PREMESSA (personale)
Apro questa discussione con l'intento di 1) offrire qualche spunto per una riflessione in merito a ciò, attraverso l'aiuto di un manuale di psicobiologia (troverete le informazioni sul testo in fondo); 2) approfondire questi due concetti integrando e/o correggendo le informazioni da me riportate.
E' evidente che oggi, nell'ambiente della nutrizione sportiva e specialmente in quello del bodybuilding, protocolli dietetici che prevedono dei periodi più o meno lunghi (e più o meno restrittivi) di digiuno non sono più tabù, anzi paiono andare "di moda". Probabilmente il motivo principale che farebbe desistere il comune mortale intenzionato a sperimentare un modello alimentare simile è la paura di non riuscire a sopportare la sensazione di fame per 16/20 ore. Per non parlare poi del comune mortale sovrappeso/obeso o con un passato del genere.
Tuttavia chi, magari solo curioso, si applica riferisce (molto probabilemente dopo un certo periodo di adeguamento) ben altro, cioè l'assenza della sensazione di fame durante il digiuno.
E la domanda scontata è: come mai? Dico scontata non perché lo sia veramente, non lo è affatto, ma perché lo diventa solo e soltanto nel caso in cui vengano poste alla base della necessità di assumere cibo delle motivazioni di tipo "compensativo".
Per capirci: ce lo chiediamo solo se e perché crediamo che mangiare in un dato momento sia necessario per sopperire ad una carenza energetica che si verifica in quel dato momento. In base alle nozioni riportate cercheremo di capire se e fino a che punto questa lettura sia corretta.
TEORIE
Intorno alla metà del secolo scorso venne proposta una teoria glucostatica, secondo cui la caduta dei livelli di glucosio al di sotto di una certa soglia provocherebbe la sensazione di fame. Alla base c'è l'idea che l'alimentarsi sia in funzione del mantenimento delle risorse energetiche entro un range ottimale. Dunque, un valore di riferimento fisso (non a caso parliamo di gluco-statica), anche se variabile per ognuno di noi, spiegherebbe tutto.
"R.H. era un uomo di 48 anni i cui progressi al liceo furono interrotti dall'insorgere graduale di una grave amnesia dei ricordi espliciti a lungo termine […].
Una volta gli fu offerto un altro pasto un quarto d'ora dopo aver consumato il primo e lui lo mangiò. Quando, dopo un altro quarto d'ora, gli fu offerto un altro pasto, lo mangiò di nuovo. All'offerta di un quarto pasto, rifiutò, dicendo che "aveva lo stomaco un po' in disordine".
Poi, dopo qualche minuto, R.H. disse che sarebbe uscito a fare una passeggiata e poi sarebbe andato a pranzo […].
Evidentemente la fame di R.H. (cioè la motivazione a mangiare) non era dovuta a un'insufficienza di energia" [Rozin, Dow, Moscovitch, Rajaram 1998]
Se la fame fosse veramente regolata da un valore di riferimento dell'energia, le cose sarebbero andate in maniera diversa.
In breve, la teoria presenta almeno 3 punti di criticità.
1) E' incompatibile con l'idea (mutuata dall'evoluzionismo) secondo cui il corpo umano si è evoluto per far fronte a lunghi periodi di sottoalimentazione e contemporaneamente a brevi periodi di sovralimentazione, attraverso lo sviluppo di meccanismi di accumulo delle scorte energetiche.
a) La teoria glucostatica non è in grado di spiegare la fase di sovralimentazione. A meno di non alzare quel valore di riferimento fino al livello di accumulo. Ma molto probabilmente ciò equvarrebbe a una giustificazione dell'obesità.
b) Oppure, prendendola dal lato opposto. "Qualunque individuo che avesse smesso di mangiare non appena soddisfatte le richieste eergetiche del momento non sarebbe sopravvissuto al primo duro invero […]. Per la sopravvivenza […] è necessario un sistema alimentare capace di prevenire i bisogni energetici, e non un sistema che risponda solo alle carenze di energia del momento" [Pinel, Assanand, Lehman 2000].
2) Molte delle sue ipotesi non sono state confermate.
Studi mostrano come per stimolare la fame sia necessario indurre una riduzione del livello di glucosio ematico di entità tale che raramente si osserva in condizioni standard.
Ulteriori tentativi di ridurre l'assunzione calorica del pasto attraverso la somministrazione preventiva di un quntitativo notevole di calorie in forma liquida non hanno dato i risultati attesi: con o senza bevanda, l'introito calorico del pasto era il medesimo [Lowe 1993].
3) Non tiene conto degi effetti di fattori come il gusto, le influenze sociali, l'apprendimento etc. etc.
A questo punto l'autore propone una teoria multifattoriale basata sull'incentivo positivo. "L'uomo e gli altri animali non sono spinti a mangiare da un deficit energetico interno, ma dall'anticipazione degli effetti piacevoli del cibo, cioè dal suo valore incentivante" (p 307). Con questo l'alimentazione sarebbe regolata secondo principii e modalità simili a quelli che vigono nel controllo del comportamento sessuale. "La fame che un individuo sente dipende dunque dall'iterazione di tutti i fattori che influenzano il valore incentivante che ha per lui [il cibo] in quel dato momento." (p. 308)
Abbiamo una teoria glucostatica monofattoriale a cui si "oppone" (passatemi un termine poco corretto) una teoria dell'incentivo positivo multifattoriale, che (e questo è importante) NON esclude il possibile coinvolgimento di un fattore quale il calo energetico nell'insorgere della sensazione di fame, ma semmai lo inserisce in un contesto più ampio.
"Sebbene una carenza importante di energia evidentemente aumenti la fame e il bisogno di mangiare, non è un fattore rilevante nel comportamento almentare." (p. 308)
FATTORI
Cosa mangiare
Il valore incentivante varia in base al gusto. Queste preferenze hanno un significato adattativo.
a) Calorie. Gli animali imparano a preferire sapori associati ad alimenti con un apporto calorico rilevante [Baker, Booth 1989].
b) Micronutrienti. Gli animali imparano a preferire alimenti ricchi di vitamine e/o sali minerali di cui, in un dato momento, sono carenti.
La domanda sorge spontanea: com'è possibile, alla luce di questo, spiegare le carenze dietetiche che riguardano la stragrande maggiornaza della popolazione umana (escludendo ovviamente casi patologici)?
Esaminiamo uno studio condotto su un gruppo di ratti carenti di tiamina (B1).
Inizialmente vennero fornite due diete. Una ne era ricca e una ne era priva. In poche settimane la maggior parte di essi iniziò a nutrirsi della prima.
Successivamente ne vennero fornite dieci, tutte carenti di tiamina ad eccezione di una. I risultati non furono i medesimi della fase precedente: solo pochi scelsero la dieta "corretta". [Harris, Clay, Hargreaves, Ward 1933]
"La grande quantità di sostanze diverse consumate ogni giorno dalla maggior parte delle persone nelle società industriali è tale che è difficile, se non impossibile, imparare quali cibi fanno bene e quali no." (p. 309)
Quando mangiare
Il classico "attacco di fame" prima del pasto. Bene, è stato dimostrato [Woods, Ramsay 2000] che non è interpretabile come una richiesta di energia da parte del corpo, quanto piuttosto come il correlato di una "preparazione" dell'organismo a ricevere del cibo (secrezione di insulina).
In una serie di esperimenti [Weingarten 1983; 1984; 1985] è stato dimostrato come la fame è causata dll'aspettativa di cibo. Ad un gruppo di ratti vennero somministrati 6 pasti al giorni, ad intervalli di tempo irregolari, per un periodo di 11 giorni, preceduti da un segnale insieme luminoso e sonoro (fase di condizionamento). Nella fase successiva gli animali avevano libero accesso al cibo ma iniziavano a mangiare ogni volta che veniva presentato lo stimolo condizionato (luce e suono), anche nel caso in cui avevano appena terminato un pasto.
Quanto mangiare
a) Densità nutritiva.
I segnali di sazietà (meccanismi fisiologici di secrezione di peptidi) dipendono dalla quantità di calorie per unità di volume del cibo ingerito.
Siamo in grado di modificare il volume del pasto consumato in base alla densità nutritiva, e ciò ci consente di mantenere un apporto calorico relativamente costante. Ma queste capacità di adattamento sono piuttosto limitate, dunque spesso insufficienti a farci mantenere il peso corporeo costante.
b) Falsa alimentazione e sazietà senso specifica.
In una serie di esperimenti, ad un gruppo di ratti [Weingarten, Kulikovsky 1989] veniva reciso il collegamento della parte terminale dell'esofago con lo stomaco. Così il cibo, una volta deglutito, veniva espulso subito all'esterno senza essere metabolizzato. Vennero poi somministrati due tipi di cibo, uno già conosciuto e uno sconosciuto. Nel primo caso l'assunzione quantitativa era inizialmente nella norma, per poi aumentare sempre di più. Nel secondo caso l'assunzione era maggiore fin da subito.
Una ricerca condotta, con metodi ovviamente differenti, su uomini ha portato agli stessi risultati. Veniva chiesto ad un gruppo di valutare l'appetibilità di otto cibi diversi e successivamente somministrato uno di questi. Interrogati dopo il pasto la valutazione dell'appetibilità del cibo appena mangiato si ridusse drasticamente, molto più di quella degli altri sette [Rolls 1981].
Questi studi mettono in evidenza come "la sazietà è in larga misura specifica per un certo gusto. Man mano che si mangia il valore incentivante del cibo si riduce, specialmente l'appetibilità del particolare cibo che stiamo assumendo". (p. 313)
Pertanto l'assunzione di cibo dipende in larga misura dall'esperienza pregressa (un cibo nuovo ha un valore incentivante maggiore) e minimamente dalle effettive necessità energetiche, come vorrebbe la teoria glucostatica.
PROVVISORIAMENTE (molto personale)
E quindi? E quindi niente... Ci sarebbe da integrare parlando dei meccanismi fisiologici (insulina, grelina, serotonina etc etc...), cosa che l'autore ovviamente fa. Però mi interessa(va) concentrare l'attenzione sulla poesia della naturalità.
E' da un po' che spuntano fuori come funghi modelli dietetici volti ad una pacificazione tra noi con la nostra fame e il cibo. Che si fa? Niente di così sconvolgente: mangia quanto hai fame, mangia quello che ti senti, impara a conoscere te stesso e i tuoi bisogni (alimentari)! La natura, ascoltala e ti guiderà a raggiungere un equilibrio! Sì, bene. Bello e (im)possibile (?), a quanto pare.
Ci sarebbero da fare delle ulteriori considerazioni: questi soggetti in genere mangiano una volta a settimana e se iniziano a rotolare colpevolizzano se stessi perché non hanno ancora chiaro come ascoltarsi... Poi c'è chi addirittura (genio assoluto) si convince di riuscire a mangiare liberamente senza patemi e conflitti interiori, semplicemente stilando una preventiva lista di alimenti che da un dato giorno in poi saranno gli unici previsti nel suo piano alimentare (si mangia sempre una volta a settimana, sia chiaro). In genere la lista si ferma a 2, 3 cibi. I più quotati sono, 1) insalata, 2) petto di pollo... Quelli più temerari aggiungono 3) mela, ma sono pochi.
Bene, a me questi modelli non hanno mai convinto più di tanto. Ora mi convincono ancora meno. Quello che non ho mai compreso fino in fondo è come possono pretendere di affidare a se stessi qualcosa che fondamentalmente non possono controllare come vorrebbero. Ecco, questo è il punto centrale su cui vorrei si riflettesse, alla luce di quanto sopra. Perché un collegamento c'è, ed è molto chiaro.
Approfondimenti, critiche... Di tutto e di più (spero)!
Testo di riferimento
J.P.J. Pinel, Psicobiologia, il Mulino, Bologna, 2007
Studi
B.J. Baker, D.A. Booth, Preference conditioning by concurrent diets with delayed prportional reinforcement, in Physiology and Behavior, 46 1989, pp. 585-590
L.J. Harris, J. Clay, F.J. Hargreaves, A. Ward, Appetite and choice of diet: The ability of the vitamin B deficient rat to discriminate between diets containing and lacking the vitamin, in Proceedings of the Royal Society of London, 113B, 1933, pp. 161-190
M.R. Lowe, The effects of dieting on eating behavior: A three factor model, in Psychological Bulletin, 114, 1993, pp. 100-121
J.P.J. Pinel, S. Assanand, D.R. Lehman, Hunger eating, and hill health, in American Psychologist, 55, 2000, pp. 1105-1116
E.T. Rolls, Central nervous mechanisms related to feeding and appetite, in British Medical Bulletin, 37, 1981, pp. 131-134
P. Rozin, S. Dow, M. Moscovitch, S. Rajaram, What causes humans to being and end a meal? A role for memory for what has been eaten, as evidence by a study of multiple meal eating in amnesic patient, in Psychological Science, 9, 1998, pp. 392-396
H.P. Weingarten,
Conditioned cues elictic feeding in sated ats: A role for learning in meal initiation, in Science, 220, 1983, pp. 431-433
Meal initiation controlled by learned cues: Basic behavioral properties, in Appetite, 5, 1984, pp. 147-158
Stimulus control of eating: Implications for a two-factor theory of hunger, in Appetite, 6, 1985, pp. 387-401
H.P. Weingarten, O.T. Kulikovsky, Taste-to-postingestive consequence conditioning: Is the rise in sham feeding with repeated experience a learning phenomenon?, in Physiology and Behavior, 45, 1989, pp. 471-476
S.C. Woods, D.S. Ramsay, Pavlovian influences over food and drug intake, in Behavioural Brain Research, 110, 2000, pp. 175-182
Apro questa discussione con l'intento di 1) offrire qualche spunto per una riflessione in merito a ciò, attraverso l'aiuto di un manuale di psicobiologia (troverete le informazioni sul testo in fondo); 2) approfondire questi due concetti integrando e/o correggendo le informazioni da me riportate.
E' evidente che oggi, nell'ambiente della nutrizione sportiva e specialmente in quello del bodybuilding, protocolli dietetici che prevedono dei periodi più o meno lunghi (e più o meno restrittivi) di digiuno non sono più tabù, anzi paiono andare "di moda". Probabilmente il motivo principale che farebbe desistere il comune mortale intenzionato a sperimentare un modello alimentare simile è la paura di non riuscire a sopportare la sensazione di fame per 16/20 ore. Per non parlare poi del comune mortale sovrappeso/obeso o con un passato del genere.
Tuttavia chi, magari solo curioso, si applica riferisce (molto probabilemente dopo un certo periodo di adeguamento) ben altro, cioè l'assenza della sensazione di fame durante il digiuno.
E la domanda scontata è: come mai? Dico scontata non perché lo sia veramente, non lo è affatto, ma perché lo diventa solo e soltanto nel caso in cui vengano poste alla base della necessità di assumere cibo delle motivazioni di tipo "compensativo".
Per capirci: ce lo chiediamo solo se e perché crediamo che mangiare in un dato momento sia necessario per sopperire ad una carenza energetica che si verifica in quel dato momento. In base alle nozioni riportate cercheremo di capire se e fino a che punto questa lettura sia corretta.
TEORIE
Intorno alla metà del secolo scorso venne proposta una teoria glucostatica, secondo cui la caduta dei livelli di glucosio al di sotto di una certa soglia provocherebbe la sensazione di fame. Alla base c'è l'idea che l'alimentarsi sia in funzione del mantenimento delle risorse energetiche entro un range ottimale. Dunque, un valore di riferimento fisso (non a caso parliamo di gluco-statica), anche se variabile per ognuno di noi, spiegherebbe tutto.
"R.H. era un uomo di 48 anni i cui progressi al liceo furono interrotti dall'insorgere graduale di una grave amnesia dei ricordi espliciti a lungo termine […].
Una volta gli fu offerto un altro pasto un quarto d'ora dopo aver consumato il primo e lui lo mangiò. Quando, dopo un altro quarto d'ora, gli fu offerto un altro pasto, lo mangiò di nuovo. All'offerta di un quarto pasto, rifiutò, dicendo che "aveva lo stomaco un po' in disordine".
Poi, dopo qualche minuto, R.H. disse che sarebbe uscito a fare una passeggiata e poi sarebbe andato a pranzo […].
Evidentemente la fame di R.H. (cioè la motivazione a mangiare) non era dovuta a un'insufficienza di energia" [Rozin, Dow, Moscovitch, Rajaram 1998]
Se la fame fosse veramente regolata da un valore di riferimento dell'energia, le cose sarebbero andate in maniera diversa.
In breve, la teoria presenta almeno 3 punti di criticità.
1) E' incompatibile con l'idea (mutuata dall'evoluzionismo) secondo cui il corpo umano si è evoluto per far fronte a lunghi periodi di sottoalimentazione e contemporaneamente a brevi periodi di sovralimentazione, attraverso lo sviluppo di meccanismi di accumulo delle scorte energetiche.
a) La teoria glucostatica non è in grado di spiegare la fase di sovralimentazione. A meno di non alzare quel valore di riferimento fino al livello di accumulo. Ma molto probabilmente ciò equvarrebbe a una giustificazione dell'obesità.
b) Oppure, prendendola dal lato opposto. "Qualunque individuo che avesse smesso di mangiare non appena soddisfatte le richieste eergetiche del momento non sarebbe sopravvissuto al primo duro invero […]. Per la sopravvivenza […] è necessario un sistema alimentare capace di prevenire i bisogni energetici, e non un sistema che risponda solo alle carenze di energia del momento" [Pinel, Assanand, Lehman 2000].
2) Molte delle sue ipotesi non sono state confermate.
Studi mostrano come per stimolare la fame sia necessario indurre una riduzione del livello di glucosio ematico di entità tale che raramente si osserva in condizioni standard.
Ulteriori tentativi di ridurre l'assunzione calorica del pasto attraverso la somministrazione preventiva di un quntitativo notevole di calorie in forma liquida non hanno dato i risultati attesi: con o senza bevanda, l'introito calorico del pasto era il medesimo [Lowe 1993].
3) Non tiene conto degi effetti di fattori come il gusto, le influenze sociali, l'apprendimento etc. etc.
A questo punto l'autore propone una teoria multifattoriale basata sull'incentivo positivo. "L'uomo e gli altri animali non sono spinti a mangiare da un deficit energetico interno, ma dall'anticipazione degli effetti piacevoli del cibo, cioè dal suo valore incentivante" (p 307). Con questo l'alimentazione sarebbe regolata secondo principii e modalità simili a quelli che vigono nel controllo del comportamento sessuale. "La fame che un individuo sente dipende dunque dall'iterazione di tutti i fattori che influenzano il valore incentivante che ha per lui [il cibo] in quel dato momento." (p. 308)
Abbiamo una teoria glucostatica monofattoriale a cui si "oppone" (passatemi un termine poco corretto) una teoria dell'incentivo positivo multifattoriale, che (e questo è importante) NON esclude il possibile coinvolgimento di un fattore quale il calo energetico nell'insorgere della sensazione di fame, ma semmai lo inserisce in un contesto più ampio.
"Sebbene una carenza importante di energia evidentemente aumenti la fame e il bisogno di mangiare, non è un fattore rilevante nel comportamento almentare." (p. 308)
FATTORI
Cosa mangiare
Il valore incentivante varia in base al gusto. Queste preferenze hanno un significato adattativo.
a) Calorie. Gli animali imparano a preferire sapori associati ad alimenti con un apporto calorico rilevante [Baker, Booth 1989].
b) Micronutrienti. Gli animali imparano a preferire alimenti ricchi di vitamine e/o sali minerali di cui, in un dato momento, sono carenti.
La domanda sorge spontanea: com'è possibile, alla luce di questo, spiegare le carenze dietetiche che riguardano la stragrande maggiornaza della popolazione umana (escludendo ovviamente casi patologici)?
Esaminiamo uno studio condotto su un gruppo di ratti carenti di tiamina (B1).
Inizialmente vennero fornite due diete. Una ne era ricca e una ne era priva. In poche settimane la maggior parte di essi iniziò a nutrirsi della prima.
Successivamente ne vennero fornite dieci, tutte carenti di tiamina ad eccezione di una. I risultati non furono i medesimi della fase precedente: solo pochi scelsero la dieta "corretta". [Harris, Clay, Hargreaves, Ward 1933]
"La grande quantità di sostanze diverse consumate ogni giorno dalla maggior parte delle persone nelle società industriali è tale che è difficile, se non impossibile, imparare quali cibi fanno bene e quali no." (p. 309)
Quando mangiare
Il classico "attacco di fame" prima del pasto. Bene, è stato dimostrato [Woods, Ramsay 2000] che non è interpretabile come una richiesta di energia da parte del corpo, quanto piuttosto come il correlato di una "preparazione" dell'organismo a ricevere del cibo (secrezione di insulina).
In una serie di esperimenti [Weingarten 1983; 1984; 1985] è stato dimostrato come la fame è causata dll'aspettativa di cibo. Ad un gruppo di ratti vennero somministrati 6 pasti al giorni, ad intervalli di tempo irregolari, per un periodo di 11 giorni, preceduti da un segnale insieme luminoso e sonoro (fase di condizionamento). Nella fase successiva gli animali avevano libero accesso al cibo ma iniziavano a mangiare ogni volta che veniva presentato lo stimolo condizionato (luce e suono), anche nel caso in cui avevano appena terminato un pasto.
Quanto mangiare
a) Densità nutritiva.
I segnali di sazietà (meccanismi fisiologici di secrezione di peptidi) dipendono dalla quantità di calorie per unità di volume del cibo ingerito.
Siamo in grado di modificare il volume del pasto consumato in base alla densità nutritiva, e ciò ci consente di mantenere un apporto calorico relativamente costante. Ma queste capacità di adattamento sono piuttosto limitate, dunque spesso insufficienti a farci mantenere il peso corporeo costante.
b) Falsa alimentazione e sazietà senso specifica.
In una serie di esperimenti, ad un gruppo di ratti [Weingarten, Kulikovsky 1989] veniva reciso il collegamento della parte terminale dell'esofago con lo stomaco. Così il cibo, una volta deglutito, veniva espulso subito all'esterno senza essere metabolizzato. Vennero poi somministrati due tipi di cibo, uno già conosciuto e uno sconosciuto. Nel primo caso l'assunzione quantitativa era inizialmente nella norma, per poi aumentare sempre di più. Nel secondo caso l'assunzione era maggiore fin da subito.
Una ricerca condotta, con metodi ovviamente differenti, su uomini ha portato agli stessi risultati. Veniva chiesto ad un gruppo di valutare l'appetibilità di otto cibi diversi e successivamente somministrato uno di questi. Interrogati dopo il pasto la valutazione dell'appetibilità del cibo appena mangiato si ridusse drasticamente, molto più di quella degli altri sette [Rolls 1981].
Questi studi mettono in evidenza come "la sazietà è in larga misura specifica per un certo gusto. Man mano che si mangia il valore incentivante del cibo si riduce, specialmente l'appetibilità del particolare cibo che stiamo assumendo". (p. 313)
Pertanto l'assunzione di cibo dipende in larga misura dall'esperienza pregressa (un cibo nuovo ha un valore incentivante maggiore) e minimamente dalle effettive necessità energetiche, come vorrebbe la teoria glucostatica.
PROVVISORIAMENTE (molto personale)
E quindi? E quindi niente... Ci sarebbe da integrare parlando dei meccanismi fisiologici (insulina, grelina, serotonina etc etc...), cosa che l'autore ovviamente fa. Però mi interessa(va) concentrare l'attenzione sulla poesia della naturalità.
E' da un po' che spuntano fuori come funghi modelli dietetici volti ad una pacificazione tra noi con la nostra fame e il cibo. Che si fa? Niente di così sconvolgente: mangia quanto hai fame, mangia quello che ti senti, impara a conoscere te stesso e i tuoi bisogni (alimentari)! La natura, ascoltala e ti guiderà a raggiungere un equilibrio! Sì, bene. Bello e (im)possibile (?), a quanto pare.
Ci sarebbero da fare delle ulteriori considerazioni: questi soggetti in genere mangiano una volta a settimana e se iniziano a rotolare colpevolizzano se stessi perché non hanno ancora chiaro come ascoltarsi... Poi c'è chi addirittura (genio assoluto) si convince di riuscire a mangiare liberamente senza patemi e conflitti interiori, semplicemente stilando una preventiva lista di alimenti che da un dato giorno in poi saranno gli unici previsti nel suo piano alimentare (si mangia sempre una volta a settimana, sia chiaro). In genere la lista si ferma a 2, 3 cibi. I più quotati sono, 1) insalata, 2) petto di pollo... Quelli più temerari aggiungono 3) mela, ma sono pochi.
Bene, a me questi modelli non hanno mai convinto più di tanto. Ora mi convincono ancora meno. Quello che non ho mai compreso fino in fondo è come possono pretendere di affidare a se stessi qualcosa che fondamentalmente non possono controllare come vorrebbero. Ecco, questo è il punto centrale su cui vorrei si riflettesse, alla luce di quanto sopra. Perché un collegamento c'è, ed è molto chiaro.
Approfondimenti, critiche... Di tutto e di più (spero)!
Testo di riferimento
J.P.J. Pinel, Psicobiologia, il Mulino, Bologna, 2007
Studi
B.J. Baker, D.A. Booth, Preference conditioning by concurrent diets with delayed prportional reinforcement, in Physiology and Behavior, 46 1989, pp. 585-590
L.J. Harris, J. Clay, F.J. Hargreaves, A. Ward, Appetite and choice of diet: The ability of the vitamin B deficient rat to discriminate between diets containing and lacking the vitamin, in Proceedings of the Royal Society of London, 113B, 1933, pp. 161-190
M.R. Lowe, The effects of dieting on eating behavior: A three factor model, in Psychological Bulletin, 114, 1993, pp. 100-121
J.P.J. Pinel, S. Assanand, D.R. Lehman, Hunger eating, and hill health, in American Psychologist, 55, 2000, pp. 1105-1116
E.T. Rolls, Central nervous mechanisms related to feeding and appetite, in British Medical Bulletin, 37, 1981, pp. 131-134
P. Rozin, S. Dow, M. Moscovitch, S. Rajaram, What causes humans to being and end a meal? A role for memory for what has been eaten, as evidence by a study of multiple meal eating in amnesic patient, in Psychological Science, 9, 1998, pp. 392-396
H.P. Weingarten,
Conditioned cues elictic feeding in sated ats: A role for learning in meal initiation, in Science, 220, 1983, pp. 431-433
Meal initiation controlled by learned cues: Basic behavioral properties, in Appetite, 5, 1984, pp. 147-158
Stimulus control of eating: Implications for a two-factor theory of hunger, in Appetite, 6, 1985, pp. 387-401
H.P. Weingarten, O.T. Kulikovsky, Taste-to-postingestive consequence conditioning: Is the rise in sham feeding with repeated experience a learning phenomenon?, in Physiology and Behavior, 45, 1989, pp. 471-476
S.C. Woods, D.S. Ramsay, Pavlovian influences over food and drug intake, in Behavioural Brain Research, 110, 2000, pp. 175-182
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