Stimolare, esaurire e... andare in riserva!

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  • IronPaolo
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    Stimolare, esaurire e... andare in riserva!

    A tutti noi palestati piace parlare di pesi e carichi. Meno dei meccanismi che stanno alla base del mantenimento della prestazione muscolare: possiamo sollevare dei pesi per un tempo limitato, c’è una relazione fra carico spostato e numero di ripetizioni sostenibili.

    Tutti sappiamo della presenza dell’acido lattico che paralizza i muscoli, molto spesso lo ricerchiamo. Ma… cosa è? In generale, cosa è la fatica?

    In questo articolo parleremo dei metabolismi energetici, i meccanismi che forniscono benzina ai nostri muscoli. Solitamente, questa è roba ben pallosa. Il ciclo di Krebbs, di Cori, reazioni chimiche a piene mani.

    In più la trattazione non è mai specifica per chi va in palestra e poche volte viene fatta una distinzione fra la fatica che si prova in un 3×3 di panca alla morte con 5’ di recupero e un 1×20 di squat.

    Non che io sia un chimico, ma cercherò di dare un’idea di quello che succede all’interno del nostro corpo

    Una benzina, molti serbatoi


    Il disegno sopra riportato mostra la benzina del nostro organismo, l’ATP o adenosintrifosfato che abbiamo incontrato nella contrazione muscolare: l’ATP è caratterizzato da una struttura complicata con una catena di gruppi fosforici, i cerchietti con la P, i cui legami contengono energia. Questa energia viene ceduta alle teste di miosina quando un legame si scinde, creando ADP, adenosindifosfato, e Fosforo.

    L’ATP risulta perciò fondamentale per contrarre i muscoli, è la benzina del nostro corpo. La domanda è: chi è il benzinaio?

    Il corpo umano è molto efficiente nella sua lotta alla sopravvivenza, e mette a disposizione di se stesso diverse strategie, basate sulla rapidità e sulla potenza con cui può risintetizzare l’ATP. I modi con cui questo avviene vengono definiti metabolismi energetici e possono essere visti come dei serbatoi da cui attingere ATP.

    L’ATP libero nei muscoli è infatti così scarso che è sufficiente solo per un movimento massimale massimale di pochi decimi di secondo e se non esistesse un meccanismo di fornitura di questa sostanza, sarebbero impossibili i più semplici gesti prolungati.

    Metabolismo anaerobico alattacido

    Questo modo di produrre ATP avviene in assenza di ossigeno, anaerobico, e senza produzione del famoso acido lattico, alattacido.


    Nei muscoli è presente il creatinfosfato, CP, che si scinde in creatina e in fosforo P. Il fosforo a sua volta verrà utilizzato per sintetizzare, a partire dall’ADP, nuovamente l’ATP.

    Questo serbatoio fornisce benzina, ATP, in maniera pressochè istantanea, però si esaurisce in una manciata di secondi. In letteratura a seconda degli studi troverete 5, 8, 13 secondi, ma comunque “pochi secondi”. Tanta energia, movimenti rapidi e potenti, ma per poco tempo.

    Una domanda interessante a cui risponderemo in seguito: ma una volta esaurito, come viene reintegrato? Oltre ai serbatoi che forniscono benzina, deve esistere anche un modo per riempire nuovamente questi serbatoi!

    Metabolismo anaerobico lattacido

    Questo modo di produrre ATP avviene in assenza di ossigeno ma con produzione di acido lattico.


    Il glucosio, uno zucchero presente nel sangue o nei muscoli sotto forma di una sostanza chiamata glicogeno, si scinde in assenza di ossigeno in ATP e un’altra sostanza, chiamata acido piruvico che, a sua volta, sempre per mancanza di ossigeno, forma l’acido lattico.

    La reazione del disegno è estremamente semplificata, direi da bambini. Stiamo parlando di cascate di reazioni chimiche, ma l’elemento fondamentale è che il processo, avvenendo in assenza di ossigeno, risulta incompleto.

    L’assenza di ossigeno impedisce alla reazione di “bruciare completamente” tutti i possibili scarti, per fare un azzardato parallelo è come un motore che produce ossido di carbonio invece di anidride carbonica perché la miscela d’aria è insufficiente o la reazione è troppo veloce per l’ossigeno disponibile.

    L’acido lattico, perciò, e una specie di scarto metabolico che, come si suol dire, va ad “intossicare” i muscoli.

    Perciò queste reazioni portano ad una grande produzione di energia, superiore a quella del metabolismo anaerobico alattacido, sebbene con più lentezza a mettersi in moto.

    Metabolismo aerobico

    L’ultimo tipo di serbatoio che ci interessa, e che al palestrato piace meno.


    Il glucosio in presenza di ossigeno “brucia” completamente senza alcun tipo di scarto: vengono prodotti ATP, acqua ed anidride carbonica. Anche in questo caso, le reazioni sono tantissime e complicate.

    Il metabolismo aerobico è capace di sostenere il movimento per un tempo indefinito, attingendo al glicogeno muscolare, epatico, agli zuccheri del sangue o ai grassi che vengono a loro volta scissi in componenti sempre più semplici per arrivare al glucosio.


    Il grafico sopra riportato mostra il perché dell’esistenza di questi tipi di reazioni: la disponibilità indica quante molecole di ATP possono essere prodotte da ogni meccanismo energetico, la velocità indica proprio la rapidità con cui questi ATP possono essere prodotti, diciamo la potenza della reazione.

    Le unità di misura sono le millimoli e le millimoli al secondo, ma per quello che ci riguarda è importante il confronto relativo e possiamo lasciare queste unità di misura ai chimici dato che siamo dei barbari palestrati: se il meccanismo anaerobico alattacido fornisce poca energia, la fornisce in maniera ben più rapida del metabolismo anaerobico lattacido che, a sua volta, è più veloce del meccanismo aerobico che porta il glicogeno a bruciarsi completamente in CO2 e acqua.

    Viceversa per le disponibilità di ATP prodotti, con una reazione aerobica con utilizzo di grassi che ha una disponibilità quasi 50 volte superiore a quella che utilizza il glicogeno, infatti la barra va fuori scala.

    L’efficienza del corpo umano è incredibile e, sulla base dei vari sforzi, butta benzina nel motore attingendo da vari serbatoi.

    Tutto insieme

    Qualsiasi sforzo facciamo, che sia correre per prendere il treno o sollevare dei pesi, alla fine abbiamo sempre il fiatone se questo sforzo è minimamente intenso e prolungato. Il fiatone è il modo con cui l’organismo cerca di introdurre più ossigeno nel nostro corpo perché significa che quello normalmente utilizzato non è sufficiente per le reazioni interne: si parla in questo caso di debito d’ossigeno.

    E’ importante sottolineare che queste reazioni non avvengono a comparti, come gli stadi di un razzo, ma nel tempo si sovrappongono in funzione del tipo di sforzo. Faccio una serie di esempi che riguardano una volta tanto la palestra e non la bicicletta o la corsa.


    Le barrette indicano una ripetizione “impegnativa” in un dato esercizio, supponiamo nello squat. Il lavoro è un 3×1 con ampio recupero. Una ripetizione di squat dura circa 5 secondi, il metabolismo interessato è quello anaerobico alattacido: di sicuro non si sperimenta bruciore durante un 3×1 con 5 minuti di recupero eh…

    Durante la ripetizione la reazione è quella in alto, dove il CP “brucia” per fornire ATP: i livelli di CP scendono. Durante il recupero, però, il CP viene risintetizzato secondo la reazione inversa sotto riportata, che inizia con l’ATP. Ma… chi lo fornisce questo ATP durante il recupero?

    Provate un 10×1 o un 20×1 con un bel recupero: dopo 4 o 5 singole iniziate ad avere il fiatone. Perciò, se durante l’esecuzione delle singole usate il metabolismo anaerobico alattacido, il vostro corpo ha anche fatto partire le altre reazioni. Quali che siano, se aerobiche o lattacide o un mix dei due è poco importante, mentre è fondamentale che comprendiate la contemporaneità dei meccanismi energetici.

    Queste reazioni producono ATP che può essere utilizzato subito o può servire per far tornare l’organismo in equilibrio. Durante il recupero iniziate a produrre da subito acido lattico per produrre ATP per risintetizzare il CP.

    Se lo sforzo non è intenso e il recupero ampio l’acido lattico viene a sua volta bruciato tramite l’ossigeno che respirate normalmente, o quasi. La sensazione “da acido lattico” non è percepita, ma ciò non significa che non sia prodotto.


    Questo è quanto accade in un lavoro a singole impegnative con recupero completo: l’acido lattico inizia a crescere poiché per fornire l’ATP consumato, necessario per creare nuovo CP, il glicogeno viene bruciato in maniera anaerobica. Ad un certo punto si raggiunge un equilibrio.

    L’acido lattico nei muscoli si scinde in due componenti: ioni lattato, LA-, e ioni idrogeno, H+. Per essere precisi, acido lattico e lattato sono sinonimi, ma in realtà stiamo parlando di due cose diverse.

    Gli ioni LA- e H+ dalle fibre prodotte si riversano in altre fibre e nel sangue. La “tossicità” dell’acido lattico è data dalla sua “acidità”, cioè dallo ione idrogeno che va ad interferire con certe reazioni della fibra che vedremo, rendendo la contrazione sempre più difficile.

    L’acidità si misura in termini di concentrazione di ioni, con un indicatore detto pH: per quello che ci riguarda, un valore di pH pari a 7 indica una situazione neutra, valori inferiori indicano acidità. Nella cellula sono presenti dei meccanismi per compensare l’incremento di acidità, mentre lo ione lattato viene a sua volta recuperato.


    In questo senso il lattato è un metabolita energetico: può essere riutilizzato per produrre glicogeno, oltre che ad essere bruciato tramite l’ossigeno, cioè ossidato. L’ossidazione avviene nelle fibre muscolari che lo hanno prodotto, in quelle attigue, in quelle non impegnate, nel cuore, nei reni.

    Perché questa ossidazione avvenga è necessario ossigeno, perciò inizia il fiatone, anche se stiamo parlando di singole con 4 o 5 minuti di recupero.
    Quando i meccanismi tampone dell’acidità non ce la fanno più o l’intero ambiente esterno alla fibra che ha prodotto l’acido lattico è ugualmente acido, la concentrazione di ioni H+ è tale per cui l’acidità scende sotto un valore tale che le contrazioni muscolari si arrestano.

    Non è il caso dell’esempio prodotto, poiché in un lavoro anche in 20×1 non si ha mai la sensazione “da acido lattico” ma proviamo un tipo di stanchezza diverso, una specie di “stordimento di testa”.


    Questo invece è il caso in cui viene diminuito il recupero fra le singole ripetizioni, diciamo da 4-5 minuti a 30-45 secondi: il CP non viene tutto risintetizzato perciò ad un certo punto si esaurisce ed entra in gioco esclusivamente il metabolismo anaerobico lattacido. Durante le pause il lattato viene ossidato ma non viene smaltito del tutto, come gli ioni H+ che non sono tamponati completamente. L’acidità delle fibre aumenta, come il fiatone per ossidare il lattato, ad un certo punto si raggiunge il livello di acidità che crea la paralisi muscolare. Fine dei giochi.


    Nella situazione in alto fra i gruppi di singole vi è un recupero completo che elimina tutto l’acido lattico e ristabilisce tutto il creatinfosfato: è possibile riprendere ad allenarsi. Viceversa, in basso un recupero incompleto che porta il secondo gruppo di singole ad essere composto da meno ripetizioni.

    Estendete il concetto considerando un gruppo di singole come una serie di più ripetizioni e avremo che il caso in alto è un 2×7 a cedimento, quello in basso un 7-5. Perciò, o recuperate completamente, oppure scalate le ripetizioni, oppure se volete mantenere le ripetizioni scalate il carico.

    E’ importante sottolineare che gli allenamenti in palestra sono di tipo impulsivo: stimolo, recupero. Una serie, per quanto prolungata, ha una durata dell’ordine di 30” o meno, con delle pause. I metabolismi interessati sono perciò in pratica quelli alattacido e lattacido durante le singole serie.

    Il metabolismo aerobico entra in gioco durante l’intera seduta, insieme ai meccanismi di fornitura ossigeno per ossidare l’acido lattico.

    Una nota sui consumi energetici

    La natura impulsiva dell’allenamento con i pesi crea molta confusione quando vengono misurati i consumi energetici per ora di attività in palestra. Troppa variabilità che impedisce una chiara misura. Attività come corsa e bicicletta, invece, basate sulla velocità, pendenza, pulsazioni del cuore, permettono di correlare in maniera più precisa i consumi ad altri parametri vitali.

    Attività come la bicicletta su percorsi a pendenza variabile oscillano fra l’aerobico e l’anaerobico lattacido: salita, produco acido lattico, percorso pianeggiante, lo smaltisco. Contemporaneamente il metabolismo aerobico continua a fornire l’energia necessaria al mantenimento del passo.

    Per l’impulsività e la variabilità degli schemi di allenamento la ricerca sui sistemi energetici in palestra è sempre difficoltosa e difficilmente è possibile trovare studi che siano facilmente trasferibili al nostro mondo.

    Una sensazione di insoddisfazione

    Ho sempre trovato la descrizione dei meccanismi energetici come “scolastica” e non soddisfacente: una specie di lezioncina che va bene per tutti, senza che rispondesse alle domande interessanti: c’è differenza fra uno squat in 3×3x90% o in 1×20? Perché sono “stanco” in maniera differente? Chiunque sa che se l’acido lattico ha un ruolo primario in un 1×20, di sicuro non ce l’ha in un 3×3x90% con 10 minuti di recupero! Per quale motivo?

    Il problema è che gli studi sulla fatica sono incentrati sugli sport dove la fatica è massima, quelli di endurance, dove l’acido lattico scorre a fiumi, il grasso brucia allegramente e il glicogeno si consuma come candele accese.

    Viceversa, attività brevi e impulsive, intervallate da recuperi anche ampi, dove è necessario mantenere una certa forma esecutiva, sono più “di fino” e la semplice spiegazione con i metabolismi energetici è limitante. Per affrontare l’argomento “fatica” è però necessario farsi un po’ di palle con spiegazioni e concetti complicati. Del resto la fatica insorge quando sottoponiamo il nostro corpo, tutto, ad uno stress: per capire la fatica è necessario sapere quali elementi andiamo a stressare.

    Ancora sulla contrazione muscolare

    Sono stato indeciso fino all’ultimo sull’inserimento di questa parte, complicata per una trattazione per chi va in palestra e vuole solo diventare grosso sbattendo pesi verso l’alto, ma se siete i tipi che ingurgitate tonnellate di integratori tipo Polase, sali di Magnesio e Potassio, roba per la fatica, dovreste sapere a che cacchio servono, e su cosa agiscono, no?


    Oramai sappiamo che le fibre muscolari si contraggono perché i filamenti di miosina scorrono su quelli di actina, grazie all’ATP come carburante. La contrazione inizia con una “scossetta” da parte del motoneurone che “tocca” con la placca motrice la fibra muscolare. Dobbiamo approfondire questo meccanismo!

    Una fibra muscolare è avvolta da una membrana chiamata sarcolemma, una specie di guaina che avvolge le miofibrille. Le miofibrille sono “a bagno” nel sarcoplasma, un fluido intracellulare che permea le fibre contenente le sostanze nutritive di cui le miofibrille necessitano.

    Le singole miofibrille sono avvolte con un reticolo sarcoplasmatico, una complicata struttura che in precise posizioni ha dei punti di raccolta, dei veri e propri serbatoi che contengono ioni Calcio, CA2+ (uno ione è una sostanza con carica elettrica, positiva o negativa che sia, nel caso del Calcio una doppia carica elettrica positiva, da cui il 2+) Per quello che ci interessa il reticolo sarcoplasmatico è un insieme di condotti capaci di veicolare il Calcio dai propri serbatoi dentro le miofibrille.

    Sarcolemma e reticolo sarcoplasmatico sono collegati con ulteriori strutture chiamati Canali T, che possono essere schematizzati come dei condotti che scorrono dall’esterno del sarcolemma verso l’interno lungo le miofibrille, con punti di contatto con il reticolo sarcoplasmatico.


    Il disegno sopra riportato illustra la disposizione dei canali T sulla superficie della fibra muscolare. Complicato? Non avete ancora visto niente e considerate che per ogni frase che ho scritto ci sono risme di carta da studiare in dettaglio.


    Che ne dite di questo? Un dettaglio della placca motrice per spiegare cosa accade quando arriva un impulso nervoso:
    • L’impulso nervoso che scorre sull’assone arriva fino alla placca motrice. Per adesso immaginatevi una piccola scossa elettrica
    • L’impulso innesca una serie di reazioni chimiche dentro la placca che portano ad assorbire ioni calcio, CA2+, ontenuti nel sarcoplasma che è per questo che viene definito come il fluido necessario al funzionamento della fibra muscolare.
    • Il Calcio attiva a sua volta il rilascio dell’acetilcolina sul punto di contatto della placca con la fibra, in speciali posizioni chiamate vescicole sinaptiche.
    • L’acetilcolina permette la variazione della concentrazione di Sodio e Potassio per far partire un potenziale d’azione lungo la superficie del sarcolemma
    Ok, un altro piccolo sforzo, non l’ultimo però. Il sarcolemma è polarizzato, è presente cioè una tensione elettrica, un voltaggio, come una pila. Questo è dovuto alla presenza di cariche elettriche sotto forma di ioni: Nel disegno trovate le diciture [Na+][K+], che indicano le concentrazioni dello ione Sodio, Na+, e dello ione Potassio, K+.


    Sodio e Potassio sono presenti sia all’interno che all’esterno del sarcolemma, sulla superficie. Però per un giochetto di concentrazioni l’esterno risulta più “positivo” dell’interno e complessivamente il sarcolemma ha una carica esterna positiva.

    L’acetilcolina ha la capacità di invertire localmente la polarità, come nella figura in alto a destra sempre nel disegno precedente: il sarcolemma diventain pratica “negativo” all’esterno (o meglio, meno “positivo” della condizione a riposo) e “positivo” all’interno. Senza entrare nel dettaglio, questa condizione ha la capacità di propagarsi lungo tutto il sarcolemma, che diventerà “negativo” in un tempo rapidissimo dell’ordine di 1 millisecondo: la carica elettrica negativa si propaga come un’onda velocissima, e questa carica elettrica viene definita potenziale d’azione.

    Una volta che il potenziale d’azione si è propagati si instaura nuovamente la condizione di partenza. Il potenziale d’azione è perciò definito come una corrente elettrochimica dovuta alla variazione della concentrazione di ioni.
    Il meccanismo descritto è assolutamente identico a quello che genera l’impulso elettrico in uscita dal nucleo del neurone e che viaggia sull’assone per comandare la contrazione della fibra! Sempre un potenziale d’azione!


    Ok, gran casino ma… a che serve questo potenziale d’azione? Ecco un altro criptico disegnino! Il potenziale “scorre” sulla fibra, e penetra dentro attraverso i famigerati Canali T. All’interno dei Canali T l’impulso attiva la diffusione degli ioni Calcio contenuti nei serbatoi del reticolo sarcoplasmatico dentro il sarcoplasma e le miofibrille.

    Gli ioni calcio sono necessari per la contrazione muscolare, e rimangono all’interno delle miofibrille fino a che è in atto il potenziale d’azione. Poi gli ioni vengono recuperati per tornare all’interno dei serbatoi.

    Lo so che sembra impossibile che funzioni così, ma… funziona così. A questo punto vi chiedo l’ultimo sforzo, perché deve essere spiegato a cosa serve il fottuto calcio che viene diffuso all’interno delle miofibrille.

    Sappiamo che l’ATP è il carburante che permette lo scorrimento delle fibre. Permette alla miosina di scorrere sull’actina. L’ATP è però libero all’interno delle miofibrille, perciò la miosina scorrerebbe sempre sull’actina e le fibre muscolari sarebbero sempre contratte: deve esistere un meccanismo che impedisce lo scorrimento quando questo non è richiesto.


    Per quanto vi possa sembrare complicato lo schema della miosina e dell’actina che ho presentato in precedenza, in realtà mancano alcuni pezzi fondamentali: come illustrato nella figura a sinistra del disegno precedente, sull’actina “scorrono” due ulteriori proteine, la tropomiosina e la troponina che costituiscono i “lucchetti” allo scorrimento.

    Nella figura a destra una sezione dove sono presenti l’actina al centro e le teste della miosina dalle parti. Sull’actina sono presenti dei siti di aggancio della miosina. Questi siti sono “coperti” dalla tropomiosina che, a sua volta, è “avvolta” dalla troponina. In questo modo la miosina non può venire a contatto con l’actina e la contrazione non risulta meccanicamente possibile. La troponina può legarsi con gli ioni calcio, come indicato nel disegno. Se la concentrazione di questi ioni non è elevata, non succede nulla.


    Ma… ecco che arriva una bella iniezione di ioni Calcio dai serbatoi del reticolo sarcoplasmatico, grazie al potenziale d’azione: questi si legano con la troponina come nella figura a sinistra e quando la concentrazione risulta sufficientemente elevata attivano una reazione per cui la troponina “ruota” e fa spostare la tropomiosina, come nella figura al centro. A questo punto la tropomiosina non copre più i siti di aggancio della miosina che può così attaccarsi all’actina, iniziando la contrazione muscolare.

    Fino a che ci sono ioni calcio a sufficienza, la contrazione permane. Quando il potenziale d’azione cessa e gli ioni calcio vengono risucchiati nei propri serbatoi, la troponina ruoterà in senso inverso e i lucchetti si chiuderanno di nuovo. No Calcio, No Party, sorry!
    Fiuuuu… finita. E’ stato difficile, capisco. Però adesso abbiamo gli elementi per capire cosa sia la fatica.

    La fatica

    La fatica è un concetto tanto comune quanto difficile da definire, dato che esistono tantissimi tipi di fatica, definiti con aggettivi differenti. Una definizione generica ma al contempo precisa per la fatica nel campo dell’allenamento, o in generale delle attività che richiedono un impegno fisico, è data dall’incapacità di mantenere il lavoro da svolgere all’intensità richiesta.


    Il disegno sopra riportato descrive tutta la catena che genera un movimento. E’ questa catena che, a causa del movimento ripetuto nel tempo, è soggetta a fatica ed è per questo che è stato necessario definire tutti gli elementi in gioco. L’effetto finale della fatica è impedire lo scorrimento della miosina sull’actina: meno scorrimenti, meno contrazioni muscolari, il movimento non può essere mantenuto come vogliamo.

    E’ possibile dividere la fatica sulla base delle strutture interessate: una fatica periferica dovuta al “malfunzionamento” temporaneo dei motoneuroni o di quello che è a valle di esse e una fatica centrale dovuta all’incapacità del Sistema Nervoso Centrale di inviare gli impulsi corretti.

    La fatica periferica causa fatica centrale, con molte sfumature. Studi mettono in evidenza come una fatica periferica protratta nel tempo porti ad una fatica centrale cronica con l’alterazione dei livelli dei neurotrasmettitori nel cervello, con possibilità di overtraining e depressioni. Ma questo è un effetto cronico della fatica, in questo momento stiamo analizzando l’effetto acuto e temporaneo.

    Un movimento continuato nel tempo mette sotto pressione le reazioni elettrochimiche del nostro organismo, alterando la concentrazione degli ioni.

    Alterazione dei meccanismi contrattili

    Come abbiamo visto, una causa di fatica è dovuta all’esaurimento delle scorte di ATP, Creatinfosfato, glicogeno. Banale: finisco la benzina da tutti i serbatoi, mi fermo.

    Le reazioni metaboliche di fornitura dell’ATP creano, nel tempo in cui permane il movimento, delle condizioni di squilibrio elettrolitico: uno squilibrio della concentrazione delle cariche elettriche interne alla fibra, in questo caso degli ioni.

    Questi squilibri portano all’impossibilità di proseguire il movimento anche se la benzina è comunque presente. La tossicità dell’acido lattico è un esempio: il metabolismo anaerobico lattacido porta ad un accumulo di ioni H+ e incremento dell’acidità all’interno delle miofibrille. Gli ioni H+ hanno la capacità di interferire con gli ioni Calcio necessari per la “rotazione” della troponina, perciò le contrazioni possibili diminuiranno. La presenza di acido lattico perciò fa diminuire la forza anche se non si arriva alla classica sensazione di “stop”.

    La scissione di ATP in ADP e Fosforo durante la contrazione porta all’aumento della concentrazione di Fosforo che ha la capacità di stimolare la scissione di glucosio per produrre ATP, ma allo stesso tempo è un inibitore della contrazione delle fibre.

    Ipossia

    Un altro elemento fondamentale nella fatica è la mancanza di ossigeno o ipossia. Le contrazioni muscolari “strizzano” i capillari presenti nei muscoli e impediscono al sangue di affluire correttamente, creando una situazione in cui l’ossigeno non può arrivare ai muscoli. Questo è tipico sia degli esercizi statici o eseguiti in maniera molto lenta, sia di quelli a elevata durata dove i muscoli devono rimanere contratti per molte ripetizioni.

    Non arrivando ossigeno, non è possibile ossidare l’acido lattico o iniziare i meccanismi aerobici.

    Alterazione dei meccanismi elettrici

    Il potenziale d’azione che scorre lungo il sarcolemma è dato dalla variazione delle concentrazioni di Sodio e Potassio. Il Sodio “scorre” dentro i Canali T per il rilascio del Calcio dai serbatoi del reticolo sarcoplasmatico: il Sodio rimane “intrappolato” nei Canali T e il segnale elettrico inizia a degradare. A questo punto la concentrazione di Calcio dai serbatoi decresce non permettendo di mantenere il solito livello di contrazione.

    La variazione della concentrazione di Sodio porta ad una impossibilità del mantenimento del potenziale d’azione sul sarcolemma, petanto anche se la placca motrice invia impulsi, questi non si propagano correttamente sul sarcolemma. Senza questi segnali la contrazione delle miofibrille non può iniziare.

    Anche la placca motrice ha un limite nella trasmissione di acetilcolina per iniziare il potenziale d’azione, pertanto ad un certo momento il punto critico diventa proprio la giunzione neuromuscolare che è impossibilitata ad instaurare un potenziale d’azione.

    Infine, i segnali elettrici che scorrono sugli assoni dei vari motoneuroni sono dovuti a variazione della concentrazione di Sodio e Potassio, perciò alla fine anche questo meccanismo si esaurisce e la fatica diventa di tipo nervoso-periferico: i motoneuroni non sono più in grado di mantenere i treni d’impulsi necessari per la contrazione muscolare.

    Fatica centrale

    Risalendo verso la spina dorsale e il cervello i meccanismi di fallimento elettrochimico sono gli stessi, ma è molto più difficile stabilire il punto di contatto fra fatica “fisica”, cioè veicolata da precise alterazioni elettrochimiche, e “mentale”, cioè dovuta a “sensazioni”.

    Uno scenario

    Quale è la differenza fra uno squat 1×20 e uno in 3×3x90% con ampi recuperi? Proviamo ad immaginare i due scenari.

    Squat 1×20


    Le fibre coinvolte sono una parte del totale che compongono i muscoli coinvolti dato che il carico è lontano dal massimale.

    Poiché non tutte le fibre sono coinvolte contemporaneamente, vi è anche una alternanza di segnali elettrici e dei potenziali d’azione, come mostrato in figura. Un minor coinvolgimento dei meccanismi responsabili della generazione dei segnali elettrici permette di posticipare la fatica di tipo “nervoso”.

    La durata dell’esercizio è tale per cui lo stop è dato essenzialmente dall’acido lattico che con i suoi ioni H+ “intossica” le fibre muscolari interferendo con gli ioni Calcio necessari alla contrazione muscolare.

    L’acidità raggiunge un livello tale per cui lo stop è dovuto all’interruzione del normale funzionamento dei meccanismi contrattili interni alla fibra.

    Questo tipo di esercizio, infatti, non è “difficile” nell’esecuzione dei singoli movimenti, ma nel perseverare nel proseguimento delle ripetizioni, vincendo la “fatica” nel senso più letterale del termine. Il fiatone che caratterizza questo tipo di esercizio durante la sua esecuzione è proprio dovuto alla necessità di ossidare ingenti quantitativi di acido lattico che deborda dalle fibre nei tessuti circostanti e nel sangue.

    Squat 3×3x90%

    Le fibre coinvolte sono quasi la totalità, comprese quelle a soglia di attivazione più alta che necessitano di segnali elettrici molto più intensi.


    Essendo coinvolte praticamente tutte le fibre muscolari non è possibile una alternanza come nel caso precedente, perciò ogni motoneurone, ogni giunzione sinaptica e ogni sarcolemma deve attivarsi ad una frequenza maggiore del caso precedente.

    Per la natura stessa del lavoro l’energia è fornita dal metabolismo anaerobico alattacido che è sufficiente al compimento del lavoro. In questo caso è il meccanismo di generazione dello stimolo elettrico che va in crisi, proprio perché è questo che viene stressato: forti impulsi elettrochimici richiedono di mantenere inalterate le concentrazioni di Sodio, Potassio, dei vari neurotrasmettitori e del Calcio extracellulare.

    In più, rispetto al caso precedente, vengono utilizzate fibre che richiedono impulsi neurali più “potenti”, perciò lo stress elettrico è sicuramente più intenso. L’elettromiografia mostra che i segnali elettrici nel tempo vanno a decrementarsi, a dimostrazione che i motoneuroni non riescono a mantenere i necessari treni d’impulsi.

    Fatica centrale


    I due esercizi terminano perciò per motivi diversi: fatica “metabolica-contrattile” nel primo caso, fatica “neurale-elettrica” nel secondo caso. Queste “fatiche” risalgono indietro verso il cervello come sensazioni del tutto diverse, ben conosciute da chi è pratico di questi schemi di allenamento:
    • Nel primo caso la sensazione è di bruciore, di impastamento dei muscoli, e va combattuta forzandosi letteralmente a proseguire oltre la soglia del dolore che piace tanto al palestrato. E’ necessario mantenere la concentrazione sulla singola ripetizione e non su quante ne mancano, è necessario saper recuperare con il bilanciere sulle spalle a respiri profondi.
    • Nel secondo caso la sensazione è di avere i muscoli che diventano deboli, che non rispondono più ai comandi della testa, la forza che si volatilizza. E’ necessaria la grinta compressa in un periodo limitatissimo di tempo, ma esplosiva, riuscire a mantenere la concentrazione perché il movimenti rimanga fluido e corretto, coordinando tutti i muscoli nel modo migliore.
    A parità di recupero complessivo, ipotizziamo 15 minuti, una nuova ripetizione dell’1×20 è più fattibile del 3×3x90%. Nel primo caso se le 20 ripetizioni non vengono effettuate, comunque è possibile arrivare oltre le 10, forse 14-15, mentre nel secondo caso al massimo si può arrivare a 1-2 ripetizioni al massimo.


    I lavori “nervosi” sono più tassanti di quelli “metabolici”, probabilmente perché è più complicato ristabilire l’attività elettrica. Per questo motivo è possibile, dopo un intenso lavoro “neurale”, passare con successo ad un lavoro più “metabolico”: il primo non ha alterato l’equilibrio delle sostanze interno alle miofibrille, il secondo non ha bisogno di un coinvolgimento intenso del sistema nervoso. E’ possibile anche il viceversa, con più difficoltà e a patto di aver recuperato completamente il lavoro metabolico.

    L’allenamento con i pesi, essendo di tipo impulsivo, è caratterizzato da tipi di fatica che coinvolgono tutta la catena di generazione della contrazione, mentre le attività di endurance, per quanto intervallate, alla fine coinvolgono essenzialmente i meccanismi metabolici.

    Integratori per la fatica

    A questo punto dovrebbe essere chiaro il motivo per cui esistono integratori a base di elettroliti, cioè sostanze che disciolte in acqua creano una carica elettrica: l’idea è di ristabilire gli equilibri interni ed esterni alle strutture muscolari.

    Funzionano? Permettetemi la mia opinione.

    Come sempre, in palestra c’è l’attenzione maniacale a particolari che negli sport di endurance non si cagano manco di striscio. Errori, entrambi. Ovviamente, parlo a livello di massa di partecipanti, poi ci sarà quello bravissimo in queste cose sia in palestra che in bici.

    Bere per evitare la disidratazione, mangiare roba fra le serie, prima dell’allenamento, dopo l’allenamento. Integratori a base di roba che dovrebbe reintegrare livelli di altra roba che è calata… Ragazzi, ma quanto pensate di faticare in palestra? La palestra non è una attività di endurance dove, invece, un integratore di maltodestrine al momento opportuno o qualcosa per ristabilire il pH cellulare può fare la differenza fra continuare o scoppiare al bordo della strada!

    Se in palestra vomitate, siete cotti, avete i crampi, non andate un *****, ok, bevete qualcosa, bevete un Polase, ma più che altro identificate il problema perché vi state allenando sicuramente a *****. A differenza di una attività continuativa, l’allenamento con i pesi ha dalla sua la variabile del tempo di recupero. Perciò, sfruttatela.

    Spendete i soldi come volete, tanto sono vostri. Potete anche fare un bel causa-effetto, della serie “io non so una mazza di elettroliti, però se prendo questo mi sento meglio”. Ok, benissimo. Attenti all’effetto placebo, però. E alle idiozie per fregarvi: se il Calcio è importante per la contrazione muscolare, perché non utilizzare un bell’integratore a base di Calcio? Magari succhiare una stalattite o un guscio d’uovo eh…

    I tamponi, i riequilibratori elettrolitici, tutta la roba per contrastare la fatica deve essere correttamente valutata, poiché non è detto che introdurla dall’esterno faccia sì che arrivi dove serve, quando volete voi. Perciò, come sempre, attenti.

    Allenamento alla fatica ovvero “stimolare ed esaurire”

    Come sappiamo, l’allenamento è uno stimolo che stressa il nostro corpo per creare un adattamento. La fatica è l’effetto di questo stimolo: è l’esaurimento che questo stimolo crea sul sistema bersaglio. La fatica, perciò, è necessaria perché lo stimolo ottenga l’effetto voluto.

    L’organismo innesca i suoi processi di adattamento che lo portano a contrastare meglio la fatica nel futuro, in modo che possa sopportare meglio lo stesso stimolo stressante. A seconda del tipo di “fatica” si avrà un diverso tipo di adattamento, più neurale o più metabolico.

    Poiché la catena di reazioni è estremamente complessa, i vari stimoli colpiranno preferibilmente punti diversi della catena, anche se esistono molte sovrapposizioni. Allenamenti a basse ripetizioni e medi recuperi stimoleranno la resintesi del CP, altri a ripetizioni elevate esalteranno la resistenza all’acidosi delle miofibrille, mentre carichi elevati e recuperi abbondanti forzeranno il sistema nervoso a creare una intensa attività elettrica.


    Un corretto allenamento deve perciò esaurire tutti i punti della catena, ma abbiamo visto che non è possibile che ciò avvenga contemporaneamente, per questo motivo è necessario variare le tipologie di stimolo, sia durante la seduta, che fra le sedute.

    Nel disegno sopra riportato una esemplificazione dove sono state indicate le macrocomponenti di stress elettrico, E, stress lattacido, L, stress alattacido, CP. Ogni allenamento sarà caratterizzato da tipologie di stress diverse, e lo stress complessivo deve essere calcolato anche sul periodo.

    Nella selezione dei mezzi allenanti è necessario tenere in considerazione anche le abilità del soggetto che viene colpito dall’allenamento stesso: il corpo funziona in maniera globale e l’acquisizione di una abilità permette di stressarne altre.

    Ad esempio, un principiante non ha la capacità di sfruttare i suoi neuroni per inviare stimoli a tutte le sue miofibrille: non sa reclutare correttamente i suoi muscoli. Meno tessuto muscolare coinvolto, meno capacità di generare acido lattico. Perciò, inutile stressarlo subito con allenamenti ad alta intensità e alte ripetizioni, meglio invece elevare i suoi livelli di forza con l’affinamento delle capacità neurali. Questo è il senso di corretta scelta dei mezzi allenanti.

    Cedimento si o cedimento no

    Allenarsi “a cedimento” è inteso in palestra come tirare una serie fino all’incapacità muscolare a continuare il movimento. Questa è una errata interpretazione dello “stimolare ed esaurire”. L’esaurimento implica sempre il “cedimento” di qualcosa, perché solo portando al limite un elemento della “catena della fatica” questo si adatterà allo stimolo, diventando più forte.
    Il punto non è se il cedimento vada raggiunto oppure no, ma come raggiungerlo.

    E’ estremamente tassante per il sistema nervoso generare stimoli elettrici senza che sia presente la contrazione muscolare: le sensazioni di ritorno, il “sapere” che i muscoli sono andati in pappa, ci forza in uno sforzo spasmodico per tentare di farli contrarre: a fronte del fallimento della contrazione muscolare il cervello continuerà ad inviare segnali elettrici e così i motoneuroni, come se stessimo dando tensione ad un motore elettrico che non gira.

    Questa intensa attività elettrica porta al degrado della stessa con conseguenti tempi lunghi per poterla ristabilire. Questo è il motivo per cui il cedimento muscolare viene evitato nei lavori di forza: ci vorrebbe troppo per recuperare.

    Un corretto esaurimento deve essere svolto massimizzando l’esposizione allo stimolo allenante. Nessuno si allena per un 400 entra in pista e schianta un giro alla morte, ma si allena in 4×300 o 5×200: accumula acido lattico in ogni prova e “lotta” per gestirlo al meglio, ma ogni prova non è massimale in modo che il suo corpo sia esposto all’acido lattico per più tempo possibile.

    Per lo stesso motivo un 2×10 di squat è più allenante di un 1×20: maggior carico, maggior coinvolgimento di fibre esposte all’acido lattico, maggior volume di lavoro.

    Ancora, un 5×2x85% con un recupero medio è più allenante di un 3×3x90% con ampio recupero, meno stress da carico, più concentrazione su quello che viene fatto, recupero più breve: minor impegno “elettrico”, posso esporre il mio corpo ad un maggior numero di stimoli nello stesso arco di tempo.

    Nessuno ha elementi per determinare quale sia il corretto livello di “esaurimento” di un sistema energetico, ma l’esperienza insegna sempre che il “troppo” non sia sempre l’”ottimo”.

    Se però l’allenamento deve risultare efficace, la fatica nelle sue varie manifestazioni deve comunque verificarsi, perché è proprio questa che determina l’adattamento, e perciò l’efficacia dello stimolo allenante stesso.

    La chiave per l’ipertrofia è da ricercarsi all’interno di questa catena di eventi che parte dal cervello fino all’ultimo sarcomero. Ma questo sarà oggetto di altri articoli.
  • GIULIO
    The D.I.L.F.
    • May 2002
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    • Bologna - città delle 3 T: Tette, Torri e Tortellini
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    #2
    Utilissima la parte sul cedimento!

    Originariamente Scritto da Gandhi
    c'ha più zigomi che zinne dasha

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    • RAYBAN
      Ultrà
      • Feb 2006
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      #3
      Gran bell'articolo...
      sigpic

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      • Ramos
        Principe delle Zozze
        • Mar 2006
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        • Rupe Tarpea
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        #4
        Ottimo. Certo che per leggere gli articoli ogni volta devo rischiare il licenziamento ma..OTTIMO.

        Molto ingegneristico (come piace a me)


        Originariamente Scritto da Blandhi
        Fischia, niente male

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        • Dieguz
          Bodyweb Advanced

          • Sep 2008
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          #5
          l'articolo è spettacolare.

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