L'INTENSITA': nascita, sviluppo e possibili evoluzioni di un mito.

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  • Piero Nocerino
    Vip User
    • Jan 2003
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    Bastardo!
    Il mio Blog : http://piero.bodyweb.com
    http://www.cromosoma6.com

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    • Rox68
      Bodyweb Advanced
      • Nov 2002
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      Ciao a tutti!
      Mi voglio scusare per la mia momentanea latitanza, ma purtroppo non si vive di sola passione ed il lavoro non mi lascia poi tanto tempo a disposizione per mettere nero su bianco qualcosa di articolato ed intellegibile.
      Spero di poter ricominciare a prendere parte in maniera attiva alla discussione, proprio ora che mi pare che si stia riscaldando l'ambiente...
      Un salutone a tutti.
      Luca.

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      • Amicos
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        • Feb 2003
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        Forza Rox che abbiamo raggiunto un Plateau

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        • Eagle
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          • Dec 2001
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          Buon anno a tutti!
          Faccio una puntatina da un internett cafè e poi ci si risente la prossima settimana...


          Originally posted by Piero Nocerino
          Ci sono in generale troppe aspettative riguardo studi settoriali applicati alla nostra popolazione.

          ....Del vero lavoro culturistico e delle sue ripercussioni organiche la medicina ufficiale se ne sbatte le gonadi!.....
          Non ne sono così sicuro...

          Sulle tecniche per promuovere un bilancio positivo dell'azoto ed aumentare la massa muscolare c'è un gran fermento e un enorme interesse...

          C'è, e come non giustificarlo, un certo scetticismo relativamente alle pratiche culturistiche "hard core", che prevedono sempre o quasi un massiccio supporto farmacologico su cui, in modo finalmente quasi serio, si sta studiando negli ultimissimi anni...

          Originally posted by Piero Nocerino

          Volete sapere in realta' come vanno le cose?Prendono un numero x di sfigati piu' o meno prezzolati e sicuramente smarronati,a cui vengono fatte effettuare 3 serie di curl con manubri,10 rip. con 4 kg.

          Valori ematici prima e dopo,ed il tuo nome entra di diritto tra quello dei ricercatori nella medicina dello sport.

          ...E noi ci basiamo su questa bibliografia...Manca tutto,manca la popolazione,manca un protocollo degno di tale nome,manca un controllo qualora la ricerca si basasse su supporti alimentari(chi mi assicura che i soggetti a casa propria non scazzino...?).UN DISASTRO!!! E poi noi a chiederci se ci sono lavori che supportino....che cosa?.....
          All'estero le ricerche scientifiche non vanno proprio come in Italia...per fortuna...

          ...e comunque non vedo una grande alternativa agli studi "scientifici"...

          Che cosa proporresti?
          I casi singoli, senza riscontri di laboratorio, misurazioni, senza un ambiente standardizzato, senza parametri di riferimento, etc etc....

          Quindi una ricerca fatta di osservazioni di casi singoli, che "scazzano" quanto gli pare e piace, con i prodotti spt... gente, in genere dotata di doppia elica favorevole, che ti dice, e bada bene TI DICE: "ho fatto questo e quello e IO sono cresciuto".

          Non voglio togliere nulla alle osservazioni empiriche dei casi singoli, di VERI amanti del bb, che hanno un valore fondamentale per formulare delle IPOTESI di lavoro.

          Sono quindi, nella mia personalissima opinione, dei punti di partenza, degli spunti, da studiare, sviscerare, rielaborare se necessario, e su cui costruire delle ricerche fatte in modo "scientifico" per verificare tali ipotesi.

          E, punto per me non indifferente, tenete conto anche che l'approccio può essere sostanzialmente di due tipi:

          1 - cerco quello che da migliori risultati. Punto.

          2 - valuto le varie tecniche, di allenamento, alimentari, famaci, etc, in un ottica più globale. Ovvero che cosa "guadagno" e che cosa rischio e perdo...

          Ovviamente, sempre nella mia personale opinione, il secondo approccio è quello più corretto, in particolare se si vuole portare lo studio dei fenomeni legati al bb a livello di "scienza ufficiale".

          xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx

          Nello specifico del 3d, che non leggevo da un paio di settimane, vedo che siete arrivati ad affermare che lo stimolo va diversificato per massimizzare il risultato ipertrofia.

          Che l'allenamento va a sua volta targetizzato a seconda di chi è l'atleta, pricipiante o avanzato, natural o dopato, etc etc.

          Adesso vediamo di procedere, please!

          Sarebbe interessante che chi ha qualche idea SENSATA sulla cosa scrivesse di quali siano le linee generali da tener presente nella programmazione di una preparazione, e spt quali siano le soluzioni per i diversi imprevisti di percorso, ovvero come affrontare il mancato raggiungimento dei risultati intermedi o, peggio ancora, i momenti di stallo/regressione...e SU QUESTO DISCUTERE...

          Io nelle mia misera esperienza di atletino avevo (sono quasi 3 anni che non mi alleno decentemente) osservato come importante una fase iniziale di volume di lavoro, per crearmi una "base" su cui poi lavorare in seguito.

          Più serie e più allenamenti per qualche settimana, seguiti, spesso in modo quasi "istintivo", da una graduale riduzione del numero delle serie accompagnato da un aumento dell'intensità, fino ad arrivare ad un punto di stallo e superallenamento (o rottura di palle, chiamatelo come meglio vi aggrada) che sfociava un una - due settimane di stop, e poi il ciclo si ripeteva.

          Questo poi a grandissime linee, con tutte le piccole variantine, ritocchini, etc, per rendere la cosa personale.

          Tutte cose su cui mi farebbe piacere confrontarmi con altri, senza alcuna pretesa di insegnare niente a nessuno nè di rubare "schede" o segreti a chi se li vuole tenere ben stretti...

          Questo nelle fasi natural (quasi sempre).

          Per chi lo volesse sapere, su 170cm di statura, iniziando con un peso di circa 60 kg nel lontano 1980, sono arrivato, SENZA supporti chimici, a 85kg.

          Non saprei dire la % di grasso, che comunque reputo solo approssimativamente stimata dalla plicometria.
          Non ero comunque tirato, ma neppure grasso.

          Ci sono delle foto dell'anno scorso con Potenza che mi vedono in una condizione simile a quella migliore raggiunta da natural (lì ero un pochino più piccolo del mio best natural comunque. 82 kg contro 85).

          Non penso di avere una doppia elica particolarmente favolrevole, ho una struttura ossea leggerina e mi superalleno abbastanza facilmente.

          Ritengo comunque di essere un soggetto "medio", e ritengo che quello che ho raggiunto io lo possano raggiungere la maggior parte degli aspiranti bb.

          Il fattore, spt da natural, che si è rivelato fondamentale, è il controllo del carico esterno-interno al di fuori dell'ambito prettamente culturistico.

          Quindi, molto banalmente, se avevo un lavoro pesante, che mi constrigenva a lavorare un paio di notti a settimana, che mi sballava i ritmi, se le condizioni non consentivano di avere la calma e il tempo necessario per riposare più che abbondantemente, di seguire una dieta appropriata, di gestire l'allenamento in modo ideale o quasi, è sempre stato inutile tentare di guadagnare qualche cosa in termini bb.

          Ritmi adatti = tra le varie cose, ad esempio sapere che se non mi sento di allenarmi o di tirare oggi posso garantirmi un adeguato riposo e ritentare domani.

          Ma se invece l'opzione era oggi oppure fra 4 gg, xchè l'indomani avrei avuto il turno mattino e notte, dopodomani sarei quindi stato comatoso e il terzo giorno avrei avuto il turno lungo che significa 14 ore filate e quindi non potevo pensare di allenarmi...inutile fare progetti ed avere attese...


          Il discorso diventava poi molto più complicato nelle fasi "assistite" per il parametro aggiuntivo che potevo variare a mio piacimento e che andava ad influenzare tutto il resto in modo decisamente pesante....

          Alla prossima settimana!

          Eagle
          Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza.

          NEUROPROLOTERAPIA - la nuova cura per problemi articolari e muscolari. Mininvasiva ma soprattutto, che funziona!
          kluca64@yahoo.com

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          • Rox68
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            • Nov 2002
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            Valutazioni funzionali del carico esterno sull'equilibrio biochimico muscolare.

            Sì, lo ammetto… durante queste vacanze di Natale e di fine d’anno la mia partecipazione alle vicende del forum non è stata particolarmente attiva in nessuna sezione.
            Noto però con grande piacere che, dopo un lungo periodo di silenzio, si è riaccesa quella “proficua tensione” intellettuale che è lo stimolo fondamentale ed indispensabile per spingerci a guardare oltre la stretta visuale dei nostri orizzonti personali, e ad osservare la realtà mutevole e variegata del mistero della crescita da prospettive diverse.
            Oddio, non starò mica scrivendo un’omelia natalizia? Andiamo oltre dunque…
            Di interventi e di spunti ce ne sono stati molti, da quelli di Piero alla valanga di Eagle…ci sarebbe da scrivere per un anno intero, ammesso e non concesso che si riesca a dare un perché a tutte le osservazioni che sono state fatte e alle tante altre che si potrebbero fare.
            In realtà il mio obiettivo iniziale era molto più modesto: non mi sono mai sognato di dare delle definizioni assolute o delle verità dogmatiche da seguire per ottenere i tanto agognati miglioramenti in termini di ipertrofia muscolare. Mi proponevo soltanto di fare un po’ di chiarezza riguardo a quelle che sono delle conquiste della scienza (intesa come fisiologia dello sport e teoria dell’allenamento), aprendo solo qualche finestra sugli orientamenti della ricerca, proponendo il tutto in una veste discorsiva e non tecnicistica, in modo da poter stimolare l’attenzione del maggior numero possibile di utenti, dal novizio all’avanzato.
            Infatti nelle varie pubblicazioni del settore è possibile trovare articoli ben realizzati su questo o quell’aspetto dell’immenso panorama del nostro sport, ma l’esperienza personale mi ha insegnato la difficoltà che spesso i lettori hanno nel collegare tra loro i vari argomenti scritti in maniera così frammentata e, talvolta, con contenuti profondamente discordanti tra loro. E’ come avere a disposizione un ottimo testo universitario e pretendere di studiarlo senza partire dal primo capitolo per poi arrivare man mano in fondo, ma aprendo il libro a caso e leggendo le pagine casualmente: alcune informazioni pian piano verranno pure assorbite, ma la conoscenza acquisita con un metodo di studio di questo tipo sarà sempre lacunosa e gli argomenti saranno scollegati logicamente tra di loro.
            I miei interventi volevano costituire un discorso capace di far comprendere in maniera semplice i vari aspetti della nostra disciplina, illustrare come la singola serie o il singolo allenamento interagiscano con l’impulso conservativo ed omeostatico del nostro organismo: per far ciò mi sono avvalso talvolta di esempi, magari non sempre perfettamente calzanti, ma che avevano lo scopo di semplificare i concetti base di un argomento multisettoriale ben lontano dall’essere semplice.
            Chiunque ha avuto la pazienza di leggere con attenzione quello che via via ho scritto si sarà potuto accorgere che, pur nel tentativo di semplificare i concetti, ho sempre evitato di banalizzare gli argomenti circoscrivendoli in tabelle di allenamento più o meno strutturate, non era e non è questo l’obiettivo…
            La mia finalità è al contrario quella di stimolare l’interesse dell’atleta, la ricerca rigorosa ed introspettiva, la voglia di sperimentare su se stessi quanto questo o quel concetto di fisiologia sia applicabile alla nostre unicità genetiche, alle nostre caratteristiche biomeccaniche, metaboliche e neuromuscolari.
            Sarebbe bello se ognuno di noi avesse capacità autopercettive tali da essere in grado di costruirsi addosso un programma di allenamento sulla base sia di strumenti obiettivi monitorabili sia attraverso una attenta valutazione delle proprie capacità di risposta agli stimoli esterni: sarebbe un po’ come essere in grado di cucirsi addosso un vestito, avendo sempre la possibilità di adattare le misure e la forma dell’abito alle mutate esigenze del momento.
            Si tratta in definitiva dello stesso concetto espresso da Piero attraverso l’etimologia del termine “assimilare”, fare in modo che qualcosa diventi simile a se stessi, facendola propria…questo vale per una bistecca così come per uno stimolo allenante: bisogna invertire il trend che vuole imporre un seppur razionale schema di allenamento…non siamo noi a doverci adattare ad uno schema ma dobbiamo riuscire ad essere in grado di rendere malleabile lo schema stesso a tal punto da renderlo assimilabile a noi.
            Sembra un semplice, stupido gioco di parole ma sta qui la chiave per ottenere il massimo dalle proprie capacità organiche e psicologiche.
            Devo comunque ammettere che il rapporto tra quantità di lavoro esterno e carico di lavoro interno è un argomento di grande interesse e mi avete convinto del fatto che sarebbe necessario approfondire il discorso dell’impatto biologico degli stimoli da sovraccarico prima di iniziare a parlare nel dettaglio dei vari meccanismi che dovrebbero favorire l’ipertrofia muscolare.
            In fondo la conoscenza ed il sapiente utilizzo di stimolo allenante, fatica e recupero racchiude l’essenza stessa della cultura sportiva in generale e del bodybuilding in particolare.
            Anche in questo caso il confronto con i motori mi sorge spontaneo: rapporto tra carico esterno e carico interno ovvero, inquadrando il problema da un’ottica generale, il RENDIMENTO specifico di un sistema.
            Nella termodinamica applicata alle macchine, si parla di rendimento R di un motore come il rapporto tra il lavoro utile L eseguito e la quantità di calore Q assorbita dall’esterno per effettuare tale lavoro:

            R = L / Q

            Il rendimento ottimale sarebbe quello pari ad 1 (o al 100% come si usa dire) ovvero quello che avrebbe un motore perfetto che riuscisse a convertire tutta l’energia assorbita in lavoro utile.
            Nella pratica motori perfetti non ne esistono in natura, poichè buona parte dell’energia assorbita viene dissipata sotto forma di dispersioni e di attriti interni.
            I motori per automobili possono benissimo assimilarsi al motore biologico del nostro organismo, infatti sono di norma motori a combustione interna: la sorgente fornitrice di calore è cioè rappresentata da un carburante che brucia all’interno stesso del motore (nel cilindro o nelle miocellule), le strutture motorie (manovellismi o fibre muscolari) sono soggette con il tempo ad usura e, nel peggiore dei casi, a rottura causata da un utilizzo improprio o eccessivo.
            La differenza fondamentale consiste che nel caso dell’apparato muscolare non è possibile, una volta accesa la spia della riserva del carburante, fermarsi e fare il pieno di V-Power al distributore oppure far eseguire un tagliando di manutenzione, ma bisogna fare i conti con le capacità di recupero intrinseche del motore, sia dal punto di vista del ripristino dei substrati energetici intaccati dal lavoro, sia da quello della ricostruzione della matrice proteica eventualmente danneggiata da prestazioni particolarmente onerose, sia con i processi di smaltimento delle tossine di scarico, sia eventualmente con la completa riattivazione elettrica del sistema nervoso.
            Questo è il cuore del problema: analizzare le modalità e le capacità di recupero del motore uomo in tutte le sue fenomenologie; è un argomento abbastanza complesso e per alcuni tratti ancora sconosciuto ma, se pensiamo che il fenomeno della supercompensazione si manifesta proprio attraverso il giusto grado di recupero, la sua conoscenza sarà di fondamentale importanza per permetterci di somministrare gli opportuni volumi di lavoro, con l’adeguata intensità e la dovuta densità/frequenza.
            La prima cosa che bisogna tenere sempre ben presente è che il recupero è un concetto multisettoriale, ossia non è soltanto legato – come spesso si crede - al ripristino energetico ma, a seconda delle tipologie di stimolo a cui abbiamo sottoposto il nostro organismo, interessa quasi tutte le principali funzioni del corpo: da quelle metaboliche a quelle endocrine, da quelle neuromuscolari a quelle plastiche vere e proprie: non si può pensare di porre l’attenzione solo su un aspetto trascurando gli altri, ma dovremo sforzarci di avere una visione globale del problema.
            Quello che rende la nostra impresa cognitiva più ardua è che la risposta dell’organismo purtroppo non è sempre la stessa, ma è dipendente dal tipo di affaticamento a cui è stato sottoposto: allenarsi con carichi submassimali per 60 minuti non scaturisce la stessa risposta di una corsa di pari durata: dobbiamo quindi prendere atto del fatto che, allo stesso modo in cui i risultati in termini di aumento delle capacità di prestazione atletica sono differenti in funzione del tipo di allenamento, i meccanismi coinvolti nel processo di recupero a tale lavoro e quindi i tempi cambiano anch’essi.
            E c’è di più...
            Possiamo pensare di assimilare un gruppo ipotetico di 50 atleti a 50 modelli differenti di automobili, dall’utilitaria alla vettura sportiva, dalla berlina di lusso alla turbodiesel da viaggio: a grandi linee le strutture interne del funzionamento dei propulsori sono le stesse, così come sono gli stessi gli apparati che compongono le diverse strutture del corpo umano; quello che cambia radicalmente è la capacità di prestazione e di usura in relazione alle diverse sollecitazioni a cui sono chiamate a far fronte le 50 vetture o, nel nostro parallelismo, i 50 atleti.
            Se il nostro obiettivo fosse quello di ottenere il miglior tempo in un circuito, è evidente che le auto sportive avrebbero il sopravvento poiché i criteri che sono alla base della loro progettazione si sono evoluti proprio per far fronte al meglio a tali sollecitazioni, sull’altro piatto della bilancia bisognerà accettare dei consumi specifici elevati ed una manutenzione rigorosa.
            Se lo stesso utilizzo venisse fatto su altri tipi di vetture il risultato, oltre a non essere paragonabile in termini di prestazione pura, sarebbe quello di sollecitare a tal punto gli organi interni tanto da non ritenere improbabile la rottura o comunque la precoce usura di buona parte di essi.
            Una situazione diametralmente opposta si otterrebbe se cercassimo di ottenere dalle nostre vetture elevate percorrenze chilometriche: se volessimo percorrere 100.000 Km in un anno, le prestazioni migliori in termini di affidabilità, comfort ed elasticità di marcia si avrebbero con le grandi berline o con le moderne turbodiesel, non certo con vetture sportive o utilitarie.
            Tutti gli esseri umani costituiscono una unicità, ossia sono ognuno diverso dall’altro pur avendo la medesima struttura di base; essi si sono evoluti in milioni di anni sopravvivendo ed evolvendosi in modo da superare ostilità di ogni tipo (climatiche, ambientali, virali…) che hanno operato nel tempo una dura selezione naturale: solo i più forti, i più intelligenti e quelli che avevano la fortuna di sapersi adattare con maggior facilità alle mutate condizioni sono riusciti a sopravvivere e a riprodursi, trasmettendo alle generazioni successive le proprie capacità genetiche e permettendo al genere umano di evolversi.
            Quello che noi oggi siamo non è altro che il frutto di centinaia di migliaia di anni di evoluzione e di affinamento delle capacità; il nostro organismo, il nostro sistema muscolare, quello immunitario, addirittura le nostre capacità cognitive e di ragionamento sono il risultato di un insieme bilanciato di sviluppo e di istinti primordiali (ancestrali) mediati dalle varie culture in cui siamo nati e cresciuti.
            Anche l’equilibrio omeostatico in cui si trova il nostro organismo - garantito da milioni di reazioni chimiche che avvengono al suo interno – non sfugge a questa regola: si è sviluppato ed affinato nel corso dei millenni, garantisce la sopravvivenza ed è talmente duttile da adattarsi ad eventuali attacchi esterni di qualsiasi genere.
            Quello che ci rende unici non sono tanto le reazioni chimiche in sé (pressappoco identiche in ogni individuo) ma la tipologia di equilibrio raggiunto nel complesso e, nello specifico, dall’equilibrio delle singole reazioni chimiche che lo compongono.
            Supponiamo di avere la seguente reazione:

            A + B = C + D in realtà essa è esprimibile in due modalità A + B ---> C + D oppure C + D ---> A + B

            Una reazione chimica non è altro che una sorta di trasformazione che si realizza attraverso il riassetto e la ridistribuzione di una o più entità molecolari, con rottura e/o formazione di legami tra gli atomi che costituiscono la struttura molecolare. Una reazione può avvenire spontaneamente solo quando i prodotti risultano essere più stabili dei reagenti o, è la stessa cosa, quando i prodotti sono dotati di un contenuto energetico inferiore.
            Il verso in cui la reazione chimica avviene non è però assoluto, ma la sua tendenza a compiersi in un senso o nell’altro è dipendente da diversi fattori legati principalmente alla natura degli elementi coinvolti, alle concentrazioni dei vari elementi, alla temperatura, a dati cinetici, termodinamici e alla presenza di eventuali fattori esterni (catalizzatori) che, pur non partecipando direttamente alla reazione stessa, possono favorirla o ostacolarla (abbassarne o aumentarne l’energia di attivazione).
            In funzione della temperatura, esiste una costante K che, in relazione alla concentrazione dei reagenti e dei prodotti, stabilisce quando la tendenza che ha la reazione ad avvenire verso destra risulta uguale a quella che essa ha a compiersi verso sinistra: quando la concentrazione dei prodotti C e D risulta troppo alta in relazione a quella stabilita dalla costante K, la reazione non procede più verso destra anzi, se le condizioni energetiche globali lo permettono, tende ad avvenire nel verso opposto.
            E’ chiaro che non bisogna pensare che questo discorso sia legato soltanto ad una singola reazione, infatti quelli che sono i prodotti (C e D) saranno a loro volta coinvolti in successive reazioni per costituire altri composti in una catena lunghissima che, alla fine, costituisce l’equilibrio globale della omeostasi.
            Tutto questo discorso forse esula un po’ dall’obiettivo che ci siamo prefissi, ma serve comunque a far comprendere come un elemento esterno di disturbo – che può essere un ciclo intenso e/o voluminoso di allenamento – all’interno del nostro organismo viene interpretato come una specie di terremoto: dapprima il corpo reagisce facendo in modo di favorire il più possibile la reazione che serve a reperire l’energia necessaria all’impegno muscolare:

            ATP -----> ADP + P + Energia

            di riflesso, all’interno di tutte le strutture coinvolte, lo spostamento verso destra di questa reazione genera uno squilibrio che, a sua volta, innesca tutta un’altra serie ininterrotta di reazioni che hanno lo scopo da una parte di permettere all’apparato muscolare di continuare a rispondere alle sollecitazioni con la necessaria efficienza, dall’altra di reclutare l’energia necessaria da tutte le fonti possibili togliendone, se necessario, a quelle strutture che in quel momento non hanno richieste specifiche importanti.
            Si tratta in sostanza di tutta una serie successiva di squilibri biochimici che fungono da motore per le prestazioni muscolari: se l’impegno atletico, di qualunque genere esso sia, si spinge ai limiti delle possibilità dell’atleta in quanto a volume globale e/o di intensità di lavoro e/o di frequenza degli stimoli, il corpo finisce per non riuscire più a far fronte all’impegno metabolico richiesto e man mano, con l’aumento delle concentrazioni di alcune molecole a discapito delle altre, il rendimento specifico del motore biologico decade sempre più sino ad annullarsi del tutto.
            Già mi immagino le facce di molti di coloro che stanno avendo la pazienza di leggere tutto questo antefatto…comprendo come alla fine quello che interessa è capire cosa determina il cedimento quando siamo impegnati in una serie allo spasimo di Squat, quanto tempo occorre recuperare tra una serie e l’altra e, nella migliore delle ipotesi, quanto tempo deve passare tra una seduta di allenamento e l’altra e come si può evitare il superallenamento.
            Quello che mi piacerebbe trasmettere a chi legge è che purtroppo è semplicistico pensare di risolvere un problema concentrandosi solo su un aspetto senza comprendere la natura generale, organica del fenomeno di cui si parla: l’argomento va principalmente compreso nella sua globalità, nelle sue regole generali di funzionamento; fatto ciò ci si può addentrare nelle sue manifestazioni particolari con una minima speranza riuscire a comprenderne e a prevederne i risultati.
            L’argomento è dunque il decadimento delle capacità di prestazione dell’apparato muscolare nel breve e nel lungo periodo, intendendo per lungo periodo non tanto il cedimento da sforzi leggeri e prolungati (attività aerobica) – che esula momentaneamente dai nostri ipertrofici interessi – quanto il cedimento indotto attraverso la perdita delle capacità di recupero causato da sollecitazioni troppo intense, voluminose o frequenti.
            E’ facile comprendere come il concetto di cedimento muscolare nel breve periodo sia di natura diversa rispetto a quello sul lungo periodo: nel primo caso si tratta essenzialmente dell’impossibilità da parte del nostro apparato muscolare di continuare a far fronte ad uno sforzo, nel secondo si tratta di una difficoltà organica a ripristinare in modo efficiente e ragionevolmente rapido l’equilibrio omeostatico in tutti gli apparati coinvolti nella contrazione muscolare.
            L’analisi attenta delle modalità per le quali si può manifestare il cedimento muscolare ci aiuta a comprendere la natura dello sforzo a cui il nostro organismo è sottoposto durante le operazioni di recupero, ripristino e supercompensazione.
            La prima cosa da sottolineare è che il cedimento muscolare (fatica) si può manifestare in forme diverse, interessando siti differenti a seconda del tipo di sforzo a cui ci stiamo sottoponendo: il cedimento che osserviamo effettuando una distensione massimale su panca è biologicamente diverso da quello che si ha effettuando una serie a sfinimento con il 70% del massimale, oppure durante una maratona.
            Anche se la fenomenologia è la stessa, ossia la manifesta incapacità finale del muscolo di compiere ulteriore lavoro, le modalità e le cause dell’interruzione delle prestazioni sono differenti: possiamo pensare al nostro apparato motorio come una lunga catena formata da tanti anelli, tutti indispensabili al corretto funzionamento del sistema, dai sensori periferici di sforzo (fusi e organi del Golgi) al sistema nervoso centrale (SNC), dall’alfaneurone che trasmette lo stimolo alla placca motoria che lo recepisce, dalle diverse fibre muscolari alle miocellule che le compongono, dall’energia dell’ATP ai tre meccanismi di ricarica che la supportano…
            La catena è lunghissima, ma ogni anello è collegato all’altro ed ognuno di essi, dal più piccolo al più grande, ha la medesima importanza per il corretto funzionamento dell’apparato motorio muscolare.
            Il cedimento si manifesta quando la catena si rompe in uno qualsiasi dei suoi anelli; ciò si manifesta in relazione a sforzi di differente natura: potremmo quindi generalizzare facendo una iniziale suddivisione in:

            a) Fatica Locale o Periferica: riferita alle caratteristiche contrattili ed energetiche del muscolo;
            b) Fatica Centrale o Neuromuscolare: riferita al sistema di trasmissione degli impulsi motori.

            Per far comprendere bene i meccanismi che sono alla base di questo complesso discorso, mi trovo costretto ad illustrare dei concetti che non sarebbe stata mia intenzione affrontare in questa sede diciamo “divulgativa”: a volte, per fare in modo che si riesca a capire meglio la natura di un problema complesso, si accettano delle semplificazioni, o meglio delle approssimazioni che, pur non rispecchiando a pieno la realtà delle cose, permettono una efficace schematizzazione e comprensione dei problemi. In altre parole è preferibile descrivere una realtà semplificata ma comprensibile da chi legge, piuttosto che riportare tutta la complessità di un argomento rischiando che il lettore non capisca nulla o quasi di quanto sta leggendo.
            La stessa cosa succede agli studenti liceali e dei primi anni di parecchie facoltà universitarie con la chimica e la fisica: i testi riportano teorie e concetti ampiamente superati dai (neanche tanto) recenti studi. La teoria degli orbitali, della tavola periodica, la fisica gallileiana e newtoniana sono concetti ormai desueti nei trattati di chimica e fisica moderni, nonostante ciò tali schematizzazioni risultano utili per comprendere la natura generale di alcuni fenomeni e, cosa non da poco, permettono una semplice divulgazione. Se ad uno studente liceale ai primi anni si cominciasse a parlare di teorie quantistiche, di fotoni, a dire che la materia è un diverso tipo di manifestazione dell’energia o che il tempo non è assoluto…probabilmente finiremmo solo con il confonderlo senza permettergli di capire nulla.
            Stavolta però mi concedo una deroga, sperando di riuscire lo stesso a mantenere un quadro sufficientemente chiaro del problema.
            Ormai sono diversi mesi che scrivo su questo forum ed ho portato avanti argomenti variabili dal concetto di forza veloce e forza massimale a quello della struttura neuromuscolare e contrattile in relazione agli sforzi; per far ciò ho parlato di unità motorie, di impegno neuronale, di capacità contrattili, di ATP, di sistemi di ricarica ed altro fondando il mio discorso sul concetto di poter allenare la componente muscolare e quella neuromuscolare bilanciando in maniera opportuna carichi ed allenamenti.
            Tale suddivisione in realtà non esiste, ma è una semplificazione che spesso si accetta per far comprendere gli schemi motori fondamentali: in realtà la parte neuronale e quella contrattile sono un tutt’uno inscindibile, nel senso che – pur essendo fisicamente distinte - si influenzano l’un l’altra attraverso tutta una serie di feed-back chimici in continua evoluzione.
            Addirittura, sempre parlando di prestazione e fatica muscolare, non è neanche corretto affermare che l’ATP si esaurisce, infatti le sue scorte non scendono mai al di sotto del 50% del totale a riposo, neanche in caso di cedimento muscolare completo.
            Questo per far comprendere come le diatribe che spesso si sentono sull’origine della fatica (centrale o periferica) non hanno un gran senso pratico: la fatica è sempre di natura organica, poiché il SNC e l’apparato muscolare sono in continuo dialogo tra di loro e modulano la loro azione in relazione alle possibilità del momento.
            Molti esperimenti compiuti stimolando la componente neuronale, hanno dimostrato che le capacità di sostenere scariche di potenziali a frequenze anche particolarmente alte non varia in funzione del tempo: in pratica il sistema muscolare mostra segni di cedimento molto prima che questi si verifichino nel nervo.
            Saremmo portati a dire quindi fatica periferica…
            In realtà le cose non sono proprio così semplici, perché d’altro canto altri esperimenti hanno mostrato che esiste una progressiva ma costante diminuzione della scarica degli alfaneuroni durante lo sforzo prolungato; poiché questo, come abbiamo detto, non può essere attribuito all'esaurimento neuronale, è pluasibile pensare a qualche forma di informazione riflessa, di autoregolazione degli impulsi con cui il muscolo sotto stress riesce a modulare al risparmio l'attività del sistema motorio centrale.
            In definitiva si pensa che esistano dei fenomeni di protezione attraverso cui il nostro organismo riesce ad ottimizzare l'attività neuromuscolare, adeguandola ai livelli di risorse energetiche disponibili ed al grado di tossine accumulate durante le reazioni chimiche di sviluppo di energia.
            Proprio questo è l’aspetto saliente del problema: le reazioni chimiche che portano alla produzione di energia e, parallelamente, alla risintesi dell’ATP mediante i meccanismi anaerobico alattacido (CP), anaerobico lattacido (glicolisi) ed aerobico portano alla produzione di molecole di scarto (metabolìti) le quali, man mano che la contrazione si prolunga, aumentano sempre più la loro concentrazione nelle cellule muscolari.
            Abbiamo visto che uno dei motivi fondamentali di blocco di una determinata reazione chimica, è proprio lo squilibrio delle concentrazioni tra reagenti e prodotti, in più sappiamo che il motore che porta alla contrazione muscolare è di natura elettrica. La contrazione muscolare intensa e prolungata porta, oltre che all’accumulo di metabolìti, ad uno squilibrio elettrolitico tale da modificare la conduzione elettrica e, in definitiva, il potenziale d’azione muscolare.
            Quindi uno sforzo prolungato determina una progressiva intossicazione dei muscoli dovuta sia alle elevate concentrazioni di metabolìti, sia a squilibri elettrolitici di varia natura, dipendenti dalla tipologia e dalla intensità degli stimoli.
            Possiamo così schematizzare tali squilibri elettrolitici:

            a) Sbilanciamento degli ioni K+ ed Na+ tra l’interno e l’esterno della miocellula;
            b) Difficoltà di regolazione del meccanismo di trasporto del Ca2+;
            c) Diminuzione del Ph per accumulo di ioni H+;
            d) Aumento della concentrazione di fosfato inorganico Pi;
            e) Aumento della concentrazione di ammoniaca (NH3);
            f) Deplezione del glicogeno muscolare;
            g) Perdite idrichesaline.


            Tutti questi fattori sono, nel loro complesso, responsabili del decadimento progressivo della capacità di compiere lavoro dell’apparato muscolare, attraverso un continuo abbassamento del grado di eccitabilità delle miocellule e dell’ampiezza e della velocità degli stimoli motori.
            E’ chiaro che, per ragioni di semplicità e di congruità, mi limiterò a descrivere quei fenomeni che sono correlati all’insorgenza della fatica durante sforzi massimali o submassimali, ossia di quegli sforzi che sono caratteristici dell’attività nel bodybuilding.
            Pensiamoci per un attimo mentre ci stiamo preparando psicologicamente ad affrontare un impegnativo set di squat: il bilanciere è caricato con l’80% del nostro massimale e siamo pronti ad eseguire una serie sino al completo esaurimento muscolare concentrico (circa 8 reps in 20-25 secondi di contrazione)…qualche piccolo colpetto di assestamento per bilanciare l’attrezzo ed eccoci fare il fatidico passo indietro, prima di partire con la prima ripetizione.
            Quello che accade e le sensazioni che si provano in questo momento sono note a tutti noi così come, viste le tante parole spese sull’argomento, dovrebbero essere conosciuti anche i risvolti energetici e neuromuscolari che sovrintendono ad un impegno di questo tipo. Vediamo ora cosa accade all’equilibrio chimico all’interno delle miocellule.
            Durante uno sforzo di elevata intensità e di breve durata si assiste, ad una notevole fuoriuscita di K+ (ione potassio) dalla membrana delle cellule muscolari verso l’esterno e, parallelamente, al passaggio di acqua e di Na+ (ione sodio) dall'esterno all'interno della cellula: ciò porta man mano ad una diminuzione della concentrazione di K+ e ad un aumento della concentrazione di Na+ all’interno della miocellula.
            In pratica ogni singola contrazione muscolare intensa (ripetizione) finisce con il destabilizzare l’equilibrio ionico esistente tra l’interno e l’esterno della membrana della fibra muscolare, attraverso l’ingresso di acqua ed Na+ e, contemporaneamente, fuoriuscita di K+ (con un rapporto di circa 2:1 o 3:1 secondo alcuni).
            Se i sistemi di riequilibrio messi in moto dall’organismo non sono in grado di far fronte allo scompenso con la necessaria efficacia, man mano che le ripetizioni si susseguono, viste le proporzioni del passaggio, si avrà un accumulo di Na+ all'interno maggiore dell'accumulo di K+ all'esterno; ciò si traduce in una diminuzione della negatività interna con conseguenze sfavorevoli sull'ampiezza e la velocità dei successivi stimoli, quindi delle successive contrazioni muscolari.
            Infatti, se consideriamo che la contrazione muscolare in definitiva non è altro che l’effetto dell’insorgere di una differenza di potenziale elettrico tra l’interno delle unità motorie e l’esterno, possiamo interpretare il fenomeno dell’affaticamento muscolare non solo dal punto di vista (limitativo) dell’esaurimento energetico, bensì da quello globale della diminuzione di potenziale elettrico, che può scendere ad un valore di 8-14 mV dai 70 mV iniziali: la conseguenza ultima e più importante di questo aspetto è rappresentata dalla riduzione progressiva dell'eccitabilità cellulare nonché dell’ampiezza e dell’efficacia delle contrazioni.
            Torniamo alla nostra serie di squat: 3-4-5 reps, la difficoltà ad eseguire ulteriori ripetizioni comincia a crescere sempre più…si crea una specie di effetto domino combinato: da una parte i meccanismi di scissione e risintesi dell’ATP cominciano a non essere più in grado di fornire l’energia necessaria per mantenere intatto il rendimento del motore, dall’altra l’aumento della concentrazione dei metabolìti e lo squilibrio ionico provocato dalle contrazioni penalizza sia l’efficienza dei sistemi di rifornimento energetico, sia ostacola il corretto ed efficace innesco della scintilla motoria.
            Se a prima vista potrebbe sembrare che la progettazione del motore muscolare non sia stata ben calibrata, con il generarsi di azioni che finiscono con l’autopenalizzarsi a vicenda, osservando dall’ottica più globale di controllo ed autoconservazione, non possiamo non notare che un sistema di questo tipo ci consente da un lato di far fronte ad eventuali, intense sollecitazioni e dall’altro di fare in modo che l’intossicazione (e quindi i danni) da sforzo si ripartiscano equamente su diversi apparati organici, senza per questo risultare troppo onerosi o addirittura letali per nessuno di essi.
            E a pensare che abbiamo descritto soltanto il punto a) di tutti i fenomeni imputati all’insorgere della crisi da sforzo.
            Non starò qui ad entrare nei dettagli di tutti gli altri fattori che, chi più e chi meno, in dipendenza dell’intensità e del volume dello sforzo, portano comunque ad un calo di potenziale elettrico dell’unità motoria nel suo complesso.
            Un fattore essenziale che, per diversi motivi che approfondiremo in altre sedi, non può essere trascurato consiste nell’aumento dell’acidità locale nei muscoli dovuta all’aumento della concentrazione degli ioni H+.
            Se durante le prime 4-5 ripetizioni il sistema prioritario di risintesi dell’ATP è senz’altro quello che interessa la fosfocreatina (CP), quando lo sforzo inteso supera i 15" circa, la continuità dell'erogazione energetica è garantita dalla glicolisi anaerobica, un meccanismo metabolico in grado di fornire minori quantità di ATP nell'unità di tempo (potenza inferiore) rispetto al sistema del CP e che, come conseguenza, determina un accumulo progressivo di acido lattico con conseguente (scissione della molecola di acido lattico in lattato ed H+) aumento della concentrazione di H+.
            Quindi durante le prime ripetizioni si avrà un accumulo di fosfato inorganico (Pi), dovuto sia alla scissione di ATP sia a quella della fosfocreatina CP, nonché l’inizio dello sbilanciamento elettrolitico K+/Na+; andando avanti con la serie diventa preponderante l’effetto negativo sulla prestazione muscolare dovuto all’aumento dell’acidità.
            Ma perché l’aumento dell’acidità e, in parte, anche l’aumento del Pi ostacolano la contrazione?
            Da alcuni studi effettuati pare che l’effetto sia duplice: da una parte gli ioni H+ produrrebbero un effetto negativo nei meccanismi di trasporto degli ioni calcio Ca++ tra il reticolo sarcoplasmatico ed il mioplasma, determinadone un aumento della concentrazione in quest’ultimo e quindi, in definitiva, ostacolando i fenomeni di contrazione e decontrazione delle unità motorie; da un’altra parte tale sbilanciamento della distribuzione degli ioni Ca++ ha come effetto anche quello di ridurre l’energia specifica dei legami tra actina e miosina, limitando lo slittamento di tali filamenti che è alla base fisica della contrazione muscolare e compromettendo quindi le possibilità di produrre una adeguata capacità di forza.
            Il discorso si sta facendo troppo tecnico…lo so e me ne scuso, ma non disperiamo se non abbiamo capito proprio tutti i passaggi biochimici, l’importante è aver compreso il meccanismo generale del rapporto tra l’innesco delle contrazioni muscolari e l’insorgere della sensazione di fatica.
            Siamo così giunti al termine della nostra intensa serie di squat: le scorte di CP si sono esaurite (in realtà non scendono mai al di sotto del 30%…) e parallelamente le fibre muscolari che compongono i quadricipiti si sono progressivamente arricchite di scorie metaboliche (Pi) ed il loro equilibrio elettrolitico è stato momentaneamente compromesso. Del resto, con un carico attorno all’80% del massimale, si assiste ad un consistente blocco della circolazione locale che non permette un sufficiente grado di smaltimento dei metabolìti e un seppur parziale riassetto elettrolitico.
            Finchè ci limitiamo a considerare la singola serie, con un lavoro ben inquadrabile mediante la percentuale di carico utilizzata, risulta abbastanza semplice analizzare l’impatto metabolico e biochimico che questa determina all’interno della nostra struttura muscolare, per cui anche il concetto di “Carico interno” può essere compreso senza troppi problemi. Abbiamo visto che le caratteristiche fondamentali di una serie, dal punto di vista che chiameremo “esterno”, sono Volume, intensità e densità: nel nostro caso, supponendo un massimale di 200Kg, un carico dell’80% per 8 ripetizioni, uno spostamento medio di 60cm a reps, un tempo di esecuzione di 35 secondi ed un recupero medio di 2,5 minuti, avremo:

            V = L = Kg x Reps x S =160 x 8 x 0,6 = 768 Nm
            I = (Kg x Reps)/Max = (160 x 8)/200 = 6,4
            D = Teff/Ttot = 35/(35 + 150) = 0,1892 = 18,92%

            Che impatto hanno questi valori sul nostro organismo?
            Il principio di equivalenza tra Lavoro ed Energia ci permette senz’altro di affermare che il Volume di lavoro sostenuto durante una sessione di allenamento deve necessariamente essere supportato da una spesa energetica da parte del nostro sistema muscolare: quindi l’organismo dovrà utilizzare una quantità di energia proporzionale al volume di lavoro svolto oltre a quella necessaria per attivare tutti gli apparati coordinativi e di equilibrio necessari ad interpretare correttamente la catena cinetica del movimento, variabile in funzione della complessità biomeccanica dell’esercizio eseguito.
            Decisamente più articolato è il discorso sull’Intensità: se da un punto di vista “esterno” l’Intensità è riconducibile alla qualità della prestazione, intesa come bontà del lavoro svolto in relazione alle risorse disponibili in quel momento, dal punto di vista “interno” il concetto di qualità del lavoro non può essere tanto rapportato alla prestazione in sé, ma piuttosto alla traccia metabolica lasciata da lavoro stesso su quello che abbiamo stabilito essere il nostro obiettivo fisiologico da attaccare.
            Qui occorre essere chiari e dunque cerco di spiegarmi meglio: se il nostro target, a livello macroscopico, fosse quello di portare a cedimento le capacità contrattili concentriche del maggior numero di unità motorie possibili, l’Intensità del lavoro svolto potrebbe essere espressa semplicemente come la percentuale delle fibre esaurite. Nulla però ci impedisce di andare più in profondità: abbiamo visto che il concetto di esaurimento delle capacità contrattili deve essere attribuito a tutta una serie di fattori che si autoinfluenzano, potremo allora ragionevolmente considerare come obiettivo la massima deplezione dei fosfati (CP) piuttosto che la massima acidificazione locale delle miocellule.
            A questo punto le cose si fanno più complesse, per la difficoltà oggettiva di valutare l’impatto del lavoro svolto sulle riserve dei fosfati da una parte e sull’aumento della concentrazione degli ioni H+ dall’altra.
            Alla luce di quanto abbiamo visto sulle logiche della comparsa della fatica, risulta abbastanza facile rendersi conto che, come per l’aspetto “esterno”, anche per quanto concerne l’impatto “interno” di uno stimolo, il concetto di Intensità sia un fenomeno inscindibile da quelli di Volume di lavoro e specificità dello stimolo (densità/frequenza): infatti un training definibile ad alta intensità rispetto alla deplezione dei fosfati (pesante e limitato nel tempo) dovrà essere considerato ad intensità bassa se il nostro obiettivo fosse l’esaurimento muscolare dovuto all’aumento dell’acidità locale.
            Questo discorso, se consideriamo gli ultimi 15 anni di “letteratura culturistica”, può sembrare un po’ anomalo; infatti sinora il concetto di Intensità è sempre stato legato bene o male a quello del massimo esaurimento possibile delle riserve di fosfocreatina. Solo ultimamente si sono scoperte le proprietà anaboliche indotte dall’acidificazione muscolare e quelle istologiche del lavoro eccentrico e questo, oltre a dare un nuovo impulso alla ricerca, ci ha anche aiutati a dare un senso ai risultati ottenuti dalla cosiddetta “Scuola Francese”.
            Gli alti volumi di lavoro di Nubret & company mal si conciliavano con il vecchio concetto di intensità (ATP/CP), tanto che qualcuno aveva addirittura ipotizzato una possibile ipertrofia a carico delle fibre rosse: in realtà resta sempre corretto affermare che solo le fibre bianche ed intermedie hanno la capacità di fare un lavoro forte e rapido poiché il loro metabolismo è essenzialmente anaerobico, quello che cambia il tipo di intensità generata in relazione all’obiettivo che, in questo caso, corrisponde all’esigenza della massima acidificazione locale e, solo secondariamente, l’esaurimento della fosfocreatina.
            Sino ad una concreta prova contraria, il principio secondo cui sono solo le fibre bianche ed intermedie capaci di ipertrofizzarsi resta immutato, a patto che per ipertrofia muscolare intendiamo l'aumento delle proteine contrattili che formano i muscoli piuttosto che il modesto incremento di volume dovuto all'aumento di capillari, mitocondri e riserve di glicogeno.
            In questo senso potrebbe avere dunque un senso considerare una intensità globale, riferita alla qualità del lavoro svolto per ottenere l’ipertrofia in generale, intesa come la sommatoria delle Intensità riferite ai singoli fattori influenzanti il fenomeno dell’ipertrofia nel suo complesso (deplezione del CP, aumento dell’acidità…).
            Implicitamente questo ragionamento darebbe una risposta alla domanda posta da Eagle sull’influenza della velocità di esecuzione – in fase concentrica o eccentrica – delle singole ripetizioni sul calcolo dell’Intensità globale: aumentare il tempo di esecuzione non ha alcun effetto diretto sul valore assoluto dell’intensità ma al contrario, aumentando la densità dello stimolo, finisce col variare di molto la specificità dello stimolo stesso spostando l’enfasi sullo squilibrio elettrolitico piuttosto che sull’esaurimento energetico: l’intensità globale non cambia, a variare è la sua forma specifica.
            Non è questo il momento di parlarne, ma esistono dei metodi di allenamento che sono in grado, attraverso un attento connubio tra abilità pratica e conoscenza fisiologica, di andare ad intaccare in maniera davvero profonda ed efficace i diversi aspetti interessati alla contrazione muscolare, arrivando ad intensità specifiche molto elevate.
            Possiamo dire di aver descritto in maniera sufficientemente esauriente tutti quei fattori che, influenzandosi a vicenda, sovrintendono alla comparsa della fatica e, in definitiva, dell’impossibilità di proseguire nella contrazione muscolare.
            Ognuno di questi fattori è in grado di lasciare sul nostro organismo una traccia di diverse dimensioni che, per essere cancellata o, nella migliore delle ipotesi, sovraccompensata necessita di un certo, variabile periodo di tempo e di opportune pratiche di recupero.
            Generalmente più tale traccia è profonda, maggiore sarà il tempo necessario al completo ripristino, per cui occorre essere in grado di percepire l’importanza di non dover sempre e comunque massacrare un aspetto metabolico del sistema muscolare per poterlo allenare proficuamente: un programma strutturato di allenamento prevede sì dei metodi di alta intensità relativa, riferita ai vari fattori metabolici via via interessati, ma nel cucirci addosso tale programma dovremo avere la destrezza di saper dosare tali ingredienti (metodi) come un bravo chef fa durante la preparazione di un piatto raffinato.
            Penso di poter concludere qui questo mio lungo ma doveroso contributo; la prossima volta, esauriti ormai i fattori specifici dell’affaticamento, mi occuperò degli aspetti biochimici ed ormonali che sovrintendono il recupero vero e proprio, limitandomi ancora a considerare il decorso “naturale” di tale fenomeno, pur riservandomi in futuro di analizzare nello specifico l’interessantissimo e, per alcuni versi, fondamentale aspetto delle alterazioni apportate dall’utilizzo di specifiche sostanze esogene.
            Ciao a tutti e grazie per la pazienza…
            Luca.
            Last edited by Rox68; 13-01-2004, 09:47:48.

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            • Amicos
              Bodyweb Member
              • Feb 2003
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              Ottimo Rox..si continua?

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              • Piero Nocerino
                Vip User
                • Jan 2003
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                • Send PM

                Grande Amicos,il tuo contributo e' sempre determinante.....
                Il mio Blog : http://piero.bodyweb.com
                http://www.cromosoma6.com

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                • ACE71
                  Inattivo
                  • Jan 2003
                  • 1528
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                  Originally posted by Piero Nocerino
                  Grande Amicos,il tuo contributo e' sempre determinante.....
                  Infatti: a metà dell'intervento di Rox per quanto interessante, la mia faccia è andata ad impattare sulla testiera, poi la notifica dell'intervento di AMICOS, mi ha destato!

                  Un pò di emozione in una giornata altrimenti monotona!

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                  • QuagliaE
                    Bodyweb Advanced
                    • Feb 2003
                    • 1297
                    • 35
                    • 3
                    • Torino
                    • Send PM

                    Re: Vaglielo a spiegare alla Nubret's school ...

                    Originally posted by Amicos
                    ...troppo Volume,non va bene per natural!!!
                    Bisogna sempre stabilire a partire da *quanto* il volume diventa eccessivo e in base a *cosa*.

                    In questo stesso forum ho letto posts di utenti che stabiliscono il tetto massimo dei natural come di due serie per gruppo. Sono concetti che fanno ridere, purtroppo qualcuno che li prende sul serio c'è sempre.

                    Saluti,
                    Enrico Quaglia
                    SPORTIME Fitness Center - Pinerolo
                    Vice Campione Italiano Natural AINBB-FIF pesi massimi

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                    • Piero Nocerino
                      Vip User
                      • Jan 2003
                      • 7451
                      • 97
                      • 3
                      • Send PM

                      Ace,ormai questo post si nutre dei complimenti e delle esortazioni di amicos....
                      Il mio Blog : http://piero.bodyweb.com
                      http://www.cromosoma6.com

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                      • CINA
                        Bodyweb Advanced
                        • Dec 2001
                        • 412
                        • 0
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                        Re: Valutazioni funzionali del carico esterno sull'equilibrio biochimico muscolare.

                        Originally posted by Rox68
                        Sì, lo ammetto… durante queste vacanze di Natale e di fine d’anno la mia partecipazione alle vicende del forum non è stata particolarmente attiva in nessuna sezione.
                        Noto però con grande piacere che, dopo un lungo periodo di silenzio, si è riaccesa quella “proficua tensione” intellettuale che è lo stimolo fondamentale ed indispensabile per spingerci a guardare oltre la stretta visuale dei nostri orizzonti personali, e ad osservare la realtà mutevole e variegata del mistero della crescita da prospettive diverse.
                        Oddio, non starò mica scrivendo un’omelia natalizia? Andiamo oltre dunque…
                        Di interventi e di spunti ce ne sono stati molti, da quelli di Piero alla valanga di Eagle…ci sarebbe da scrivere per un anno intero, ammesso e non concesso che si riesca a dare un perché a tutte le osservazioni che sono state fatte e alle tante altre che si potrebbero fare.
                        In realtà il mio obiettivo iniziale era molto più modesto: non mi sono mai sognato di dare delle definizioni assolute o delle verità dogmatiche da seguire per ottenere i tanto agognati
                        miglioramenti in termini di ipertrofia muscolare. Mi proponevo soltanto di fare un po’ di chiarezza riguardo a quelle che sono delle conquiste della scienza (intesa come fisiologia dello sport e teoria dell’allenamento), aprendo solo qualche finestra sugli orientamenti della ricerca, proponendo il tutto in una veste discorsiva e non tecnicistica, in modo da poter stimolare l’attenzione del maggior numero possibile di utenti, dal novizio all’avanzato.
                        Infatti nelle varie pubblicazioni del settore è possibile trovare articoli ben realizzati su questo o quell’aspetto dell’immenso panorama del nostro sport, ma l’esperienza personale mi ha insegnato la difficoltà che spesso i lettori hanno nel collegare tra loro i vari argomenti scritti in maniera così frammentata e, talvolta, con contenuti profondamente discordanti tra loro. E’ come avere a disposizione un ottimo testo universitario e pretendere di studiarlo senza partire dal primo capitolo per poi arrivare man mano in fondo, ma aprendo il libro a caso e leggendo le pagine casualmente: alcune informazioni pian piano verranno pure assorbite, ma la conoscenza acquisita con un metodo di studio di questo tipo sarà sempre lacunosa e gli argomenti saranno scollegati logicamente tra di loro.
                        I miei interventi volevano costituire un discorso capace di far comprendere in maniera semplice i vari aspetti della nostra disciplina, illustrare come la singola serie o il singolo allenamento interagiscano con l’impulso conservativo ed omeostatico del nostro organismo: per far ciò mi sono avvalso talvolta di esempi, magari non sempre perfettamente calzanti, ma che avevano lo scopo di semplificare i concetti base di un argomento multisettoriale ben lontano dall’essere semplice.
                        Chiunque ha avuto la pazienza di leggere con attenzione quello che via via ho scritto si sarà potuto accorgere che, pur nel tentativo di semplificare i concetti, ho sempre evitato di banalizzare gli argomenti circoscrivendoli in tabelle di allenamento più o meno strutturate, non era e non è questo l’obiettivo…
                        La mia finalità è al contrario quella di stimolare l’interesse dell’atleta, la ricerca rigorosa ed introspettiva, la voglia di sperimentare su se stessi quanto questo o quel concetto di fisiologia sia applicabile alla nostre unicità genetiche, alle nostre caratteristiche biomeccaniche, metaboliche e neuromuscolari.
                        Sarebbe bello se ognuno di noi avesse capacità autopercettive tali da essere in grado di costruirsi addosso un programma di allenamento sulla base sia di strumenti obiettivi monitorabili sia attraverso una attenta valutazione delle proprie capacità di risposta agli stimoli esterni: sarebbe un po’ come essere in grado di cucirsi addosso un vestito, avendo sempre la possibilità di adattare le misure e la forma dell’abito alle mutate esigenze del momento.
                        Si tratta in definitiva dello stesso concetto espresso da Piero attraverso l’etimologia del termine “assimilare”, fare in modo che qualcosa diventi simile a se stessi, facendola propria…questo vale per una bistecca così come per uno stimolo allenante: bisogna invertire il trend che vuole imporre un seppur razionale schema di allenamento…non siamo noi a doverci adattare ad uno schema ma dobbiamo riuscire ad essere in grado di rendere malleabile lo schema stesso a tal punto da renderlo assimilabile a noi.
                        Sembra un semplice, stupido gioco di parole ma sta qui la chiave per ottenere il massimo dalle proprie capacità organiche e psicologiche.
                        Devo comunque ammettere che il rapporto tra quantità di lavoro esterno e carico di lavoro interno è un argomento di grande interesse e mi avete convinto del fatto che sarebbe necessario approfondire il discorso dell’impatto biologico degli stimoli da sovraccarico prima di iniziare a parlare nel dettaglio dei vari meccanismi che dovrebbero favorire l’ipertrofia muscolare.
                        In fondo la conoscenza ed il sapiente utilizzo di stimolo allenante, fatica e recupero racchiude l’essenza stessa della cultura sportiva in generale e del bodybuilding in particolare.
                        Anche in questo caso il confronto con i motori mi sorge spontaneo: rapporto tra carico esterno e carico interno ovvero, inquadrando il problema da un’ottica generale, il RENDIMENTO specifico di un sistema.
                        Nella termodinamica applicata alle macchine, si parla di rendimento R di un motore come il rapporto tra il lavoro utile L eseguito e la quantità di calore Q assorbita dall’esterno per effettuare tale lavoro:

                        R = L / Q

                        Il rendimento ottimale sarebbe quello pari ad 1 (o al 100% come si usa dire) ovvero quello che avrebbe un motore perfetto che riuscisse a convertire tutta l’energia assorbita in lavoro utile.
                        Nella pratica motori perfetti non ne esistono in natura, poichè buona parte dell’energia assorbita viene dissipata sotto forma di dispersioni e di attriti interni.
                        I motori per automobili possono benissimo assimilarsi al motore biologico del nostro organismo, infatti sono di norma motori a combustione interna: la sorgente fornitrice di calore è cioè rappresentata da un carburante che brucia all’interno stesso del motore (nel cilindro o nelle miocellule), le strutture motorie (manovellismi o fibre muscolari) sono soggette con il tempo ad usura e, nel peggiore dei casi, a rottura causata da un utilizzo improprio o eccessivo.
                        La differenza fondamentale consiste che nel caso dell’apparato muscolare non è possibile, una volta accesa la spia della riserva del carburante, fermarsi e fare il pieno di V-Power al distributore oppure far eseguire un tagliando di manutenzione, ma bisogna fare i conti con le capacità di recupero intrinseche del motore, sia dal punto di vista del ripristino dei substrati energetici intaccati dal lavoro, sia da quello della ricostruzione della matrice proteica eventualmente danneggiata da prestazioni particolarmente onerose, sia con i processi di smaltimento delle tossine di scarico, sia eventualmente con la completa riattivazione elettrica del sistema nervoso.
                        Questo è il cuore del problema: analizzare le modalità e le capacità di recupero del motore uomo in tutte le sue fenomenologie; è un argomento abbastanza complesso e per alcuni tratti ancora sconosciuto ma, se pensiamo che il fenomeno della supercompensazione si manifesta proprio attraverso il giusto grado di recupero, la sua conoscenza sarà di fondamentale importanza per permetterci di somministrare gli opportuni volumi di lavoro, con l’adeguata intensità e la dovuta densità/frequenza.
                        La prima cosa che bisogna tenere sempre ben presente è che il recupero è un concetto multisettoriale, ossia non è soltanto legato – come spesso si crede - al ripristino energetico ma, a seconda delle tipologie di stimolo a cui abbiamo sottoposto il nostro organismo, interessa quasi tutte le principali funzioni del corpo: da quelle metaboliche a quelle endocrine, da quelle neuromuscolari a quelle plastiche vere e proprie: non si può pensare di porre l’attenzione solo su un aspetto trascurando gli altri, ma dovremo sforzarci di avere una visione globale del problema.
                        Quello che rende la nostra impresa cognitiva più ardua è che la risposta dell’organismo purtroppo non è sempre la stessa, ma è dipendente dal tipo di affaticamento a cui è stato sottoposto: allenarsi con carichi submassimali per 60 minuti non scaturisce la stessa risposta di una corsa di pari durata: dobbiamo quindi prendere atto del fatto che, allo stesso modo in cui i risultati in termini di aumento delle capacità di prestazione atletica sono differenti in funzione del tipo di allenamento, i meccanismi coinvolti nel processo di recupero a tale lavoro e quindi i tempi cambiano anch’essi.
                        E c’è di più...
                        Possiamo pensare di assimilare un gruppo ipotetico di 50 atleti a 50 modelli differenti di automobili, dall’utilitaria alla vettura sportiva, dalla berlina di lusso alla turbodiesel da viaggio: a grandi linee le strutture interne del funzionamento dei propulsori sono le stesse, così come sono gli stessi gli apparati che compongono le diverse strutture del corpo umano; quello che cambia radicalmente è la capacità di prestazione e di usura in relazione alle diverse sollecitazioni a cui sono chiamate a far fronte le 50 vetture o, nel nostro parallelismo, i 50 atleti.
                        Se il nostro obiettivo fosse quello di ottenere il miglior tempo in un circuito, è evidente che le auto sportive avrebbero il sopravvento poiché i criteri che sono alla base della loro progettazione si sono evoluti proprio per far fronte al meglio a tali sollecitazioni, sull’altro piatto della bilancia bisognerà accettare dei consumi specifici elevati ed una manutenzione rigorosa.
                        Se lo stesso utilizzo venisse fatto su altri tipi di vetture il risultato, oltre a non essere paragonabile in termini di prestazione pura, sarebbe quello di sollecitare a tal punto gli organi interni tanto da non ritenere improbabile la rottura o comunque la precoce usura di buona parte di essi.
                        Una situazione diametralmente opposta si otterrebbe se cercassimo di ottenere dalle nostre vetture elevate percorrenze chilometriche: se volessimo percorrere 100.000 Km in un anno, le prestazioni migliori in termini di affidabilità, comfort ed elasticità di marcia si avrebbero con le grandi berline o con le moderne turbodiesel, non certo con vetture sportive o utilitarie.
                        Tutti gli esseri umani costituiscono una unicità, ossia sono ognuno diverso dall’altro pur avendo la medesima struttura di base; essi si sono evoluti in milioni di anni sopravvivendo ed evolvendosi in modo da superare ostilità di ogni tipo (climatiche, ambientali, virali…) che hanno operato nel tempo una dura selezione naturale: solo i più forti, i più intelligenti e quelli che avevano la fortuna di sapersi adattare con maggior facilità alle mutate condizioni sono riusciti a sopravvivere e a riprodursi, trasmettendo alle generazioni successive le proprie capacità genetiche e permettendo al genere umano di evolversi.
                        Quello che noi oggi siamo non è altro che il frutto di centinaia di migliaia di anni di evoluzione e di affinamento delle capacità; il nostro organismo, il nostro sistema muscolare, quello immunitario, addirittura le nostre capacità cognitive e di ragionamento sono il risultato di un insieme bilanciato di sviluppo e di istinti primordiali (ancestrali) mediati dalle varie culture in cui siamo nati e cresciuti.
                        Anche l’equilibrio omeostatico in cui si trova il nostro organismo - garantito da milioni di reazioni chimiche che avvengono al suo interno – non sfugge a questa regola: si è sviluppato ed affinato nel corso dei millenni, garantisce la sopravvivenza ed è talmente duttile da adattarsi ad eventuali attacchi esterni di qualsiasi genere.
                        Quello che ci rende unici non sono tanto le reazioni chimiche in sé (pressappoco identiche in ogni individuo) ma la tipologia di equilibrio raggiunto nel complesso e, nello specifico, dall’equilibrio delle singole reazioni chimiche che lo compongono.
                        Supponiamo di avere la seguente reazione:

                        A + B = C + D in realtà essa è esprimibile in due modalità A + B ---> C + D oppure C + D ---> A + B

                        Una reazione chimica non è altro che una sorta di trasformazione che si realizza attraverso il riassetto e la ridistribuzione di una o più entità molecolari, con rottura e/o formazione di legami tra gli atomi che costituiscono la struttura molecolare. Una reazione può avvenire spontaneamente solo quando i prodotti risultano essere più stabili dei reagenti o, è la stessa cosa, quando i prodotti sono dotati di un contenuto energetico inferiore.
                        Il verso in cui la reazione chimica avviene non è però assoluto, ma la sua tendenza a compiersi in un senso o nell’altro è dipendente da diversi fattori legati principalmente alla natura degli elementi coinvolti, alle concentrazioni dei vari elementi, alla temperatura, a dati cinetici, termodinamici e alla presenza di eventuali fattori esterni (catalizzatori) che, pur non partecipando direttamente alla reazione stessa, possono favorirla o ostacolarla (abbassarne o aumentarne l’energia di attivazione).
                        In funzione della temperatura, esiste una costante K che, in relazione alla concentrazione dei reagenti e dei prodotti, stabilisce quando la tendenza che ha la reazione ad avvenire verso destra risulta uguale a quella che essa ha a compiersi verso sinistra: quando la concentrazione dei prodotti C e D risulta troppo alta in relazione a quella stabilita dalla costante K, la reazione non procede più verso destra anzi, se le condizioni energetiche globali lo permettono, tende ad avvenire nel verso opposto.
                        E’ chiaro che non bisogna pensare che questo discorso sia legato soltanto ad una singola reazione, infatti quelli che sono i prodotti (C e D) saranno a loro volta coinvolti in successive reazioni per costituire altri composti in una catena lunghissima che, alla fine, costituisce l’equilibrio globale della omeostasi.
                        Tutto questo discorso forse esula un po’ dall’obiettivo che ci siamo prefissi, ma serve comunque a far comprendere come un elemento esterno di disturbo – che può essere un ciclo intenso e/o voluminoso di allenamento – all’interno del nostro organismo viene interpretato come una specie di terremoto: dapprima il corpo reagisce facendo in modo di favorire il più possibile la reazione che serve a reperire l’energia necessaria all’impegno muscolare:

                        ATP -----> ADP + P + Energia

                        di riflesso, all’interno di tutte le strutture coinvolte, lo spostamento verso destra di questa reazione genera uno squilibrio che, a sua volta, innesca tutta un’altra serie ininterrotta di reazioni che hanno lo scopo da una parte di permettere all’apparato muscolare di continuare a rispondere alle sollecitazioni con la necessaria efficienza, dall’altra di reclutare l’energia necessaria da tutte le fonti possibili togliendone, se necessario, a quelle strutture che in quel momento non hanno richieste specifiche importanti.
                        Si tratta in sostanza di tutta una serie successiva di squilibri biochimici che fungono da motore per le prestazioni muscolari: se l’impegno atletico, di qualunque genere esso sia, si spinge ai limiti delle possibilità dell’atleta in quanto a volume globale e/o di intensità di lavoro e/o di frequenza degli stimoli, il corpo finisce per non riuscire più a far fronte all’impegno metabolico richiesto e man mano, con l’aumento delle concentrazioni di alcune molecole a discapito delle altre, il rendimento specifico del motore biologico decade sempre più sino ad annullarsi del tutto.
                        Già mi immagino le facce di molti di coloro che stanno avendo la pazienza di leggere tutto questo antefatto…comprendo come alla fine quello che interessa è capire cosa determina il cedimento quando siamo impegnati in una serie allo spasimo di Squat, quanto tempo occorre recuperare tra una serie e l’altra e, nella migliore delle ipotesi, quanto tempo deve passare tra una seduta di allenamento e l’altra e come si può evitare il superallenamento.
                        Quello che mi piacerebbe trasmettere a chi legge è che purtroppo è semplicistico pensare di risolvere un problema concentrandosi solo su un aspetto senza comprendere la natura generale, organica del fenomeno di cui si parla: l’argomento va principalmente compreso nella sua globalità, nelle sue regole generali di funzionamento; fatto ciò ci si può addentrare nelle sue manifestazioni particolari con una minima speranza riuscire a comprenderne e a prevederne i risultati.
                        L’argomento è dunque il decadimento delle capacità di prestazione dell’apparato muscolare nel breve e nel lungo periodo, intendendo per lungo periodo non tanto il cedimento da sforzi leggeri e prolungati (attività aerobica) – che esula momentaneamente dai nostri ipertrofici interessi – quanto il cedimento indotto attraverso la perdita delle capacità di recupero causato da sollecitazioni troppo intense, voluminose o frequenti.
                        E’ facile comprendere come il concetto di cedimento muscolare nel breve periodo sia di natura diversa rispetto a quello sul lungo periodo: nel primo caso si tratta essenzialmente dell’impossibilità da parte del nostro apparato muscolare di continuare a far fronte ad uno sforzo, nel secondo si tratta di una difficoltà organica a ripristinare in modo efficiente e ragionevolmente rapido l’equilibrio omeostatico in tutti gli apparati coinvolti nella contrazione muscolare.
                        L’analisi attenta delle modalità per le quali si può manifestare il cedimento muscolare ci aiuta a comprendere la natura dello sforzo a cui il nostro organismo è sottoposto durante le operazioni di recupero, ripristino e supercompensazione.
                        La prima cosa da sottolineare è che il cedimento muscolare (fatica) si può manifestare in forme diverse, interessando siti differenti a seconda del tipo di sforzo a cui ci stiamo sottoponendo: il cedimento che osserviamo effettuando una distensione massimale su panca è biologicamente diverso da quello che si ha effettuando una serie a sfinimento con il 70% del massimale, oppure durante una maratona.
                        Anche se la fenomenologia è la stessa, ossia la manifesta incapacità finale del muscolo di compiere ulteriore lavoro, le modalità e le cause dell’interruzione delle prestazioni sono differenti: possiamo pensare al nostro apparato motorio come una lunga catena formata da tanti anelli, tutti indispensabili al corretto funzionamento del sistema, dai sensori periferici di sforzo (fusi e organi del Golgi) al sistema nervoso centrale (SNC), dall’alfaneurone che trasmette lo stimolo alla placca motoria che lo recepisce, dalle diverse fibre muscolari alle miocellule che le compongono, dall’energia dell’ATP ai tre meccanismi di ricarica che la supportano…
                        La catena è lunghissima, ma ogni anello è collegato all’altro ed ognuno di essi, dal più piccolo al più grande, ha la medesima importanza per il corretto funzionamento dell’apparato motorio muscolare.
                        Il cedimento si manifesta quando la catena si rompe in uno qualsiasi dei suoi anelli; ciò si manifesta in relazione a sforzi di differente natura: potremmo quindi generalizzare facendo una iniziale suddivisione in:

                        a) Fatica Locale o Periferica: riferita alle caratteristiche contrattili ed energetiche del muscolo;
                        b) Fatica Centrale o Neuromuscolare: riferita al sistema di trasmissione degli impulsi motori.

                        Per far comprendere bene i meccanismi che sono alla base di questo complesso discorso, mi trovo costretto ad illustrare dei concetti che non sarebbe stata mia intenzione affrontare in questa sede diciamo “divulgativa”: a volte, per fare in modo che si riesca a capire meglio la natura di un problema complesso, si accettano delle semplificazioni, o meglio delle approssimazioni che, pur non rispecchiando a pieno la realtà delle cose, permettono una efficace schematizzazione e comprensione dei problemi. In altre parole è preferibile descrivere una realtà semplificata ma comprensibile da chi legge, piuttosto che riportare tutta la complessità di un argomento rischiando che il lettore non capisca nulla o quasi di quanto sta leggendo.
                        La stessa cosa succede agli studenti liceali e dei primi anni di parecchie facoltà universitarie con la chimica e la fisica: i testi riportano teorie e concetti ampiamente superati dai (neanche tanto) recenti studi. La teoria degli orbitali, della tavola periodica, la fisica gallileiana e newtoniana sono concetti ormai desueti nei trattati di chimica e fisica moderni, nonostante ciò tali schematizzazioni risultano utili per comprendere la natura generale di alcuni fenomeni e, cosa non da poco, permettono una semplice divulgazione. Se ad uno studente liceale ai primi anni si cominciasse a parlare di teorie quantistiche, di fotoni, a dire che la materia è un diverso tipo di manifestazione dell’energia o che il tempo non è assoluto…probabilmente finiremmo solo con il confonderlo senza permettergli di capire nulla.
                        Stavolta però mi concedo una deroga, sperando di riuscire lo stesso a mantenere un quadro sufficientemente chiaro del problema.
                        Ormai sono diversi mesi che scrivo su questo forum ed ho portato avanti argomenti variabili dal concetto di forza veloce e forza massimale a quello della struttura neuromuscolare e contrattile in relazione agli sforzi; per far ciò ho parlato di unità motorie, di impegno neuronale, di capacità contrattili, di ATP, di sistemi di ricarica ed altro fondando il mio discorso sul concetto di poter allenare la componente muscolare e quella neuromuscolare bilanciando in maniera opportuna carichi ed allenamenti.
                        Tale suddivisione in realtà non esiste, ma è una semplificazione che spesso si accetta per far comprendere gli schemi motori fondamentali: in realtà la parte neuronale e quella contrattile sono un tutt’uno inscindibile, nel senso che – pur essendo fisicamente distinte - si influenzano l’un l’altra attraverso tutta una serie di feed-back chimici in continua evoluzione.
                        Addirittura, sempre parlando di prestazione e fatica muscolare, non è neanche corretto affermare che l’ATP si esaurisce, infatti le sue scorte non scendono mai al di sotto del 50% del totale a riposo, neanche in caso di cedimento muscolare completo.
                        Questo per far comprendere come le diatribe che spesso si sentono sull’origine della fatica (centrale o periferica) non hanno un gran senso pratico: la fatica è sempre di natura organica, poiché il SNC e l’apparato muscolare sono in continuo dialogo tra di loro e modulano la loro azione in relazione alle possibilità del momento.
                        Molti esperimenti compiuti stimolando la componente neuronale, hanno dimostrato che le capacità di sostenere scariche di potenziali a frequenze anche particolarmente alte non varia in funzione del tempo: in pratica il sistema muscolare mostra segni di cedimento molto prima che questi si verifichino nel nervo.
                        Saremmo portati a dire quindi fatica periferica…
                        In realtà le cose non sono proprio così semplici, perché d’altro canto altri esperimenti hanno mostrato che esiste una progressiva ma costante diminuzione della scarica degli alfaneuroni durante lo sforzo prolungato; poiché questo, come abbiamo detto, non può essere attribuito all'esaurimento neuronale, è pluasibile pensare a qualche forma di informazione riflessa, di autoregolazione degli impulsi con cui il muscolo sotto stress riesce a modulare al risparmio l'attività del sistema motorio centrale.
                        In definitiva si pensa che esistano dei fenomeni di protezione attraverso cui il nostro organismo riesce ad ottimizzare l'attività neuromuscolare, adeguandola ai livelli di risorse energetiche disponibili ed al grado di tossine accumulate durante le reazioni chimiche di sviluppo di energia.
                        Proprio questo è l’aspetto saliente del problema: le reazioni chimiche che portano alla produzione di energia e, parallelamente, alla risintesi dell’ATP mediante i meccanismi anaerobico alattacido (CP), anaerobico lattacido (glicolisi) ed aerobico portano alla produzione di molecole di scarto (metabolìti) le quali, man mano che la contrazione si prolunga, aumentano sempre più la loro concentrazione nelle cellule muscolari.
                        Abbiamo visto che uno dei motivi fondamentali di blocco di una determinata reazione chimica, è proprio lo squilibrio delle concentrazioni tra reagenti e prodotti, in più sappiamo che il motore che porta alla contrazione muscolare è di natura elettrica. La contrazione muscolare intensa e prolungata porta, oltre che all’accumulo di metabolìti, ad uno squilibrio elettrolitico tale da modificare la conduzione elettrica e, in definitiva, il potenziale d’azione muscolare.
                        Quindi uno sforzo prolungato determina una progressiva intossicazione dei muscoli dovuta sia alle elevate concentrazioni di metabolìti, sia a squilibri elettrolitici di varia natura, dipendenti dalla tipologia e dalla intensità degli stimoli.
                        Possiamo così schematizzare tali squilibri elettrolitici:

                        a) Sbilanciamento degli ioni K+ ed Na+ tra l’interno e l’esterno della miocellula;
                        b) Difficoltà di regolazione del meccanismo di trasporto del Ca2+;
                        c) Diminuzione del Ph per accumulo di ioni H+;
                        d) Aumento della concentrazione di fosfato inorganico Pi;
                        e) Aumento della concentrazione di ammoniaca (NH3);
                        f) Deplezione del glicogeno muscolare;
                        g) Perdite idrichesaline.


                        Tutti questi fattori sono, nel loro complesso, responsabili del decadimento progressivo della capacità di compiere lavoro dell’apparato muscolare, attraverso un continuo abbassamento del grado di eccitabilità delle miocellule e dell’ampiezza e della velocità degli stimoli motori.
                        E’ chiaro che, per ragioni di semplicità e di congruità, mi limiterò a descrivere quei fenomeni che sono correlati all’insorgenza della fatica durante sforzi massimali o submassimali, ossia di quegli sforzi che sono caratteristici dell’attività nel bodybuilding.
                        Pensiamoci per un attimo mentre ci stiamo preparando psicologicamente ad affrontare un impegnativo set di squat: il bilanciere è caricato con l’80% del nostro massimale e siamo pronti ad eseguire una serie sino al completo esaurimento muscolare concentrico (circa 8 reps in 20-25 secondi di contrazione)…qualche piccolo colpetto di assestamento per bilanciare l’attrezzo ed eccoci fare il fatidico passo indietro, prima di partire con la prima ripetizione.
                        Quello che accade e le sensazioni che si provano in questo momento sono note a tutti noi così come, viste le tante parole spese sull’argomento, dovrebbero essere conosciuti anche i risvolti energetici e neuromuscolari che sovrintendono ad un impegno di questo tipo. Vediamo ora cosa accade all’equilibrio chimico all’interno delle miocellule.
                        Durante uno sforzo di elevata intensità e di breve durata si assiste, ad una notevole fuoriuscita di K+ (ione potassio) dalla membrana delle cellule muscolari verso l’esterno e, parallelamente, al passaggio di acqua e di Na+ (ione sodio) dall'esterno all'interno della cellula: ciò porta man mano ad una diminuzione della concentrazione di K+ e ad un aumento della concentrazione di Na+ all’interno della miocellula.
                        In pratica ogni singola contrazione muscolare intensa (ripetizione) finisce con il destabilizzare l’equilibrio ionico esistente tra l’interno e l’esterno della membrana della fibra muscolare, attraverso l’ingresso di acqua ed Na+ e, contemporaneamente, fuoriuscita di K+ (con un rapporto di circa 2:1 o 3:1 secondo alcuni).
                        Se i sistemi di riequilibrio messi in moto dall’organismo non sono in grado di far fronte allo scompenso con la necessaria efficacia, man mano che le ripetizioni si susseguono, viste le proporzioni del passaggio, si avrà un accumulo di Na+ all'interno maggiore dell'accumulo di K+ all'esterno; ciò si traduce in una diminuzione della negatività interna con conseguenze sfavorevoli sull'ampiezza e la velocità dei successivi stimoli, quindi delle successive contrazioni muscolari.
                        Infatti, se consideriamo che la contrazione muscolare in definitiva non è altro che l’effetto dell’insorgere di una differenza di potenziale elettrico tra l’interno delle unità motorie e l’esterno, possiamo interpretare il fenomeno dell’affaticamento muscolare non solo dal punto di vista (limitativo) dell’esaurimento energetico, bensì da quello globale della diminuzione di potenziale elettrico, che può scendere ad un valore di 8-14 mV dai 70 mV iniziali: la conseguenza ultima e più importante di questo aspetto è rappresentata dalla riduzione progressiva dell'eccitabilità cellulare nonché dell’ampiezza e dell’efficacia delle contrazioni.
                        Torniamo alla nostra serie di squat: 3-4-5 reps, la difficoltà ad eseguire ulteriori ripetizioni comincia a crescere sempre più…si crea una specie di effetto domino combinato: da una parte i meccanismi di scissione e risintesi dell’ATP cominciano a non essere più in grado di fornire l’energia necessaria per mantenere intatto il rendimento del motore, dall’altra l’aumento della concentrazione dei metabolìti e lo squilibrio ionico provocato dalle contrazioni penalizza sia l’efficienza dei sistemi di rifornimento energetico, sia ostacola il corretto ed efficace innesco della scintilla motoria.
                        Se a prima vista potrebbe sembrare che la progettazione del motore muscolare non sia stata ben calibrata, con il generarsi di azioni che finiscono con l’autopenalizzarsi a vicenda, osservando dall’ottica più globale di controllo ed autoconservazione, non possiamo non notare che un sistema di questo tipo ci consente da un lato di far fronte ad eventuali, intense sollecitazioni e dall’altro di fare in modo che l’intossicazione (e quindi i danni) da sforzo si ripartiscano equamente su diversi apparati organici, senza per questo risultare troppo onerosi o addirittura letali per nessuno di essi.
                        E a pensare che abbiamo descritto soltanto il punto a) di tutti i fenomeni imputati all’insorgere della crisi da sforzo.
                        Non starò qui ad entrare nei dettagli di tutti gli altri fattori che, chi più e chi meno, in dipendenza dell’intensità e del volume dello sforzo, portano comunque ad un calo di potenziale elettrico dell’unità motoria nel suo complesso.
                        Un fattore essenziale che, per diversi motivi che approfondiremo in altre sedi, non può essere trascurato consiste nell’aumento dell’acidità locale nei muscoli dovuta all’aumento della concentrazione degli ioni H+.
                        Se durante le prime 4-5 ripetizioni il sistema prioritario di risintesi dell’ATP è senz’altro quello che interessa la fosfocreatina (CP), quando lo sforzo inteso supera i 15" circa, la continuità dell'erogazione energetica è garantita dalla glicolisi anaerobica, un meccanismo metabolico in grado di fornire minori quantità di ATP nell'unità di tempo (potenza inferiore) rispetto al sistema del CP e che, come conseguenza, determina un accumulo progressivo di acido lattico con conseguente (scissione della molecola di acido lattico in lattato ed H+) aumento della concentrazione di H+.
                        Quindi durante le prime ripetizioni si avrà un accumulo di fosfato inorganico (Pi), dovuto sia alla scissione di ATP sia a quella della fosfocreatina CP, nonché l’inizio dello sbilanciamento elettrolitico K+/Na+; andando avanti con la serie diventa preponderante l’effetto negativo sulla prestazione muscolare dovuto all’aumento dell’acidità.
                        Ma perché l’aumento dell’acidità e, in parte, anche l’aumento del Pi ostacolano la contrazione?
                        Da alcuni studi effettuati pare che l’effetto sia duplice: da una parte gli ioni H+ produrrebbero un effetto negativo nei meccanismi di trasporto degli ioni calcio Ca++ tra il reticolo sarcoplasmatico ed il mioplasma, determinadone un aumento della concentrazione in quest’ultimo e quindi, in definitiva, ostacolando i fenomeni di contrazione e decontrazione delle unità motorie; da un’altra parte tale sbilanciamento della distribuzione degli ioni Ca++ ha come effetto anche quello di ridurre l’energia specifica dei legami tra actina e miosina, limitando lo slittamento di tali filamenti che è alla base fisica della contrazione muscolare e compromettendo quindi le possibilità di produrre una adeguata capacità di forza.
                        Il discorso si sta facendo troppo tecnico…lo so e me ne scuso, ma non disperiamo se non abbiamo capito proprio tutti i passaggi biochimici, l’importante è aver compreso il meccanismo generale del rapporto tra l’innesco delle contrazioni muscolari e l’insorgere della sensazione di fatica.
                        Siamo così giunti al termine della nostra intensa serie di squat: le scorte di CP si sono esaurite (in realtà non scendono mai al di sotto del 30%…) e parallelamente le fibre muscolari che compongono i quadricipiti si sono progressivamente arricchite di scorie metaboliche (Pi) ed il loro equilibrio elettrolitico è stato momentaneamente compromesso. Del resto, con un carico attorno all’80% del massimale, si assiste ad un consistente blocco della circolazione locale che non permette un sufficiente grado di smaltimento dei metabolìti e un seppur parziale riassetto elettrolitico.
                        Finchè ci limitiamo a considerare la singola serie, con un lavoro ben inquadrabile mediante la percentuale di carico utilizzata, risulta abbastanza semplice analizzare l’impatto metabolico e biochimico che questa determina all’interno della nostra struttura muscolare, per cui anche il concetto di “Carico interno” può essere compreso senza troppi problemi. Abbiamo visto che le caratteristiche fondamentali di una serie, dal punto di vista che chiameremo “esterno”, sono Volume, intensità e densità: nel nostro caso, supponendo un massimale di 200Kg, un carico dell’80% per 8 ripetizioni, uno spostamento medio di 60cm a reps, un tempo di esecuzione di 35 secondi ed un recupero medio di 2,5 minuti, avremo:

                        V = L = Kg x Reps x S =160 x 8 x 0,6 = 768 Nm
                        I = (Kg x Reps)/Max = (160 x 8)/200 = 6,4
                        D = Teff/Ttot = 35/(35 + 150) = 0,1892 = 18,92%

                        Che impatto hanno questi valori sul nostro organismo?
                        Il principio di equivalenza tra Lavoro ed Energia ci permette senz’altro di affermare che il Volume di lavoro sostenuto durante una sessione di allenamento deve necessariamente essere supportato da una spesa energetica da parte del nostro sistema muscolare: quindi l’organismo dovrà utilizzare una quantità di energia proporzionale al volume di lavoro svolto oltre a quella necessaria per attivare tutti gli apparati coordinativi e di equilibrio necessari ad interpretare correttamente la catena cinetica del movimento, variabile in funzione della complessità biomeccanica dell’esercizio eseguito.
                        Decisamente più articolato è il discorso sull’Intensità: se da un punto di vista “esterno” l’Intensità è riconducibile alla qualità della prestazione, intesa come bontà del lavoro svolto in relazione alle risorse disponibili in quel momento, dal punto di vista “interno” il concetto di qualità del lavoro non può essere tanto rapportato alla prestazione in sé, ma piuttosto alla traccia metabolica lasciata da lavoro stesso su quello che abbiamo stabilito essere il nostro obiettivo fisiologico da attaccare.
                        Qui occorre essere chiari e dunque cerco di spiegarmi meglio: se il nostro target, a livello macroscopico, fosse quello di portare a cedimento le capacità contrattili concentriche del maggior numero di unità motorie possibili, l’Intensità del lavoro svolto potrebbe essere espressa semplicemente come la percentuale delle fibre esaurite. Nulla però ci impedisce di andare più in profondità: abbiamo visto che il concetto di esaurimento delle capacità contrattili deve essere attribuito a tutta una serie di fattori che si autoinfluenzano, potremo allora ragionevolmente considerare come obiettivo la massima deplezione dei fosfati (CP) piuttosto che la massima acidificazione locale delle miocellule.
                        A questo punto le cose si fanno più complesse, per la difficoltà oggettiva di valutare l’impatto del lavoro svolto sulle riserve dei fosfati da una parte e sull’aumento della concentrazione degli ioni H+ dall’altra.
                        Alla luce di quanto abbiamo visto sulle logiche della comparsa della fatica, risulta abbastanza facile rendersi conto che, come per l’aspetto “esterno”, anche per quanto concerne l’impatto “interno” di uno stimolo, il concetto di Intensità sia un fenomeno inscindibile da quelli di Volume di lavoro e specificità dello stimolo (densità/frequenza): infatti un training definibile ad alta intensità rispetto alla deplezione dei fosfati (pesante e limitato nel tempo) dovrà essere considerato ad intensità bassa se il nostro obiettivo fosse l’esaurimento muscolare dovuto all’aumento dell’acidità locale.
                        Questo discorso, se consideriamo gli ultimi 15 anni di “letteratura culturistica”, può sembrare un po’ anomalo; infatti sinora il concetto di Intensità è sempre stato legato bene o male a quello del massimo esaurimento possibile delle riserve di fosfocreatina. Solo ultimamente si sono scoperte le proprietà anaboliche indotte dall’acidificazione muscolare e quelle istologiche del lavoro eccentrico e questo, oltre a dare un nuovo impulso alla ricerca, ci ha anche aiutati a dare un senso ai risultati ottenuti dalla cosiddetta “Scuola Francese”.
                        Gli alti volumi di lavoro di Nubret & company mal si conciliavano con il vecchio concetto di intensità (ATP/CP), tanto che qualcuno aveva addirittura ipotizzato una possibile ipertrofia a carico delle fibre rosse: in realtà resta sempre corretto affermare che solo le fibre bianche ed intermedie hanno la capacità di fare un lavoro forte e rapido poiché il loro metabolismo è essenzialmente anaerobico, quello che cambia il tipo di intensità generata in relazione all’obiettivo che, in questo caso, corrisponde all’esigenza della massima acidificazione locale e, solo secondariamente, l’esaurimento della fosfocreatina.
                        Sino ad una concreta prova contraria, il principio secondo cui sono solo le fibre bianche ed intermedie capaci di ipertrofizzarsi resta immutato, a patto che per ipertrofia muscolare intendiamo l'aumento delle proteine contrattili che formano i muscoli piuttosto che il modesto incremento di volume dovuto all'aumento di capillari, mitocondri e riserve di glicogeno.
                        In questo senso potrebbe avere dunque un senso considerare una intensità globale, riferita alla qualità del lavoro svolto per ottenere l’ipertrofia in generale, intesa come la sommatoria delle Intensità riferite ai singoli fattori influenzanti il fenomeno dell’ipertrofia nel suo complesso (deplezione del CP, aumento dell’acidità…).
                        Implicitamente questo ragionamento darebbe una risposta alla domanda posta da Eagle sull’influenza della velocità di esecuzione – in fase concentrica o eccentrica – delle singole ripetizioni sul calcolo dell’Intensità globale: aumentare il tempo di esecuzione non ha alcun effetto diretto sul valore assoluto dell’intensità ma al contrario, aumentando la densità dello stimolo, finisce col variare di molto la specificità dello stimolo stesso spostando l’enfasi sullo squilibrio elettrolitico piuttosto che sull’esaurimento energetico: l’intensità globale non cambia, a variare è la sua forma specifica.
                        Non è questo il momento di parlarne, ma esistono dei metodi di allenamento che sono in grado, attraverso un attento connubio tra abilità pratica e conoscenza fisiologica, di andare ad intaccare in maniera davvero profonda ed efficace i diversi aspetti interessati alla contrazione muscolare, arrivando ad intensità specifiche molto elevate.
                        Possiamo dire di aver descritto in maniera sufficientemente esauriente tutti quei fattori che, influenzandosi a vicenda, sovrintendono alla comparsa della fatica e, in definitiva, dell’impossibilità di proseguire nella contrazione muscolare.
                        Ognuno di questi fattori è in grado di lasciare sul nostro organismo una traccia di diverse dimensioni che, per essere cancellata o, nella migliore delle ipotesi, sovraccompensata necessita di un certo, variabile periodo di tempo e di opportune pratiche di recupero.
                        Generalmente più tale traccia è profonda, maggiore sarà il tempo necessario al completo ripristino, per cui occorre essere in grado di percepire l’importanza di non dover sempre e comunque massacrare un aspetto metabolico del sistema muscolare per poterlo allenare proficuamente: un programma strutturato di allenamento prevede sì dei metodi di alta intensità relativa,
                        riferita ai vari fattori metabolici via via interessati, ma nel cucirci addosso tale programma dovremo avere la destrezza di saper dosare tali ingredienti (metodi) come un bravo chef fa durante la preparazione di un piatto raffinato.
                        Penso di poter concludere qui questo mio lungo ma doveroso contributo; la prossima volta, esauriti ormai i fattori specifici dell’affaticamento, mi occuperò degli aspetti biochimici ed ormonali che sovrintendono il recupero vero e proprio, limitandomi ancora a considerare il decorso “naturale” di tale fenomeno, pur riservandomi in futuro di analizzare nello specifico l’interessantissimo e, per alcuni versi, fondamentale aspetto delle alterazioni apportate dall’utilizzo di specifiche sostanze esogene.
                        Ciao a tutti e grazie per la pazienza…
                        Luca.



                        QUESTI SONO ARGOMENTI VALIDI..


                        Cmq x quello che mi riguarda nella mia piccola esperienza, e che vale quasi per tutti .
                        Stabilire innanzitutto il periodo dell'anno in cui ci si allena a prescindere dai fattori esterni che possono influenzare la performance , partire da li per stabilire un volume atto a progredire l'ipertrofia , cioe' creare un equilibrio tra rischio e beneficio. Ossia stressare, ma non sotterrare muscoli e SNC ,
                        All'aumento dell'intensita' che io giudico con aumento dei carichi,
                        diminuire il volume ossia esercizi o serie o entrambi, prevedendo circa ogni 3 settimane una settimana di scarico parziale con il dimezzamento del volume o 5 giorni totale, cioe' mangiare pulito , ridurre leggermente le proteine e i carboidrati nel tardo pomeriggio , almeno x me per supercompensare e non aumentare di ritenzione idrica, e abbassare il caro amico cortisolo,
                        anche se non si hanno segni evidenti di surmenage.
                        L'importante e' lottare tra anabolismo e catabolismo, mantenendo
                        alto il primo.Per me natural un allenamento ad alto volume e' inteso sulle 25 serie totali a sessione 80-90% esercizio base, 75%gli altri.
                        da dicembre a febbraio bisogna giocare tra forza e richiami ipertrofia, mantenendo gli ormoni anabolici piu' alti con sessioni brevi e irruente e aumentando i grassi buoni- prostaglandine ottimo il metodo rest pause per la massima fase androgena.
                        In primavera ho il testosterone alle stelle e non mi pongo problemi perche ' non ho stalli nemmeno se non faccio uno scarico
                        per 3 mesi.Il mio problema li nasce che siccome ho la cute spessa
                        per definirmi e mantenermi denso faccio prove e prove continue per trovare la via giusta , ma ancora non ci sono riuscito del tutto senza efedra, e il mio scopo sarebbe riuscirci natural, anzi se avete consigli ne possiamo parlare, cmq non e' lo scopo del post.

                        So che e' poco ma da novizio vi do la mia opinione anche perche' mi sono sovrallenato spesso fino al non dormire la notte e avere le pulsazioni accellerate per giorni con i coglioni secchi, anche se in 3 anni aver messo 20 kg di magra non mi e' dispiaciuto..
                        Saluti e baci a tutti
                        w la fica e teniamo le palle sempre piene...

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                        • Piero Nocerino
                          Vip User
                          • Jan 2003
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                          ....Bravo,Cina!
                          E cosa mangi?E'utile per capire il perche' hai la pelle spessa....
                          Il mio Blog : http://piero.bodyweb.com
                          http://www.cromosoma6.com

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                          • Piero Nocerino
                            Vip User
                            • Jan 2003
                            • 7451
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                            Ha ragione Quaglia.....Ormai il muscolo "natural" e' considerato cristalleria...mezza serie in piu' e scatta il dramma del catabolismo.Cerchiamo di non esagerare;la sintesi proteica necessita di stimoli,non di sussurri...
                            Il mio Blog : http://piero.bodyweb.com
                            http://www.cromosoma6.com

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                            • CINA
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                              • Dec 2001
                              • 412
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                              Originally posted by Piero Nocerino
                              ....Bravo,Cina!
                              E cosa mangi?E'utile per capire il perche' hai la pelle spessa....
                              Ciao campione ...

                              Senza chiederti troppo , vediamo che ne esce fuori.

                              Colazione
                              1 scoop di destrosio + 20 gr whey
                              pisciatina, lavatina ,

                              5 albumi+4 gallette di riso(senza sale) circa 30 gr
                              3 cps omega 3 o 1 cucchioi di semi di lino

                              meta' mattina
                              100 gr di tonno al naturale
                              10 gr di olio extraverfine d'oliva
                              1 mela 150 gr

                              Pranzo

                              80 gr di riso integrale
                              150 gr petto di pollo
                              150 gr di spinaci
                              20 gr di olio extravergine

                              meta' pomeriggio
                              100gr di pane integrale
                              1 hamburgher (70 gr circa) di tacchino

                              dopo allenamento
                              20 gr di whey
                              15 di destrosio
                              5 gr glutammina 1,5 gr di creatina

                              cena
                              200 gr di merluzzo
                              lattuga 20 gr d'olio
                              1 manciata di mandorle

                              Questo e' un giorno tipo..
                              Il sabato tolgo il panino a meta' pomeriggio e mi schiatto una pizza anche se so che non dovrei farlo ,ma una botta di insulina ci vuole
                              Sono tutto orecchie anzi tutto occhi
                              Grazie mille
                              W piero il campione....

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                              • QuagliaE
                                Bodyweb Advanced
                                • Feb 2003
                                • 1297
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                                • Torino
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                                Originally posted by Piero Nocerino
                                Ha ragione Quaglia.....Ormai il muscolo "natural" e' considerato cristalleria...mezza serie in piu' e scatta il dramma del catabolismo.Cerchiamo di non esagerare;la sintesi proteica necessita di stimoli,non di sussurri...
                                E' quello che sostengo da sempre, finora quando leggo dei vari "tetti" oltre i quali i natural non dovrebbero andare mi stupisco per quanto siano modesti. Ultimamente sembra che si rischi il catabolismo anche solo *pensando* alla palestra...
                                Purtroppo il BBuilding sembra essere l'unica pratica sportiva che conta interi movimenti di persone che sostegono che con sforzi irrisori si possano ottenere ottimi risultati. Non c'è nemmeno da stupirsi, molte di queste mentalità seguono il passo degli spot per tute dimagranti, creme miracolo, elettrostimolatori dimagranti e via discorrendo.

                                Se è vero che il natural non può contare su prodotti anticatabolici e spinte varie, è altrettanto vero che l'allenemento di quest'ultimo dovrà pur creare un condizionamento muscolare e uno stimolo *concreto*.

                                I discorsi sul catabolsimo e del sovrallenamento tengono banco nei forum, tuttavia vedo molte più persone a rischio di "sovracazzeggiamento" che altro. Su questo però non si discute mai, probabilmente perchè tutti sono sempre convinti di aver fatto abbastanza e la moda sembra essere quella di definirsi hardgainer a tutti i costi.

                                Sarà che ci sono delle provvigioni e sono l'unico a non saperlo?

                                Saluti,
                                Enrico Quaglia
                                SPORTIME Fitness Center - Pinerolo
                                Vice Campione Italiano Natural AINBB-FIF pesi massimi

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