loro interesse assimilare quanto più e meglio possibile, la lingua, la cultura e i principi del loro nuovo paese.
Con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, la classe media americana si trovò tuttavia ad affrontare una dimensione del problema immigrati che in precedenza non aveva destato grandi preoccupazioni. Uno degli effetti shock della guerra fu di portare alla luce l’esistenza di sentimenti nazionalistici diversi tra la grande popolazione ‘straniera’ degli Stati Uniti. Se infatti i ‘veri’ americani erano già da lungo tempo consapevoli della minaccia rappresentata dagli immigrati, essa era sempre stata contemplata in termini razziali, religiosi e sociali, ma non in termini politici. Gli stessi Reports della Commissione per l’Immigrazione del 1911, che consideravano i nuovi immigrati come un pericolo per la purezza razziale dello ''stock'' americano, non avevano espresso alcun particolare timore a proposito di una loro significativa resistenza al processo di americanizzazione.
Il fatto che la nuova percezione degli immigrati come ‘alieni’ anche dal punto di vista della lealtà nazionale fosse emersa soprattutto nel contesto della guerra in Europa, spiega molto del movimento che si sviluppò in seguito. La guerra conferì all’americanizzazione un carattere febbrile. La diversità divenne sinonimo di slealtà e l’americanizzazione divenne una parte integrante della cultura politica di quegli anni. Dal 1916 la diversità culturale iniziò a configurarsi come una crisi nazionale. Theodore Roosevelt fece dell’''americanismo al cento per cento'' un tema centrale della sua campagna per la nomina a candidato del partito progressista alle elezioni presidenziali di quell’anno. Roosevelt annunciò che non avrebbe accettato il supporto di nessuno, a meno che quella persona non fosse ''preparata a sostenere che ogni cittadino di questo paese debba essere pro-Stati Uniti all’inizio, alla fine, e durante tutto il tempo, e non pro-qualunque altra cosa''. Sul fronte democratico Woodrow Wilson assunse toni altrettanto duri. Individuò nell’''indivisibilità e nella forza compatta della nazione'' la ''questione suprema'' della sua campagna, denunciò presunte ''cospirazioni'' disegnate per ''sostenere gli interessi stranieri'' e condannò le associazioni etniche come ''sovversive'' dichiarando che il loro obiettivo era l’''avanzamento degli interessi di un potere straniero''.
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